mercoledì 30 marzo 2011

Il movente nascosto

Se il volto tumefatto di Simonetta fosse stato l’unico segno prodotto dall’assassino, sarebbe stato più facile per l’accusa disquisire del movente.
Un ceffone, uno svenimento, la testa sbattuta sul pavimento in un moto di rabbia o frustrazione, poteva rientrare in dinamiche aggressive abbastanza comuni, quasi sempre riconducibili alla sfera affettiva.
Un delitto passionale quindi, dove la causa scatenante (la goccia che fa traboccare il vaso) può imputarsi a circostanze fortuite (il morso?), ma in cui la vera causa è latente, e dimora nella relazione affettiva esistente fra la vittima e l’aggressore.
Un delitto passionale che certo poteva indiziare l’ex fidanzato della vittima.

Tuttavia molti dubitano che si sia trattato di un delitto passionale. L’azione successiva delle coltellate mostra, nella geografia dei colpi e nell’accanimento sulle parti intime, un profilo motivazionale di natura spiccatamente sessuale, non necessariamente attiguo alle relazioni affettive della vittima.
Un profilo di cui non si rintraccia la benché minima evidenza nell’imputato di questo processo.

A seconda dei contesti abbiamo quindi due moventi possibili: quello passionale e quello sessuale.
Ed è qui che salta all’occhio l’operazione svolta al processo dall’accusa.
Poiché sull’imputato non vi erano elementi per ipotizzare devianze di alcun tipo o anche soltanto l’attitudine nota a costumi sessuali inusuali, gioco forza è stato ripiegare sull’alternativa del movente passionale traendo spunto dal noto “materiale di repertorio”.
Ecco quindi che in omaggio alle ritualità processuali sono state “esibite a prova” le lettere di Simonetta e i famigerati precedenti violenti di Raniero.
Lo scenario passionale costruito intorno ai sentimenti feriti di Simonetta, alla disputa sulle vacanze e all’uomo che ragiona soltanto con le insalatiere e quello che si trova sotto la cintola.

Ma l’operazione più sottile con cui si è cercato di sfuggire al movente sessuale è stata quella di ipotizzare, a dispetto di tante evidenze contrarie, che Simonetta si fosse inizialmente difesa impugnando un tagliacarte, poi sottratto dall’assassino e quindi usato per lo scempio finale.
Facendo “scegliere l’arma” a Simonetta, si suggerisce infatti un uso casuale e non voluto, occorso in uno stato di foga (passione) e non di desiderio (sesso).

Se si vuol credere a tutto.

Bruno Arnolfo

martedì 22 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - sesta e ultima parte

Telefonate e indagini

Il giorno successivo al delitto la polizia svolge frenetiche attività di indagine e nel volgere di poche ore dispone della maggior parte dei protagonisti della vita di Simonetta: i famigliari, gli amici, i colleghi di lavoro. Tutti in questura a riferire dove stavano, cosa facevano e quant’altro. Con la stessa rapidità, la Polizia acquisisce le prime sommarie informazioni dai pochi testimoni che nel pomeriggio del 7 agosto si trovavano nel palazzo o nelle vicinanze. Il resto deve venire dai rilievi della scientifica sulla scena del crimine.

Sono procedure standard, praticate in altre centinaia di casi, di sicuro affidamento per chi, partendo dall’assoluta ignoranza dei legami famigliari, lavorativi ed amicali della vittima, sa di doverli acquisire rapidamente se vuole disporre in tempi brevi di piste da seguire e persone da sospettare.

Bisogna fare in fretta perchè nelle prime ore, nei primissimi giorni, può sfruttarsi il vantaggio di poter raccogliere informazioni sui fatti di quel giorno, non gravate da incertezze o ricordi sbiaditi. Una insidia che col passare del tempo aumenta, e rende indistinguibile la reticenza dalla semplice dimenticanza, come si è avuto modo di vedere al processo con molti testimoni.

Bisogna fare in fretta perché gli inquirenti sanno per esperienza che le possibilità di catturare l’assassino, trascorsi alcuni giorni, diminuiscono radicalmente.

Forse nella fretta si dimenticano di verbalizzare alcune testimonianze, oppure riducono all’osso le risultanze di molte dichiarazioni. Gli uffici, all’epoca, ancora lavorano con le macchine da scrivere, mezzi che impongono sintesi preconfezionate, che non consentono le agevoli correzioni degli attuali programmi di scrittura. A parte il verbale di Paola Cesaroni, nel complesso esaustivo, tutto il resto si riduce a brevi scampoli.

Raniero Busco non è l’unico sul cui verbale non figura l’alibi per le ore del delitto. Sarà però l’unico a pagarne le conseguenze.

Raniero Busco non viene risparmiato, e se anche può essere servito a fornire informazioni sulla vittima come riferito dagli investigatori dell’epoca al processo, le tante ore trascorse in questura (praticamente l’intera giornata dell’8 agosto) e la contemporanea perquisizione presso la sua abitazione alla ricerca di indizi compromettenti (testimonianza di Del Greco al processo) sono rivelatrici di attività investigative puntuali e insistenti. Attività che però non conducono a nulla.

Vengono sentiti anche i tre portieri del complesso condominiale di via Poma, e con loro i rispettivi famigliari. Sommariamente e senza verbalizzare vengono ascoltati alcuni condomini, i pochi presenti o i pochi rintracciati in quel giorno d’agosto.

Fatta eccezione per il ragazzo segnalato dal Colonnello Danese intorno alle 16, nessuno ha visto persone entrare o uscire dalla scala B e pare strano perché i portieri e le loro famiglie, a partire dal tardo pomeriggio, sono soliti radunarsi nel cortile centrale presso una fontana per prendere il fresco e mangiare cocomeri. Forse poteva sfuggire una persona entrata alle 16, ma non una persona uscita intorno alle 18:00.

Intanto si viene a sapere da Paola Cesaroni e Salvatore Volponi della telefonata che Simonetta doveva fare alle 18:30 e che non fece. Si viene a sapere di alcune telefonate fatte da Simonetta a delle colleghe per avere informazioni di tipo lavorativo. Telefonate che si chiudono poco dopo le 17:30.

Ne emerge una fascia oraria che può confacersi alla probabile ora dell’aggressione a Simonetta: 17:45 – 18:30. Una fascia oraria in cui una persona non ha testimoni che possono dire di averla vista, e che comunque si trova a pochi passi dall’ufficio: Pietrino Vanacore.

Per gli investigatori dell’epoca è un indizio pesante perché se il palazzo era deserto (l’anziano Ing. Valle è esente da sospetti per ovvie ragioni), e nessuno è stato visto entrare o uscire e, al tempo stesso, Vanacore non era con i molti altri soggetti che sostavano presso la fontana, chi altri può essere l’assassino?

Un sospetto eccessivo di inquirenti dalle facili suggestioni?

E perche mai?

Si pensi soltanto al fatto che oggi, a seguito delle nuove indagini, sappiamo con sufficiente certezza che Vanacore entrò in quell’appartamento prima del ritrovamento ufficiale del corpo. E’ assolutamente ovvio che se questa informazione fosse già stata nota all’epoca, ancor più gli inquirenti avrebbero sospettato di Vanacore.

Cosa mancava agli inquirenti per sapere che Vanacore non era l’assassino?

Mancava la notizia di quelle telefonate a Tarano che certamente avrebbero inchiodato Vanacore alla responsabilità di aver nascosto quanto a sua conoscenza del delitto, ma che al tempo stesso lo avrebbero escluso dal novero dei potenziali assassini. Nessun omicida avrebbe infatti interesse a confidare le sue prodezze a persona completamente ignara dei fatti e pure estranea ai suoi affetti personali.

Malgrado la mancanza di queste informazioni, gli inquirenti videro giusto circa il coinvolgimento di Vanacore e questa impressione si rafforzò quando interrogarono in carcere il portiere.

Non ebbero però l’intuizione, almeno all’inizio, di pensare a Vanacore come persona coinvolta, ma non autrice del delitto. Il che obiettivamente non era facile da pensare, essendo poco ragionevole che una persona sia disposta ad essere complice di un delitto così orrendo.

Su queste riflessioni si tornerà in seguito nella disamina delle telefonate a Tarano. E’ però molto importante dire ancora una cosa sulle indagini dell’epoca in direzione del portiere di via Poma.

Quale altra constatazione fecero gli inquirenti, ancora oggi di estrema importanza?

Constatarono che a parte il corpo seminudo, niente faceva ritenere che il delitto fosse maturato nel contesto di un incontro amoroso consensuale.

Potevano forse pensare ad una cosa del genere con protagonisti una ventenne ed un uomo prossimo alla sessantina?

Ovviamente no. Ma a parte questo, gli inquirenti non lessero la scena del crimine come indicativa di un possibile intreccio amoroso, di vecchia o nuova data. Colsero invece nella ferocia delle coltellate l’indizio rivelatore di un rifiuto materializzatosi fin da subito e non certo con indosso soltanto i calzini e il reggiseno.

Infine una deduzione istintiva:

L’assassino porta via gli indumenti che lui stesso ha tolto.

Queste sono grossomodo le prime impressioni che ebbero del delitto Polizia e Procura, e sebbene oggi in troppi ci si affanni a dire che le vecchie indagini furono parziali, prevenute e, persino, professionalmente scadenti, ancora bisogna aspettare che in futuro si giudichino quelle ultime.

Al di la del comune blaterare sui progressi delle indagini scientifiche non si comprende in che cosa le nuove indagini si distinguerebbero rispetto a quelle del 90, quanto ad imparzialità, completezza e rigore deduttivo.

Oltre alle sorprendenti lacune nel disporre intercettazioni ambientali e telefoniche, laddove persone ritenute erroneamente morte non sono state controllate, tutti sanno perfettamente che dopo la scoperta del DNA di Busco sugli indumenti, l’inchiesta è virata decisa in direzione dell’ex fidanzato senza più curarsi di mantenere alcun equilibrio.

