giovedì 30 dicembre 2010

Guai giudiziari per un perito del caso Busco

Ancora giallo sul caso Marrazzo, in particolare sulla morte del pusher Gianguerino Cafasso. Processo immediato per i medici legali Stefano Moriani e Mauro Iacopini, entrambi de La Sapienza, con l'accusa di falso in atto pubblico.

Il reato contestato si riferisce all'autopsia che i due medici hanno eseguito sul cadavere del pusher dei trans, morto il 12 settembre del 2009 in un albergo di via Salaria; avrebbero affermato di aver fatto analisi sul cadavere che invece si è scoperto non era possibile fare.

I fatti: Cafasso è un personaggio ambiguo, ritenuto spacciatore e protettore di alcuni trans implicati nel caso Marrazzo. Avrebbe cercato anche di vendere un certo video compromettente relativo appunto all'ex presidente della Regione Lazio. Dopo la sua morte vengono incriminati tre carabinieri accusati di omicidio volontario a seguito anche dell'autopsia sul Cafasso che propendeva per la tesi dell'overdose, insinuando il sospetto che gli fosse stata data una droga per un’altra al solo scopo di ucciderlo ed eliminare uno scomodo testimone. Ma si è scoperto invece che nell'autopsia firmata Moriani-Iacopini c'erano analisi riferibili ad organi che non erano mai stati asportati dal cadavere. La circostanza emerse nel settembre scorso quando il professor Giovanni Arcudi incaricato di altri accertamenti richiesti dalla difesa di uno dei tre carabinieri scoprì che non era stata esaminata nella prima autopsia la scatola cranica e che gli organi interni di Cafasso erano ancora al loro posto e non erano stati esaminati.

Ma perché questa cosa sarebbe grave? Il risultato dell'autopsia dei due medici legali ha condizionato le indagini nei confronti dei carabinieri accusati di aver “eliminato” il pusher, divenuto testimone scomodo. La seconda perizia autoptica ha invece ipotizzato per Cafasso una morte causata dalle precarie condizioni di salute in cui versava, ovvero a causa delle aritmie cardiache a cui era soggetto anche per lo stile di vita disordinato che conduceva. Insomma morte per cause naturali.

Moriani e Iacopini, interrogati dal Gip, si sono difesi affermando che il referto dell’autopsia è stato stilato utilizzando un precedente esame e che quindi ci sarebbe stato solo un errore materiale di compilazione.

Errore o dolo?

E' lecito nutrire sospetti considerando che trattasi di vicenda delicata.
Come è potuto accadere un errore? Si è forse tentato di “leggere” negli esiti di una perizia quel che il pubblico ministero voleva vedere dimostrato? Oppure a furia di copiare ed incollare da precedenti perizie è stato commesso un errore?

A chiedere e ottenere il rinvio a giudizio con rito immediato è stato il PM Eugenio Albamonte che ha anche ottenuto che i due medici venissero sospesi dalla loro attività per due mesi.

Ai giudici stabilire la verità. La sentenza potrebbe avere ripercussioni indirette anche su altri processi in corso, oppure già conclusi. Stefano Moriani è stato consulente del pubblico ministero Ilaria Calò nelle indagini sull’omicidio di via Poma e che ha testimoniato in aula come perito insieme a Luciano Garofano e Marco Pizzamiglio. È lecito chiedere che qualsiasi dubbio venga fugato.

Gabriella Schiavon

martedì 16 novembre 2010

Dimitri Buffa: "Giallo sull'autopsia"

CASO MARRAZZO: IL GIALLO DELL’AUTOPSIA A META’ SUL CORPO DEL PUSHER CAFASSO

Di Gianguarino Cafasso, noto da vivo di esser stato il pusher dei trans e di Marrazzo, si era detto che fosse stato praticamente l’unico nel suo ambiente a non avere visto “Pulp fiction” di Tarantino e segnatamente la scena in cui Uma Thurnman collassa scambiando l’eroina per cocaina. Ora però si scopre che potrebbe essere morto di infarto per il suo stile di vita e non di overdose a causa di una dose di eorina propinatagli da un carabiniere al posto della coca.

E ci mancava solo “l’autopsia a metà” per aggiungere alla vicenda dei trans e dei pusher che ruotavano intorno alla seconda vita di Piero Marrazzo tutti gli ingredienti del giallo.

La scoperta è stata fatta solo ieri dal legale dell’unico carabiniere ancora in carcere dei quattro che secondo l’accusa tentarono di ricattare l’ex presidente della Regione Lazio a causa appunto della propria seconda vita fatta di trans e cocaina, il maresciallo Nicola Testini, che peraltro si è sempre dichiarato estraneo o quasi all’intera vicenda. Cosa era successo? Che nel settembre 2009 i periti incaricati dai pm che si stanno occupando di tutta la vicenda avevano eseguito un’autopsia esclusivamente