Si e forzato su tutto, a cominciare dall’alibi contraddetto, di cui la malizia nel documentarlo può sfuggire solo ad un cieco.

Si è forzato, come vedremo fra poco, sugli orari di certe telefonate.

Si è forzato, riprendendo una citazione del processo, sulle “..catene causali distinte che procedono in parallelo…”. un abile artifizio dialettico usato dal Pubblico Ministero per neutralizzare evidenze completamente contrarie all’ipotesi accusatoria.

Ma torniamo ora alle primissime indagini.

L’8 agosto 1990 viene sentito tutto il personale degli Ostelli con lo scopo, da un lato, di avere una panoramica delle relazioni interne e delle affinità con Simonetta Cesaroni, dall’altro, di cogliere nei soggetti maschi possibili sintonie al quadro delittuoso.

Non sappiamo quanto queste investigazioni interne all’ambiente di lavoro siano state intense e quanta cura sia stata dedicata alle verifica degli alibi del personale, dei loro spostamenti, delle loro relazioni con la vittima e, in generale, ogni riscontro che conduca ad avere cognizione di tutti i soggetti maschili che direttamente o indirettamente ruotavano intorno agli uffici AIAG di via Poma.

E’ lecito tuttavia pensare che i sopravvenuti sospetti in direzione di Vanacore abbiano in definitiva diminuito le attenzioni nei confronti dell’ambiente lavorativo, non essendoci relazione diretta tra l’attività dell’ufficio e i compiti del portiere.

Comunque sia i primi interrogatori offrirono un’informazione estremamente preziosa dal punto di vista investigativo. Si tratta di una telefonata che Simonetta Cesaroni fece nel pomeriggio alla signora Berrettini, allora responsabile del personale, per superare una difficoltà di tipo lavorativo nell’inserimento di codici identificativi.

Tralasciando ora i dettagli di queste deposizioni, ciò che è importante stabilire è che l’intreccio di telefonate che seguirono alla prima telefonata della Cesaroni alla Berrettini, per come è stato descritto da ben tre testimoni (Luigina Berrettini, Anita Baldi e Salvatore Sibilia), offre un quadro preciso e concordante del fatto che Simonetta chiuse la conversazione con la Berrettini (la seconda di quel giorno) non prima delle 17:30 e non oltre le 17:45.

Deposizioni rese il giorno successivo al delitto, e quindi estremamente importanti sotto il profilo dell’affidabilità dei ricordi.

Un orario, tuttavia, che mal si acconcia alla possibilità che l’assassino sia stato Raniero Busco.

Seguendo l’ipotesi sostenuta dall’accusa di un incontro voluto da Simonetta d’intesa col fidanzato, nel quale i due prima discutono di alcuni aspetti legati alla loro difficile relazione, e poi si piegano alle reciproche attrazioni carnali sfociate in un morso e poi in una aggressione mortale, il tempo occorso può stimarsi in mezz’ora.

Tutto ciò, si badi, accettando che i due siano rapidamente transitati da una aspra discussione ad una tenera e disinvolta intimità nella quale la vittima si sposta in un’altra camera, si toglie le scarpe (riposte con cura sul bordo del muro) e poi si denuda per concedersi all’amato nell’originale posa in calzini e reggiseno. Una generosità ripagata dal fidanzato con un morso recidente e doloroso al seno, che scatena la ribellione della vittima, che si arma di un tagliacarte e tenta di difendersi, ma viene sopraffatta da un ceffone, prima, e dalle pugnalate con lo stesso tagliacarte, poi.

Tutto ciò senza che sul corpo di Simonetta si notino in autopsia segni di una tentata difesa.

Concessa una mezzora di tempo per una simile improbabile dinamica, un’altra mezzora va concessa per le pulizie successive, così da arrivare ad un’ora complessiva. Poi occorre ancora tener conto che dopo la telefonata risolutrice della Berrettini, Simonetta carica a terminale i dati di due prime note e soltanto alla terza si interrompe di colpo, forse per aprire la porta al fidanzato che citofona o bussa alla porta. Altri 10- 15 minuti, quindi.

Fatte le dovute compensazioni si può quindi stimare che alle 19:00 Raniero Busco è sulla propria auto pronto a partire per far riento a casa, disfarsi degli indumenti della vittima, cambiarsi, lavarsi, e recarsi al Bar dei Portici a ….caccia di testimoni.

Sapendo che il tempo di percorrenza da Via Poma alla residenza di Busco è di 40 minuti, è assolutamente ovvio che non può avercela fatta.

Serve mezzora in più.

Serve che Simonetta, la Berrettini, la Baldi e anche Sibilia, sbrighino le loro faccende dei codici identificativi mezzora prima di quanto è segnato sui verbali dell’8 agosto 1990.

Serve che qualche ricordo del 2010 appaia più verosimile di quelli di ventanni prima.

Serve di tutto, anche orologi ad alta velocità.

Serve soprattutto che gli aggiustamenti non producano un effetto contrario a quello desiderato, ove il postumo mutamento degli orari potrebbe intaccare la buona fede dei testimoni a suo tempo risoluti e concordi nell’affermare che la sequenza cronologica delle telefonate coprì la fascia oraria compresa fra le 17:15 e le 17:35. Potrebbe infatti palesarsi il sospetto che l’orario indicato all’epoca celasse, non un errore, ma il proposito fraudolento di proteggere qualcuno a cui conveniva che Simonetta risultasse ancora viva alle 17:30.

D’altro canto, al di là delle esigenze di chi accusa o di chi difende, non pare fuori luogo ipotizzare che le telefonate siano avvenute prima di quanto indicato nel 1990 e ciò per due motivi:

  1. le risultanze peritali riguardo ai tempi di digestione che mostrerebbero come probabile un orario del decesso intorno alle 17:00

  2. l’avvio del computer alle 16:37 che secondo logica dovrebbe distare pochi minuti dall’esigenza sopravvenuta a Simonetta di avere informazioni di dettaglio sui codici identificativi.

Se dunque può esservi valido motivo per propendere sull’ipotesi di un delitto commesso prima delle 17:30, e quindi con apparente vantaggio per le tesi accusatorie, resta il sospetto di aggiustamenti orari (quelli fatti nel 1990) funzionali alla copertura di un cosiddetto territoriale. Il che esclude ogni coinvolgimento di Raniero Busco.

Ma queste non sono le uniche telefonate cruciali di quel giorno.

In base alle ultime indagini e ai riscontri dibattimentali è stato accertato che la sera del 7 agosto 1990, altre due telefonate, presumibilmente fatte dall’ufficio di Via Poma, giunsero alla residenza estiva dell’Avvocato Caracciolo di Sarno, all’epoca Presidente Aiag, la prima intorno alle 20:30, la seconda alle 23 circa. Per la precisione queste telefonate giunsero alla residenza del fattore il sig. Macinati, in quanto l’avvocato non aveva il telefono presso la sua residenza situata a 16 km. di distanza, per cui era usuale che si telefonasse al fattore che poi riferiva a Caracciolo.

Poiché le telefonate, della stessa persona, rivelavano entrambe una forte urgenza di parlare con l’Avvocato Caracciolo, si è da subito sospettato potessero essere in relazione con il delitto avvenuto negli uffici di Via Poma, anche perché l’apparecchio telefonico situato nell’ufficio in cui lavorava Simonetta rivelò la presenza di sangue sui tasti numerici, a testimonianza di un uso postumo al delitto.

Altri particolari quali l’agendina di Vanacore, forse rinvenuta sul luogo del delitto (di ciò non si ha certezza), nonché la confidenza che Macinati fece ad un maresciallo dei Carabinieri circa il fatto che fu Vanacore a telefonare a Tarano, erano estremamente indicativi di una relazione fra le telefonate e il delitto.

In udienza si è avuta conferma dallo stesso Macinati, dal figlio e dalla moglie (colei che ricevette materialmente le chiamate) di queste telefonate, ma riguardo all’autore delle medesime vi è stata la retromarcia di Macinati che ha infine sostenuto di non sapere chi fosse l’autore.

In effetti qualche motivo di dubbio vi sarebbe riguardo a Vanacore, più che altro perché pare poco verosimile che egli scegliesse di informare Caracciolo piuttosto che la Polizia, come già esposto nel precedente capitolo.

Senonchè, tolto Vanacore, resta il solo assassino a sapere del delitto negli orari riferiti da Macinati, per cui a questi bisognerebbe imputare un motivo plausibile per comunicare con urgenza con Caracciolo.

Quale?

Non certo la necessità di avere dei suggerimenti dall’avvocato Caracciolo su come celare alla polizia di essere l’assassino.

Neppure la possibilità di procurarsi un alibi, dal momento che l’ufficio e l’abitazione romana di Caracciolo sono troppo vicine a via Poma.

Resta una sola ragione, ma estremamente importante, che poteva indurre l’assassino a contattare con urgenza Caracciolo di Sarno: l’ipotesi che questi sapesse chi doveva passare in ufficio quel pomeriggio.

Una situazione di questo tipo avrebbe reso estremamente vulnerabile la posizione dell’assassino nei confronti di chiunque fosse a conoscenza del suo fatale impegno pomeridiano. Così vulnerabile da imporre immediate contromisure per assicurarsi il silenzio di questa persona, a mezzo di una disperata confessione oppure di una plausibile bugia (es: sono entrato …ho visto il corpo…. ho avuto paura….ho famiglia……non voglio che sospettino di me).

Ovviamente nel caso non sia stato Vanacore a telefonare, le telefonate non sarebbero partite da Via Poma ma da una diversa località, essendo assai improbabile che l’assassino o chi per esso abbia sostato nell’ufficio di via Poma negli orari indicati (20:00 e 23:00). Circostanza questa che impone che l’assassino abbia comunque usato il telefono di via Poma dopo il delitto (macchie di sangue sulla tastiera) per altre possibili chiamate.

In ogni caso non è stato dimostrato che il tentativo di informare Caracciolo sia andato a buon fine, nel senso che il messaggio sia effettivamente pervenuto al Presidente Aiag (l’interessato ha negato di essere stato avvisato da Macinati).

Quello di cui vi è certezza, è che l’accusa non può permettersi di ipotizzare che l’autore delle telefonate a Tarano sia soggetto diverso da Vanacore, unico a cui può imputarsi, e non senza fatica, di aver agito mosso da timori infondati e che generano, secondo il Pubblico Ministero, le “ catene causali distinte che procedono in parallelo”.

L’unico, si aggiunga, che non può più contraddire le affermazioni dell’accusa.

Restando comunque alle conclusioni dell’accusa, e quindi seguendo l’ipotesi che sia stato Vanacore l’autore delle telefonate, non ci si può esimere dall’indagare i motivi che avrebbero indotto il portiere a compiere tale azione dopo la scoperta del cadavere.

In generale può anche credersi che Vanacore abbia desistito dal chiamare la Polizia.

Si può ben capire, insomma, il timore di chi si sarebbe trovato costretto a dover spiegare il motivo dell’ingresso nell’appartamento, particolarmente imbarazzante nel caso si dovesse raccontare di una porta socchiusa (la Polizia, infatti, diversamente da talune Corti d’Assise, non crede agli assassini che uccidono, sostano mezzora in una stanza, poi prendono le chiavi e …lasciano la porta aperta!)

Ma se la reticenza a chiamare la Polizia è plausibile, del tutto privo di logica appare l’aver avvisato (o cercato di avvisare) i datori di lavoro di Simonetta.

Non si comprende infatti la ragione per cui un uomo determinato a farsi i fatti suoi e ad evitare noie con la polizia, avrebbe al contrario sentito la necessità di rendere partecipi della scoperta altre persone, esponendosi quindi ad un coinvolgimento che pareva voler evitare.

Anche qui, come per il delitto, serve un movente per agire in tal modo, altrimenti si sconfina nell’assurdo.

Serve una motivazione sufficientemente logica da spingere il portiere a scansare la polizia, ma al tempo stesso chiamare Caracciolo e richiamarlo ancora sul tardi.

Secondo il Pubblico Ministero la motivazione risiede nel timore che il portiere aveva circa un possibile coinvolgimento nel delitto di persona interna all’ambiente di lavoro, che avesse con Simonetta una relazione.

A suffragare la tesi, lo stato del corpo seminudo, possibile indizio (anche per Vanacore) di un segreto incontro amoroso finito malamente.

Potrebbe essere?

Certamente la scena suggerirebbe a chiunque di pensare ad un “interno”, e Vanacore aveva pure il vantaggio (che non avevano gli investigatori) di poter escludere se stesso come autore del crimine.

Ma una tale osservazione, per quanto esatta, non è sufficiente ad indicarci che Vanacore sentisse il bisogno di confidare la cosa ad uno dei principali. Egli poteva benissimo tenersi questa deduzione per se, in omaggio all’intenzione di farsi i fatti suoi.

Dunque quale ulteriore ragione poteva spingerlo a chiamare l’avvocato Caracciolo?

Fatalmente occorre considerare la possibilità che Vanacore potesse aver visto di più di quanto ipotizzato dall’accusa (la scoperta casuale del cadavere) e che fosse proprio quell’avvistamento ad indurlo a salire al terzo piano per verificare.

Una decisione fatale, perché entrando deliberatamente nella stanza in cui scoprirà un cadavere, Vanacore si priva (senza volerlo ovviamente,) della possibilità di raccontare il fatto alla polizia senza dire chi aveva visto fuggire (come già detto, il portiere non può pensare che la polizia crederebbe ad un ingresso fortuito).

Ora è probabile che il portiere di fronte alla scelta di dire tutto (scoperta del cadavere, avvistamento e riconoscimento dell’uomo in fuga) o di non dire niente, abbia temporeggiato e infine deciso che forse poteva delegare ad altri questa scelta, a persona che oltre ad essere il responsabile di quegli uffici era un avvocato che poteva pure consigliarlo sul da farsi. Tenta quindi con queste chiamate a Tarano, infruttuose.

Infine desiste, e decide di farsi da parte, di non farsi vedere dai primi soccorritori.

Di tacere.

In carcere sospettato di omicidio, capisce di non poter dire, tre giorni dopo il delitto, di essere entrato nell’appartamento, fosse anche per un nobile motivo. Teme per se, per la sua famiglia, e infine concede agli inquirenti la mezza verità dell’uomo visto fuggire, non da lui ma dalla moglie, un uomo, necessariamente, sconosciuto.

Può pensarsi a molti altri motivi che possono aver indotto Vanacore al silenzio, di più maliziosi.

Oppure si può credere alle famose “catene causali distinte che procedono in parallelo” , e cioè a Vanacore che entra per caso, che vede un corpo martoriato e rimane di pietra, che chiama i principali per avvisarli che un loro dipendente ha combinato un casino, che seccato per non aver trovato nessuno si nega lo stesso alla polizia e va a dormire dall’anziano architetto.

Una “catena causale” che include, e vengono i brividi soltanto a pensarlo, la decisione di uccidersi piuttosto di dire la banale, comoda e innocente storiella dell’ingresso casuale che nulla ha a che fare col delitto.

E’ più facile credere agli oroscopi.

L’8 marzo 2010 Vanacore si è ucciso affogandosi in mare e consegnando ai posteri l’atto di accusa di vistosi cartelli, troppo esibiti per essere veri.

Non convince la storia della persecuzione giudiziaria o dei media, che infine lo spinge a farla finita. Ben più grave era la persecuzione quando stava in carcere con l’accusa di omicidio. Oppure due anni dopo quando ad essere accusato era Federico Valle e lui di favoreggiamento.

Perchè mai un uomo che ha resistito a pressioni psicologiche così forti, cede di schianto quando di fatto non esiste più alcuna accusa di essere stato complice di un delitto?

Tutti quanti, e quindi ciascuno di noi, hanno esortato Vanacore a dire la verità, quasi esistesse un modo per farla riconoscere inequivocabilmente. La verità non è invece riconoscibile da nessun gesto o parola, e spesso non viene creduta.

Vanacore lo ha sempre saputo e per timore di non essere creduto e peggiorare la sua posizione, decise di non dire la verità, di tenerla per se.

Finchè gli viene offerta una verità monca, abbastanza vera per essere creduta, ma falsa quanto basta per condannare un innocente.

La persecuzione di magistrati e giornalisti sarebbe finita, forse anche quella del vero assassino, ma quella della coscienza lo avrebbe distrutto, perché infine si può tacere, ma non mentire a danno di un uomo innocente.

Ha scelto di tacere, nel modo che gli è sembrato più facile.


[Parte 1]

[Parte 2]

[Parte 3]

[Parte 4]

[Parte 5]

Bruno Arnolfo

giovedì 17 marzo 2011

Quell'applauso in aula di tribunale

E' il 20 gennaio, 6 giorni prima della sentenza di condanna a 24 anni, e l'avvocato della difesa Paolo Loria fa la sua arringa.
Che è parsa essenziale, decisa, convincete, assolutamente sufficiente nelle sue argomentazioni ad istillare il 'ragionevole dubbio' con cui non si dovrebbe condannare, in assenza di prove certe.
Ad un certo punto tocca un aspetto fondamentale nella vicenda personale dell'imputato, l'aspetto della sua collaborazione con gli inquirenti e della sua disponibilità verso gli accertamenti della giustizia.

E dice:
'... perchè Busco, ricordiamoci, poteva non farlo; si è sempre presentato a dare il sangue per fare le analisi, non una volta ma tre o quattro volte; si è sempre presentato a lasciare i campioni di saliva e non una ma tre o quattro volte, e poteva, essendo stato indagato, assolutamente rifiutarsi e forse, se si fosse rifiutato, non staremmo qui al processo davanti a voi...'

E qui scatta in aula un applauso spontaneo, fragoroso da parte delle persone del pubblico che sono venute per sostenere l'imputato e la sua difesa.

Ma, reazione emotiva a parte, questo aspetto è importantissimo.
Non si può ignorare.
In particolare la disponibilità all'acquisizione dell'impronta dentaria.
In molti sono convinti che senza la perizia sul presunto 'morso' non si sarebbe arrivati nemmeno al processo. Gli indizi erano pochi e insufficienti e senza l'impronta dentaria non ci sarebbero state argomentazioni per collocare Raniero Busco nella contestualità dell'omicidio. Non sarebbe stata considerata probante la perizia basata su fotografie dei segni sul corpo e filmati dell'epoca dove veniva ripreso l'imputato mentre parlava.
Non serve a nulla rimproverare l'ingenuità difensiva a consentire qualsiasi accertamento sulla persona dell'imputato, ma certo non ci può sfuggire una riflessione:

chi, sapendo di aver commesso un omicidio e, nel contesto omicidiario, sapendo di aver morso la vittima, pur potendosi rifiutare, avrebbe acconsentito a farsi prelevare l'impronta dentaria?

Gabriella Schiavon

mercoledì 16 marzo 2011

Catene causali distinte che procedono in parallelo

…catene causali distinte che procedono in parallelo…

Le parole hanno a volte un effetto magico, come succede per i brani di certe canzoni che ci colpiscono più per il timbro musicale della frase che non per il senso letterale.
La frase pronunciata dal Pubblico Ministero durante la requisistoria, pare una massima, un assioma, un postulato a cui non può farsi a meno di credere.
La struggente concatenazione di parole che conducono al senso opposto del comune percepire.
L’inverosimiglianza che diventa naturale, semplice e credibile.

Nel caso di via Poma la “catena causale che procede in parallelo” si manifesta secondo il PM nell’episodio dell’ingresso di Vanacore nell’appartamento in cui è stata uccisa Simonetta, e nelle azioni che ne sono seguite.

Si guardi a questo episodio con mente fredda.

Sappiamo che un uomo – Mister A - entra in un ufficio dove scopre il cadavere di una donna uccisa a coltellate. Quest’uomo telefona al titolare di quell’ufficio - Mister B - ripetutamente. Poi chiude l’appartamento a chiave e quando arrivano persone che cercano quella donna non si fa vedere.

Ed ora gli interrogativi più importanti:
- perché l’uomo entra nell’appartamento?
- perché l’uomo non chiama la polizia?
Ora, accade che una persona – Mister C – viene sospettata del delitto ma questa persona non conosce “Mister A” e nemmeno la persona che Mister A chiamò quella sera, ossia Mister B.

La deduzione più semplice sarebbe che Mister C non c’entra nulla, a meno di una improbabilissima ipotesi:
Mister A è una persona senza cuore, ottusa e servile, che crede suo dovere chiamare i padroni per informarli che forse fra i suoi dipendenti c’è qualche sporcaccione, ma in realtà non sa nulla.
Passi questa remota eventualità, ma rimane ancora una cosa inspiegabile: se non sapeva nulla, che motivo aveva di entrare nell’appartamento?
Come si fa, ora, a …..procedere in parallelo?

Non resta che un’altra possibilità: la porta aperta!

Anche l’assassino – Mister C - è una persona ottusa, uno che prende le chiavi di quell’appartamento ….. ma poi non chiude la porta!
Strano soggetto Mister A. Invece di stare in cortile con i colleghi e la moglie a mangiare l’anguria e far riposare la schiena a pezzi, se ne va a passeggio per le scale così da scorgere la porta aperta … entrare ….. e fare il servo omertoso.

Quando vent’anni dopo si chiede a Mister A di venire in aula a raccontare la strana storia che permette di continuare ad accusare Mister C, l’uomo non se la sente di raccontare quella storia, e si uccide.
Era depresso, diranno gli uomini che credono alle “catene causali distinte che procedono in parallelo..

Bruno Arnolfo

martedì 15 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - parte 5

Le ricerche

Il primo segnale di una anomalia circa la situazione negli uffici degli ostelli della gioventù si registra alle 18:30 (oppure 18:20 secondo altre annotazioni), quando in base a precedenti accordi la Cesaroni non informa telefonicamente il proprio datore di lavoro circa la conclusione o l’andamento dei lavori programmati per quel giorno.

Sebbene questa informazione provenga dal solo Volponi e non abbia altri riscontri, pare del tutto ragionevole che il datore di lavoro avesse necessità di avere certezza della conclusione dei lavori, proprio per le già riferite apprensioni mattutine da lui stesso riferite al processo: “Si doveva finire questo lavoro altrimenti l'Avvocato ci avrebbe distrutti, strizzati...”.

La mancata telefonata è la prima informazione che Salvatore Volponi riferisce alla sorella di Simonetta intorno alle 21:00 di quel 7 agopsto 1990, quando iniziano le frenetiche ricerche dei famigliari.

Prima però di sviluppare ulteriori riflessioni circa i fatti occorsi durante le ricerche che Paola Cesaroni svolgeva per rintraccaire la sorella, occorre dar conto compiutamente di alcune evidenze processuali che ruotano intorno alla figura di Volponi.

La questione più dibattuta al processo, e più in generale nei 21 anni trascorsi dal delitto, è stata infatti quella di chiarire se Salvatore Volponi conoscesse o meno l’ubicazione degli uffici AIAG e, di conseguenza, fosse già stato, o meno, in via Poma.

Una questione della massima importanza perché se fosse vero che Volponi conosceva l’esatta ubicazione degli uffici, l’averlo celato fin dai primi momenti in cui Paola Cesaroni iniziò le ricerche, rivelerebbe un coinvolgimento attivo nella vicenda, i cui risvolti potrebbero essere decisivi nel dipanare il mistero di via Poma oltre ad escludere la responsabilità penale di Raniero Busco.

Occorre duunque riassumere, seppure in sintesi, quali sono gli elementi che depongono a favore di una conoscenza pregressa da parte di Volponi dell’indirizzo e dei luoghi ove la Cesaroni lavorava il pomeriggio del 7 agosto 1990.

Ecco l’elenco:

  1. la sensazione di Paola Cesaroni, più volte ribadita, che Volponi cercasse volutamente di prendere tempo, fingendo di non conoscere l’indirizzo e attuando azioni dilatorie allo scopo di rallentare le ricerche,
  2. la senzazione, sempre di Paola Cesaroni, di uno stato di agitazione eccessivo e sospetto dello stesso Volponi,
  3. le dichiarazioni rese da Giuseppa De Luca e da Mario Vanacore in cui affermano di aver udito Volponi presentarsi quella sera con l’eloquente “Signora, si ricorda di me?”,
  4. le dichiarazioni rese da Pietrino Vanacore e dalla moglie Giuseppa de Luca circa visite effettuate in più occasioni agli uffici di Via Poma,
  5. l’apparente dimestichezza con cui si muove nel cortile di via Poma e, successivamente, nell’appartamento al 3 piano,
  6. le dichiarazioni di Menicocci che rammenta, pur con qualche dubbio, incontri di presentazione della nuova impiegata avvenuti in via Poma alla presenza di Volponi.
Dunque una serie di riscontri, pure convergenti fra loro, che autorizzano ben più di un sospetto.

Non va dimenticato, tra l’altro, che pure il Pubblico Ministero, ad inizio processo, aveva delineato un coinvolgimento di Volponi, precisando anche il contesto in cui poteva essere maturato. Indicò infatti in Vanacore l’uomo che aveva informato lui ed altri circa quanto era accaduto (il rinvenimento accidentale del corpo), alludendo quindi a possibili intese fra i due, che in seguito avrebbero forzato Volponi a mentire a Paola sulla conoscenza dell’indirizzo e a rallentarne le ricerche.

Ora non preme disquisire sulla fondatezza dell’ipotesi del PM, peraltro in seguito abbandonata, quanto constatare l’evidente imbarazzo che suscitano le circostanze segnalate nell’elenco, tali da indurre chiunque a dubitare della buona fede di Volponi.

Ma vi sono altre persone di cui dubitare?

Si ponga estrema attenzione a questo interrogativo, perchè è fatale che se Volponi mentì riguardo alla pregressa frequentazione degli uffici AIAG di via Poma, pure mentirono coloro che in quegli uffici lavoravano, negando di aver visto Volponi da quelle parti.

Questa imprescindibile constatazione non può essere elusa, e sebbene possa concedersi per qualcuno degli impiegati la possibilità che le visite di Volponi fossero sfuggite alla loro attenzione, certo non si può affermare che tutti non si accorsero di queste visite.

Resterebbe da stabilire chi fra i frequentatori dell’ufficio decise deliberatamente di proteggere Volponi e, soprattutto, per quale grave ragione lo fece, posto che non può credersi che ciò sia avenuto per futili motivi.

Risulta quindi ineludibile la seguente equazione: se Volponi ebbe pregresse frequentazioni degli uffici di Via Poma, coloro che negarono il fatto furono, a vario titolo, coinvolti nel delitto.
Una trama dunque che si dispiegherebbe interna all’ambiente di lavoro e che in assoluto esclude Raniero Busco da qualsivoglia responsabilità.

Ma se è lecito dubitare della buona fede di Volponi e trarne, come innanzi fatto, le più logiche conseguenze, pure necessario è considerare la possibilità che Volponi non avesse mentito in modo così clamoroso e che al contrario ignorasse realmente l’ubicazione degli uffici AIAG, come del resto ha infine sostenuto l’accusa.

Questa ipotesi consentirebbe di recuperare a verità le testimonianze degli impiegati AIAG che appunto affermarono di non aver mai visto Volponi in via Poma. Del resto se gli impiegati AIAG di via Poma avessero, viceversa, visto Volponi in Via Poma, è plausibile pensare che lo avrebbero affermato risoluti, per cui sarebbe stato alquanto rischioso per Volponi affermare falsamente il contrario, prima a Paola Cesaroni e successivamente agli inquirenti che quella notte lo interrogarono.

Come si vede la discordanza delle testimonianze impedisce di avere certezze riguardo alla cruciale questione della sincerità di Volponi sullo specifico aspetto della conoscenza dei luoghi.

Nel processo di 1° grado, come già ricordato innanzi, l’accusa ha infine scelto di credere alla sincerità di Volponi.

Tale decisione, più che essere aderente ai riscontri processuali (che semmai sono di senso contrario), pare volersi accordare all’affermata colpevolezza di Raniero Busco, cosa che risulterebbe impossibile ove si affermasse che Volponi ha mentito, e con lui tutti, o quasi tutti, gli impiegati AIAG.

In questa trattazione, tuttavia, non si vuole a tutti i costi contrastare le ipotesi predilette dall’accusa, soltanto perché apparentemente nocive agli interessi dell’imputato. D’altra parte la questione riferita alla sincerità di Salvatore Volponi, non si esaurisce certamente nell’unica problematica della conoscenza o meno dell’indirizzo. Ben altre possono essere le questioni sulle quali il testimone può essere stato reticente, e pure queste possono rivelare scenari ben lontani da ogni coinvolgimento dell’attuale imputato.

Posto quindi che Volponi potrebbe aver detto la verità riguardo all’indirizzo, è opportuno verificare se vi sono elementi che possono suggerire altre, e forse più gravi, negligernze del testimone.

Per farlo occorre partire dal riscontro più attendibile riguardo alle ricerche fatte quella drammatica sera: il racconto di Paola Cesaroni.


Le fonti disponibili risalgono alla deposizione processuale, nonché ai verbali dell’epoca, uno dei quali molto prossimo agli eventi essendo stato redatto l’8 agosto 1990.
Va da subito notato che risultano alcune differenze fra le deposizioni a verbale dell’epoca e il più recente esame testimoniale. La principale risulta essere quella riguardante la prima visita di Paola Cesaroni e dell’allora fidanzato Antonello Barone, presso l’abitazione di Volponi. All’epoca Paola Cesaroni affermò di essere salita all’appartamento di Volponi, mentre in udienza questo particolare non è stato menzionato. Vi è tuttavia motivo di credere che il ricordo dell’epoca sia del tutto attendibile, per cui può affermarsi che il 7 agosto 1990 Paola Cesaroni salì due volte all’appartamento di Volponi.

Fatta questa precisazione, occorre anzitutto soffermarsi su questa prima visita e sul racconto che ne restituisce Paola Cesaroni.

Quello che emerge con evidenza è il fatto che Volponi pare da subito essere preoccupato, tanto che già alla prima visita decide di far salire Paola Cesaroni. Che si tratti del riferimento alle minacce subite da Simonetta ( verbale Paola Cesaroni del 8.7.90), oppure ad altri fattori, è evidente che il comportamento appare molto sollecito ed apprensivo, forse rivelatore di preoccupazioni già in essere. Del resto è lo stesso Volponi ad affermare di aver quasi avuto l’intenzione di rintracciare la sua dipendente per avere rassicurazioni sul lavoro eseguito. Nulla vieta quindi di pensare che il tentativo di rintracciare Simonetta sia in effetti avvenuto e sia consistito in una chiamata diretta all’ufficio di Via Poma, a cui nessuno rispose.

Infatti non si può escludere che l’orario riferito da Volponi della telefonata attesa per le 18:30, celi in realtà un accordo in cui era previsto che fosse lo stesso Volponi a telefonare per avere notizie del lavoro.

Se così fosse si potrebbe affermare che Salvatore Volponi ebbe sentore di accadimenti imprevisti ben prima della visita di Paola Cesaroni. Accadimenti che alle 18:30 potevano essere variamente interpretati senza includere esiti tragici (Simonetta che se la svigna in anticipo), ma che alle 21:00, con la certezza del non ritorno a casa, potevano anche far temere qualcosa di meno rassicurante.

Si è a lungo discusso, anche al di fuori dell’ambito processuale, sulla possibilità che Volponi già sapesse dell’accaduto, tanto da ipotizzare che l’affermata non conoscenza dell’indirizzo, altro non fosse che un artifizio utile a prendere tempo in favore di chi aveva necessità di riordinare il luogo del delitto prima che si scoprisse il cadavere.

Ipotesi che ovviamente non poteva coinvolgere Raniero Busco, completamente sconosciuto a Volponi, fatto salvo lo scenario ipotizzato inizialmente dalla Procura, dell’intesa fra Vanacore e lo stesso Volponi, di cui si avrà modo di parlare quando si tratterà del coinvolgimento del portiere.
A fianco quindi dell’ipotesi estrema di Volponi già edotto dei fatti, può aggiungersi l’ipotesi più moderata di un Volponi che avesse motivo per temere qualcosa di grave.

Non dunque un Volponi che sa, ma un Volponi che teme.

Invero, l’ipotesi più moderata appare anche la più plausibile alla luce del fatto che l’assassino, chiunque esso sia, non aveva certo interesse a rendere partecipi altre persone di quanto accaduto, se non coloro a cui fosse impossibile celare la verità (es.: un familiare).

Accordata quindi alla tesi “Volponi temeva” il rango di “fatto verosimile” si può vedere se nei suoi comportamenti successivi sono rinvenibili elementi che depongono a favore di questa tesi.

Proseguendo quindi nel racconto di Paola Cesaroni, abbiamo notizia di una seconda visita presso l’abitazione di Volponi, intorno alle 21:30 . Paola riferisce degli infruttuosi tentativi fatti al recapito telefonico dello studio dell’avv. Caracciolo, poi di affannose ricerche di altri soggetti a cui telefonare per avere notizie.

Merita di essere segnalato questo fondamentale passaggio delle dichiarazioni rese il 16 agosto 1990:
"...poi mi diceva che stava telefonando ad un certo avvocato Caracciolo e ad una signora, non ben definita, la quale doveva telefonare a mia sorella nel pomeriggio, ma neppure questa veniva rintracciata, in quanto non ne ricordava il nome.

Emerge dunque che il lavoro che Simonetta Cesaroni doveva svolgere quel giorno, non era svincolato dalla normale routine dell’ufficio, né privo di attenzioni, tanto da esigere interventi diretti ad avere puntuale riscontro dell’attività svolta.

Uno scenario che mal si addice al preteso incontro amoroso fra fidanzati, bisognoso semmai di situazioni gestibili a tale scopo e quindi prive di qualsivolgia insidia rappresentata da verifiche lavorative.
Si ripropone quindi la questione della compatibilità del profilo caratteriale di Simonetta Cesaroni rispetto all’intenzione di utilizzare l’ufficio per incontrare il fidanzato, resa ancor più improbabile dalla circostanza segnalata.

Dalla citazione di cui sopra emerge anche che Volponi era al corrente di queste verifiche pomeridiane, il che conferma l’impressione già esposta circa possibili accordi raggiunti quella mattina.

Più arduo è stabilire in quale misura Volponi possa aver dissimulato in quel colloquio con Paola Cesaroni, le sue reali conoscenze. Indizi in tal senso non mancano e si rintracciano in diversi momenti del racconto pervenutoci dalla sorella della vittima.

Più di tutte, però, appare rivelatrice la scena finale del ritrovamento del corpo, non solo per come viene descritta da Paola Cesaroni, ma anche per come emerge dalle risultanze processuali, in particolare per le deposizioni rese al processo da tutti i protagonisti del ritrovamento.

Fu lo stesso Volponi ad entrare per primo nei locali. La prima stanza visitata era quella di fronte all’ingresso, a sua volta comunicante con quella in uso alla Cesaroni.

Un particolare importante perché soltanto in questa stanza fu accesa la luce. Non così nella stanza del dr. Carboni, dove la luce fu accesa soltanto in un secondo tempo da Antonello Barone il quale dovette persino far uso di un accendino per individuare l’interruttore.

Sappiamo quindi dai protagonisti di quel ritrovamento che la stanza era buia ed era unicamente visibile una sagoma distesa a terra.
Solo una sagoma scura, che tuttavia non impedisce a Volponi di capire cosa fosse accaduto, di uscire con le mani fra i capelli, percorrere il corridoio dove si trova Mario Vanacore che lo ode pronunciare una parola: “bastardo!”.

Due fatti colpiscono: la rapida percezione, pure al buio, di un esito fatale (Volponi non tocca il corpo, né si avvicina a sufficienza da poter scorgere le ferite); l’uso della parola “bastardo!”
Riguardo alla percezione immediata di quanto accaduto, viene da pensare che l’agitazione di Volponi non fosse il frutto di una ansietà congenita all’individuo, bensì la conseguenza di informazioni a lui note (ma mai rivelate) che evidentemente potevano evocare risvolti drammatici.

Informazione che forse coincide con la figura del “bastardo”, una espressione che Salvatore Volponi ha ammesso di aver pronunciato, negando però ogni significato allusivo “ad personam”.
Secondo Volponi, la parola fu da lui pronunciata in senso generico, a condanna di un gesto più che di una persona.

Ammesso che sia usuale, in frangenti simili, fare uso di siffatte espressioni generiche, si fatica a comprendere come potesse dedursi, dalla sola vista al buio di un corpo disteso, che si trattava di una azione condotta da un feroce aggressore, appunto un “bastardo”.

Finchè la stanza rimase al buio, nessuno dei soccorritori ebbe una chiara visione di ciò che era accaduto, tanto che nessuno notò ferite o sangue sul pavimento, solo un corpo inanimato che nell’oscurità nulla poteva rivelare circa una ipotetica aggressione. Forse poteva scorgersi la seminudità, ma da ciò non poteva dedursi così rapidamente una aggressione a sfondo sessuale ….a meno di sospettarla!

Ecco quindi che riappare ciò che in premessa a questa analisi si è ipotizzato riguardo a Volponi, e cioè che quella drammatica scoperta non fosse per lui del tutto inaspettata, il che conduce al cruciale interrogativo se i timori di Volponi avessero un fondamento o meno.

Cruciale e decisivo in quanto è evidente che se i sospetti erano fondati, nessun dubbio vi sarebbe riguardo l’estraneità dell’imputato al delitto.

Questo tema ritornerà prepotentemente nella disamina relativa al rinvenimento del corpo da parte di Pietrino Vanacore, con i medesimi interrogativi. Non occorre, tuttavia, anticipare altri motivi di esame, avendo ancora da discutere dei comportamenti di Salvatore Volponi, quel giorno, quella notte e nei giorni e anni a venire.

Quel che sappiamo è che Salvatore Volponi, a dispetto di certe evidenze, ha sempre negato (o taciuto) di sapere di qualcuno che avesse motivo di recarsi nell’ufficio quel pomeriggio.

E se è lecito sospettare si tratti di un comportamento reticente, pure non bisogna stupirsi che lo sia.
Sappiamo per esperienza che i testimoni tendono a nascondere maggiormente ciò che sospettano, piuttosto che ciò che sanno, e questo perché la coscienza comune impone prudenza quando si riferiscono cose probabili ma non certe, fatti presunti ma non conosciuti, specie nei casi di accadimenti particolarmente gravi. In una parola: se non si è certi di una cosa, non la si riferisce.

E cosi accade che un fatto che non viene riferito alla prima occasione utile, non si ha più la forza di riferirlo dopo, proprio perchè il mutamento di condotta rivelerebbe che inizialmente si è mentito o taciuto, a tutto danno della propria credibilità.

Per 14 anni Salvatore Volponi conferma di non aver mai saputo dove si trovasse l’ufficio e nulla aggiunge su Simonetta Cesaroni e su cosa accadde quella mattina. Finchè nel 2004 esce il suo libro “Io, via Poma e Simonetta …….” in cui fa una rivelazione sorprendente. Afferma in sostanza che fu la Cesaroni a voler rimanere da sola quel pomeriggio, evitando persino le insidie da lui stesso portate per una collaborazione pomeridiana. A corredo della insinuazione, Volponi riferisce confidenze che gli avrebbe fatto la stessa Cesaroni circa spregiudicate fughe all’insaputa del fidanzato verso nuovi orizzonti amorosi.

A fianco dell’ipotesi “nuovo amante” e senza alcuna coerenza narrattiva, Salvatore Volponi offre una seconda ipotesi incentrata sul coinvolgimento di apparati di intelligence, attingendo ad alcune fonti che ruotano intorno al controverso personaggio della Carlizzi. Ne viene fuori uno scenario da esecuzione sommaria, in nulla somigliante all’ipotesi a sfondo sentimentale.

Due piste quindi molto diverse fra loro, ma che a ben vedere hanno un importante punto in comune: sono entrambe estranee all’ambiente lavorativo.

Era forse questa l’intenzione del libro?

[Parte 1]

[Parte 2]

[Parte 3]

[Parte 4]


Bruno Arnolfo

lunedì 14 marzo 2011

Il "morso"

In merito al presunto morso, ritengo siano state più che sufficienti le obiezioni avanzate dall'avv.Loria sulla scorta delle perizie effettuate dal dott. Nuzzolese a dimostrare l'estraneità di Raniero.
Pertanto quel che farò notare non ha tanto lo scopo di rafforzare quelle obiezioni, quanto di partecipare un’ impressione nata e cresciuta mano a mano che il processo andava svolgendosi.

Intendo riferirmi all’inquietante impressione che le ultime indagini abbiano disastrosamente risentito di quella che alcuni criminologi chiamano “l’innamoramento della tesi”.
L’innamoramento della tesi consiste nel convincersi degl’inquirenti che un indagato non può non essere colpevole. Ergo, si lavora in questo senso anche a costo di arrivare a risultati talmente lontani dalle aspettative del buon senso, talmente innaturali, talmente anomali da sfiorare l’assurdo.

Uno degli esempi più eclatanti a mio giudizio può essere indicato nella posizione da cui l’omicida avrebbe morso se si va a svolgere i risultati a cui sono pervenuti i "medici" odontotecnici dell’accusa.
Dalle foto scattate in sede di autopsia dal dott. Carella Prada, risulta che il seno offeso è il sinistro e le due infinitesimali discontinuità, che sarebbero state lasciate da un morso, sono posizionate nella parte superiore del capezzolo, ruotanti verso l’interno.
Tramite sofisticate analisi, condotte partendo da foto scattate neppure al meglio della luce, si sarebbe stabilito che esiste una compatibilità (n.b.: non coincidenza) fra quei due piccoli segni e l'arcata dentaria inferiore di Raniero. Più precisamente coni suoi denti canino e incisivo inferiori destri.
Non ci sarebbe invece compatibilità alcuna con l’arcata dentaria superiore.

Avrete notato che ho sottolineato: inferiore e superiore.
La ragione c’è.
Se di arcata inferiore si tratta, non si può fare a meno di notare che che chi avrebbe morso, in questo caso, secondo l'accusa Raniero Busco, o ha doti di allungamento e torsione del collo degni del "fenomeno da baraccone", oppure l’avrebbe fatto da una posizione davvero anomala.
Infatti, la posizione sarebbe quella di un uomo quasi sdraiato sopra il seno sinistro, con la testa rivolta verso i piedi della vittima.
Possibile, certo, ma secondo me tanto innaturale da ritenersi altamente improbabile.

Tantò più se si considera che l’omicida avrebbe assunto quella posizione solo ed esclusivamente per mordere. Infatti, studiando la traettoria dei colpi , mi risulta che quelli alla gola e al petto
sono stati inferti tutti dalla posizione, assai più naturale di un uomo che sta con la testa rivolta verso la testa della vittima, che sta in equilibrio a cavalcioni della vittima e si sposta verso i suoi piedi per vibrare quelli al basso ventre.
Sicuramente lo studio della traettoria è stato fatto con attenzione particolare dal criminologo Carmelo Lavorino, che ne ha acutamente tratto la conclusione che almeno una delle trafitture nella parte inferiore del corpo, è stata sicuramente inferta con la mano sinistra.

Tornando al “morso”, pur non essendo affatto convinta che nello specifico sia questo il caso, mi è tutt’altro che ostico immaginare come durante un attacco a sfondo sessuale quale quello sferrato a via Poma, l’omicida possa aver sentito l’impulso sadico di mordere.
Sono però altrettanto persuasa che l’avrebbe fatto nella posizione più naturale, quella a cavalcioni della vittima. Per cui se di segni di morso effettivamente si tratta, secondo me sono stati lasciati da denti d’arcata superiore.
E per quella di Raniero anche i periti dell’accusa hanno riconosciuto la non compatibilità.

Manuela Mori

venerdì 11 marzo 2011

Mentono tutti

La condanna è a 24 anni. Ma tante persone hanno testimoniato in favore di Raniero Busco, elargendo gesti e parole d'affetto nei confronti dell'imputato.
In tanti gli hanno confermato un alibi per il pomeriggio del 7 agosto.

Ma l'accusa li liquida tutti come parziali e inattenbili in ragione del rapporto amichevole tra loro e la famiglia Busco.
Questa la tesi dell' accusa:

- mente Fabrizio Priori sul fatto che dice di aver incontrato Raniero Busco nel pomeriggio del 7 agosto,

- mente Luigi Poli in quanto ha dichiarato di aver visto Busco al bar della comitiva tra le 17 e le 19 mentre stava lavorando su un’auto,

- mente Donatella Villani, amica di Simonetta, sulla natura del rapporto tra Raniero e Simonetta, minimizzando i contrasti che c'erano tra i due,

- mente Sergio D’Aquino, l'allora fidanzato di Donatella Villani, sempre sulla natura del rapporto tra Raniero e simonetta, perchè anche lui minimizza i contrasti,

- mente Francesca Persico, amica di Simonetta, sempre sulla natura del rapporto tra Raniero e Simonetta, perchè anche lei minimizza i contrasti,

- mente Annarita Testa, amica di Simonetta, sempre sulla natura del rapporto tra Raniero e Simonetta, perchè anche lei minimizza i contrasti,

- mente Anna Rita Pelucchini, amica della mamma di Busco, quando dice di aver visto Raniero Busco a casa tra le 17 e le 17.30 (la PM chiede il trasferimento degli atti a suo carico per falsa testimonianza),

- mente Maria Di Giacomo, amica della mamma di Busco, quando dice di aver visto Raniero sotto casa, sporco di grasso vicino ad una Panda alle 18.20 (la PM chiede il trasferimento degli atti a suo carico per falsa testimonianza),

- mente Giulia Pierantonietti, una vicina di casa che dice di averlo visto il pomeriggio del 7 agosto intorno alle 17.00-17.15,

- mente Giuseppe Carrino, collega e amico di Raniero, quando testimonia sulla mitezza e affidabilità sul lavoro di Raniero,

- mente Raffaello Lisi, collega e amico, sempre sulla mitezza e affidabilità sul lavoro di Raniero,

- mente Roberta Milletarì, moglie di Raniero, quando riferisce di un episodio di grave aggresività di Fabrizio Priori in danno di Simonetta Cesaroni (lancio di sassi contro la finestra dell'abitazione di Roberta Foschi),

- e infine mente Raniero Busco e "reiteratamente in sede d'esame". Mente su tutto, su qualsiasi cosa afferma. Tutto quello che dice viene usato contro di lui. Viene accusato di gettare sospetti su Brucato, Iacobucci e Cappelletti. Mente perchè afferma di essere stato picchiato durante l'interrogatorio del 8 agosto. Mente perchè dice che gli sono state mostrate le foto del cadavere di Simonetta (e sappiamo dalla testimonianza di Giovanni Villani, papà di Donatella, che queste foto c'erano e le ha viste pure lui). Mente sulla conoscenza del luogo di lavoro della vittima (testionianza dell'avvocato Molinaro, avvocato di parte civile). Mente sugli anticoncezionali (per par condicio la PM dice che pure Simonetta ha mentito a Raniero sull'uso degli anticoncezionali), mente sulla natura del suo rapporto con Simonetta, mente sull'alibi.
In molti si sono chiesti come mai Raniero non ha più parlato dalla sentenza. Probabilmente si è reso conto che parlare, essere disponibile alle analisi, ai prelievi, alle impronte dentarie, non serve a dimostrare la propria innocenza ma che anzi ti si ritorce tutto contro.

Imputato e moglie a parte, il valore che è stato dato ai testimoni favorevoli alla difesa è zero.
Così la PM minimizza queste testimonianze: "Non si può non rilevare come i testi della comitiva depongano in scoperta ed esplicita corrispondenza affettiva con l'imputato che salutano prima e dopo la deposizione. Sono testimonianze del tutto inattendibili per la marcata parzialità che le ha caratterizzate".

Ma questo che vuol dire? Che basta avere degli amici per scampare da un'accusa di omicidio?
E che Raniero Busco è forse un simil-santone, un trascinatore di folle, un ipnotizzatore di massa, che riesce ad entrare nelle menti altrui e manipolarle a suo piacimento?
Ma è possibile che tutte queste persone mentano per coprire un pericoloso e feroce assassino?

Attendiamo le motivazioni della sentenza per capire meglio come e perchè tutte queste testimonianze siano state ignorate.

Gabriella Schiavon

giovedì 10 marzo 2011

Carmelo Lavorino: "I punti salienti"

Riportiamo di seguito materiale che l'autore, il criminologo Carmelo Lavorino, ci ha gentilmente messo a disposizione.

I PUNTI SALIENTI DELLA SECONDA EDIZIONE DEL VOLUME DI CARMELO LAVORINO “IL DELITTO DI VIA POMA”, UN’ANALISI CRIMINALE METICOLOSA, TAGLIENTE ED ESAUSTIVA

Orario della morte
L’omicidio di Simonetta Cesaroni è avvenuto prima delle ore 16,30 e non dopo le 17,35. Ciò è deducibile dal calcolo dei fenomeni digestivi, dall’ultimo pasto di Simonetta terminato alle ore 14 circa, dalla sua quantità e qualità, dalla quantità di poltiglia alimentare rinvenuta nel cavo gastrico della vittima.

L’assassino ha colpito Simonetta con la mano sinistra L’assassino ha usato diverse volte la mano sinistra per colpire Simonetta, sia con la mano aperta a schiaffo sulla tempia destra, sia col tagliacarte al collo, sulla coscia ed all’inguine. Questo è deducibile dai tramiti e dalla morfologia delle ferite, particolarmente dalla ferita bifida sulla coscia destra.

Soggetto territoriale L’assassino ha dimostrato caratteristiche di conoscenza dei locali e dell’ambiente dell’ufficio dove lavorava Simonetta e del condominio di Via Poma. Si è mosso con accortezza, conoscenza, padronanza, sapienza, logica e freddezza, con tempo a disposizione.

Le asserite telefonate delle 17 e delle 17,35
sono il frutto di un’abilissima opera di depistaggio
La telefonata delle ore 17 da parte di una donna in Via Poma che diceva di essere Simonetta Cesaroni e diretta a Luigina Berrettini - se c’è stata realmente - non è stata effettuata da Simonetta, bensì da altra persona che si è spacciata per lei. Comunque non vi è alcuna prova che detta telefonata sia avvenuta, ebbene, (a) se la telefonata c’è stata, il significato è che una persona di sesso femminile si è spacciata per Simonetta con lo scopo di depistare, di fare spostare l’orario della morte, di rendere plausibili e non smontabili alcuni alibi che altrimenti sarebbero risultati falsi; (b) se la telefonata non c’è stata occorre andare a guardare i motivi della menzogna e il “cui prodest?”.

Telefonata fantasma a tre facce
La veridicità della telefonata che Luigina Berrettini ha fatto alle ore 17,15 alla dirigente Anita Baldi è basata solo sulle dichiarazioni di Luigina Berrettini, di Anita Baldi e del marito della Baldi (Salvatore Sibilia) deceduto nel 2007. I casi sono tre:
  1. la falsa Simonetta telefona alla Berrettini e la Berrettini telefona alla Baldi, allora la telefonata è vera; in tal caso la falsa Simonetta depista la Berrettini, per poi depistare il tutto;
  2. la Berrettini non ha ricevuto la telefonata, però telefona alla Baldi inventandola; in tal caso la Berrettini depista la Baldi e il Sibilia;
  3. la Berrettini non ha ricevuto alcuna telefonata, la Baldi non ha ricevuto alcuna telefonata; in tal caso la terna “Luigina Berrettini – Salvatore Sibilia – Anita Baldi” depista;
Ciascuno dei tre casi apre scenari, collegamenti, moventi, intenti primari, contesti, situazioni e circostanze speciali, specifici e nuovi: un groviglio che nessun inquirente ha districato perché non lo ha nemmeno preso in considerazione.

L’arma del delitto e la firma operativa dell’assassino L’assassino ha ucciso Simonetta Cesaroni col tagliacarte di Maria Luisa Sibilia, per poi lavarlo, pulirlo, asciugarlo e sistemarlo sul tavolinetto (étagère) di Maria Luisa Sibilia. La mattina dello stesso giorno il tagliacarte non era nella stanza della Sibilia, quindi era in altra stanza, però, dopo l’omicidio è “tornato” nella stanza d’appartenenza, anche se a pochi centimetri di distanza dal proprio luogo di allocazione (difatti, invece di essere posato sulla scrivania della Sibilia è stato posato sul tavolinetto accanto). Dichiarazioni di M.L. Sibilia: “Sulla mia scrivania usualmente c'era un tagliacarte di color metallico chiaro tipo argentato, munito di manico di metallo, più spesso della lama. La lama era lunga circa otto dita, la punta era lievemente smussata perché tale tagliacarte si usava anche per svitare viti o forzare un cassetto incastrato. Il tagliacarte era dritto prima che andassi in ferie il 27 luglio. Quando tornai, il 7 agosto 1990 cercai il tagliacarte perché mi serviva, ma non lo trovai né sulla mia scrivania, né sulle altre. Guardai nella mia stanza, in quella di Giusi Faustini e molto superficialmente in quella dove lavorava Simonetta. Il tagliacarte mi serviva per aprire la corrispondenza arretrata. Poi mi feci prestare il tagliacarte di Giusi che ha il manico rosso. Il tagliacarte raffigurato in fotografia al foglio 32 (NdA: la foto è riferita alla stanza di Maria Luisa Sibilia) degli atti della Polizia scientifica è quello che si trovava generalmente sulla mia scrivania … Nella foto al foglio 32 degli atti della Scientifica sul tavolinetto laterale della mia scrivania si vede il tagliacarte di cui ho parlato prima, posto sulla destra su un blocco notes con la scritta Mediolanum a fianco ad una spillatrice. Escludo che il tagliacarte sia stato lasciato in tale posizione da me proprio per quello che ho detto prima, poiché lo cercai senza trovarlo. Se si fosse trovato lì dove è fotografato l'avrei dovuto trovare. Questo almeno secondo i principi del buon senso”.

L’alterazione della scena dopo il depistaggio delle telefonate pomeridiane
La combinazione criminale che ha provveduto ad effettuare l’opera di pulizia, di alterazione della scena e di depistaggio, ha iniziato le attività dalle ore 17 circa SE la Berrettini ha ricevuto la telefonata e se la Baldi e il marito Sibilia hanno ricevuto la telefonata delle ore 17,15 circa, altrimenti detta opera è iniziata dopo, anche alle ore 20.

L’apodittico scenario con Busco assassino con sette pilastri d’argilla Lo scenario che vede Busco assassino è basato sui seguenti sette elementi/pilastri – ritenuti gravi, certi, precisi e concordanti – che in realtà sono incerti, solo ipotetici, non dimostrati e quindi discordanti: 1. la personalità violenta di Busco (?), difatti, Busco avrebbe litigato una volta con la propria sorella (!)?; quindi, essendo Busco violento, lo è stato anche con Simonetta: trattasi di ragionamento con presupposto falso, con un passaggio logico inaccettabile (petizione di principio), con dati non dimostrati, ma solo ipotetici; 2. Busco faceva soffrire Simonetta, quindi era cattivo, quindi poteva uccidere Simonetta in quel modo crudele, così come la stessa è stata uccisa: il passaggio logico è azzardato ed è privo di un valido indicatore di conclusione; 3. Simonetta è stata uccisa in un contesto a sfondo sessuale in seguito a una ferita narcisistica subita, Busco rientra in questa tipologia: teoricamente anche Busco avrebbe potuto avere il movente omicidiario, ma manca qualsiasi altro elemento forte; trattasi di supposizione apodittica; 4. Busco uccide Simonetta dopo le ore 17,35 e si allontana dall’epicentro del crimine lasciando aperta la porta dell’ufficio AIAG: trattasi di supposizione priva di riscontri, è apodittica; 5. Vanacore, dopo un periodo di tempo imprecisato, vede la porta aperta, entra, scopre il cadavere, mette in allarme i datori di lavoro di Simonetta nelle persone di Salvatore Volponi ed Ermanno Bizzocchi, i responsabili dell’ufficio Caracciolo e Carboni: trattasi di supposizioni prive di riscontri, tutte apodittiche e legate da congetture prive di riscontri; 6. Vanacore lascia la propria agendina rossa Lavazza sulla scena e il suo rinvenimento lo prova: in realtà non vi è nessuna prova che l’agendina rossa sia stata rinvenuta sulla scena, difatti, non è presente in alcuna fotografia e in alcun verbale, è stata presa in casa di Vanacore tra le altre cose e mischiata con gli effetti trovati nella borsetta della vittima; 7. sul capezzolo sinistro di Simonetta vi sono i segni di un morso che risultano compatibili con la dentatura di Busco; il reggiseno e il corpetto di Simonetta hanno tracce di Dna di Busco; sulla porta lato interno della stanza del crimine vi sono tracce del sangue di Simonetta e del sangue di Busco, quindi Busco è l’assassino: 1) non vi è prova alcuna che i due segni (uno alle ore 7, l’altro alle ore 11) siano effetti di morsicatura; 2) non vi è nessuna compatibilità fra la dentatura di Busco e i due segni; 3) se Busco avesse morso il capezzolo di Simonetta dovrebbero esserci altri segni prodotti dagli incisivi inferiori che invece non sono MAI stati presenti; 4) l’unica persona che aveva il “diritto” di avere il proprio Dna (saliva? sudore? altro?) sui due effetti personali di Simonetta era proprio e solo Busco; 5) il Dna estratto dal sangue sulla porta non è riferito alle 16 regioni alleliche o loci, ma solo a 8, e ognuno di essi contiene il Dna di 3, 4 o 5 persone; 6) la quaterna “2 calzini + 1 corpetto + 1 reggiseno di Simonetta” è stata conservata nell’obitorio senza alcuna garanzia della “catena di custodia della prova” per oltre 15 anni e non come reperti dalla Polizia scientifica e/o Ufficio Corpi di reato, quindi, con la possibilità di QUALUNQUE inquinamento o manomissione; 7) il sangue sulla porta frutto di commistione è di gruppo A, ma, poiché il gruppo sanguigno di Simonetta è gruppo 0 e quello di Busco è 0, mai e poi mai i due sangui di gruppo 0, se commisto, avrebbero dato gruppo A.



Il delitto di via Poma
Sulle tracce dell’assassino
Seconda edizione
Autore Carmelo Lavorino
www.detcrime.com
Editore Albatros
www.gruppoalbatrosilfilo.it
L’uccisione di Simonetta Cesaroni,
il processo contro Raniero Busco,
la morte di Pietrino Vanacore.
Analisi Investigativa Criminale.

La seconda edizione del volume è arricchita da dodici capitoli e 150 pagine: un capitolo è dedicato alla morte del famoso Pietrino Vanacore, con la valutazione se trattasi di omicidio o suicidio; quattro capitoli sono dedicati all’impianto accusatorio contro Raniero Busco con tutti i pro e i contro; due con le sintesi delle udienze dibattimentali del processo; cinque capitoli sono dedicati al profilo criminale logico esecutivo investigativo dell’assassino, all’arma del delitto, alla pista alternativa ed alle possibilità di risolvere il caso.

mercoledì 9 marzo 2011

La scienza dell’ultima ora

Colpito alla testa da un mestolo, disse il PM Corsi, e stato uno scarpone, replicò Paola Savio.
Infine nessuno sa con che cosa fu colpito Samuele Lorenzi ucciso nel 2002 nella camera da letto dei genitori.
Anche con Chiara Poggi sono state avanzate le ipotesi più svariate circa l’arma usata dall’assassino.
In entrambi i casi numerosissime lesioni, misurate e fotografate in ogni dettaglio, non hanno permesso di sapere quale fosse l’oggetto usato per colpire.
Questo nell’ultimo decennio che, al pari di tutti gli ultimi decenni di ogni epoca, viene sempre indicato dai profani come il più prodigo di progressi scientifici.
Forse non lo sanno i profani, ma gli uomini di scienza sanno bene che questo genere di esami non sono risolutivi e che al massimo consentono di fare ipotesi di grande approssimazione, oggi come 50 anni fa.

Cosi accadde anche per il delitto di via Poma, dove non una, ma 29 ferite misurate in lunghezza, larghezza e profondità, non consentirono di ricavare indicazioni certe sull’arma usata, persino rispetto ai tagliacarte repertati in quelle stanze e quindi a disposizione per un confronto.
Figuriamoci cosa si poteva pretendere da quella minuscola ferita al capezzolo, se non ipotizzare in termini assai vaghi che poteva trattarsi di un morso.
Carella Prada, che non è un profano e conosce i limiti della scienza, lo disse chiaramente nel 2004 quando affermò:” fu una mia interpretazione, nulla di certo, in realtà potrebbe essersi trattato solo di un pizzico dato con le mani…”.

Dunque una ipotesi che tale rimase anche durante le nuove indagini iniziate nel 2004, con i RIS impegnati a decifrare le tracce sui lavatoi, sull’ascensore, su un tavolino, sulla porta, e infine sugli indumenti di Simonetta.
Quattro anni di analisi e di relazioni peritali non risolutive.
A parte le tracce di Raniero su corpetto e reggiseno, null’altro indicherà che lui o altri sospettati erano in quella stanza.
Anzi, i rilievi sul tavolino e sul reperto dell’ascensore, conducono a persone diverse da Raniero e da tutti i 31 sospettati. La cosa è talmente nociva all’accusa che in base al noto postulato “lo dico io e basta!” si afferma la non contestualità di queste tracce all’omicidio.
Poi il pasticcio del sangue sulla porta, dove per contraddire le vecchie analisi che indicavano lo sgraditissimo gruppo sanguigno “A”, vengono rifatte con una nuova tecnica, più moderna …. una tecnica che amplifica il segnale… ma non accerta il gruppo sanguigno!
Saltano fuori dei dati, delle compatibilità parziali.
Qualcuno chiede che si pronunci un soggetto terzo.
Si pronuncia la Huidobro che definisce le analisi dei RIS inconcludenti.

I giudici non chiederanno mai più il parere di un soggetto terzo!

A fine 2008 i giornali danno per scontata l’archiviazione, ed è in quel momento che la Procura azzarda ciò che non aveva osato fare fino a quel momento. Viene così disposta una perizia per confrontare i segni del presunto morso con l’arcata dentaria di Raniero Busco. E Busco, pur potendosi rifiutare, si presta all'acquisizione dell'impronta dentaria.
Si fa uso di fotografie (bidimensionali) per il confronto con l'arcata (tridimensionale).

Il perito di parte dice che c’è piena corrispondenza. Quello della controparte l’esatto contrario.
Non c’è tempo per un parere imparziale, fosse anche del dentista della mutua, e così la più incredibile delle perizie diviene il pilastro portante dell’accusa.

Talvolta i profani sono saggi e non cedono alle lusinghe della scienza dell’ultima ora.
Altre volte, per timore di sentirsi dei profani, fingono di essere un po’ scienziati… e condannano a 24 anni.


Bruno Arnolfo

Il rebus della sparizione delle chiavi

Nella condanna piena di dubbi inflitta a Raniero Busco restano aperti diversi rebus. Uno dei più importanti riguarda la sparizione delle chiavi che la vittima aveva avuto in dotazione per entrare negli uffici dell’AIAG.
Si tratta di un mistero che la PM non ha nemmeno sfiorato nella sua requisitoria, ed a pensarci bene si capisce perché.
Perché anche solo accennare l’argomento avrebbe rischiato di mettere in moto una serie di considerazioni che avrebbero di sicuro instillato forti dubbi sulla tesi Raniero Busco.

Per la precisione i mazzi di chiavi attorno a cui ruota la vicenda sono tre:
  • quello in dotazione a Simonetta,
  • quello che i portieri tenevano in guardiola per entrare negli uffici nei casi di necessità,
  • quello usato come scorta dagl’impiegati dell’AIAG e che di solito stava appeso dietro la porta d’ingresso degli uffici.
Riguardo l'ultimo mazzo: "Il pubblico ministero ha fatto notare che quelle chiavi sono state sequestrate a Giuseppa De Luca, che le teneva strette dietro la schiena, quasi volesse nasconderle, quando un funzionario della Mobile di Roma gliele chiese per accedere nell’appartamento al terzo piano di via Poma, 2.” ci ricorda il giornalista Igor Patruno dal suo sito, nella parte che ha magistralmente dedicato all’omicidio.

Durante il processo, quest’ultimo mazzo ha decisamente rubato la scena al paio posseduto da Simonetta, sia perché la PM se ne è servita per scollegare dall’omicidio tutto il pasticcio che è avvenuto dopo, in quanto vi sono invischiati personaggi come Vanacore, Caracciolo,
Volponi e Carboni, per i quali non è stato possibile adombrare il benchè minimo collegamento con Raniero Busco, sia perché, come accennavo, addentrarsi nel rebus che sta dietro la sparizione del mazzo dato a Simonetta, rischiava di suscitare considerazioni decisamente scomode per la tesi di Busco omicida.

Eppure secondo me chiedersi che fine abbia fatto questo mazzo è una domanda chiave.

Perché presuppone una serie di risposte che inevitabilmente allontanano dall’ipotesi dell’omicida completamente estraneo al luogo del crimine inteso nel senso più lato, dagli uffici dell’AIAG fino a comprendere tutto il condominio di via Poma, passando per la palazzina B.

Proviamo a dare le risposte più logiche a questa domanda.

Le ha prese Vanacore? Se le avesse prese lui, che necessità aveva di prendere quelle di scorta dell’ufficio, che fanno la sua comparsa nelle mani della portiera la notte dell’omicidio.

Allora le ha prese l’omicida?! Certo è assai più logico che le abbia prese proprio l’omicida. Personalmente propendo decisamente per questa risposta.
Non vedo alternative altrettanto o più probabili.

Ma se l’omicida fosse Raniero, cioè una persona completamente sradicato dall’ambiente in cui è avvenuto il delitto, perché le avrebbe prese? Perché avrebbero potuto condurre gl’inquirenti fino a lui? E come? Anche se in qualche momento antecedente all’omicidio, avesse potuto averle toccate, sarebbe bastato ripulirle dalle proprie impronte.

Eppure l’omicida quelle chiavi le ha addirittura cercate, perché stavano nella stanza di lavoro di Simonetta, per di più riposte nella sua borsetta.

E allora la risposta più logica non può che essere una: l’omicida le ha prese per entrare ed uscire a proprio piacimento dall’ufficio.

Ma un’intenzione del genere presuppone inevitabilmente che si tratti di persona territoriale, che lì aveva altre “basi”, non di un ragazzo come Raniero, che doveva fuggire lontano da lì il più presto possibile, per rifugiarsi il più presto possibile nell’alibi del suo garage.

Oppure si deve credere che l’ intenzione di Raniero Busco fosse quella di tornare a notte fonda negli uffici dell’AIAG per far sparire il cadavere, magari portando anche qualche complice di rinforzo, armato di ramazza e spolverini per riordinare la scena del delitto?!

Converrete spero che questo sarebbe troppo anche per un omicida come quello che ha ipotizzato la PM Calò, che se ne va senza neppure chiudere la porta dell’ appartamento dove ha appena fatto una carneficina!

Manuela Mori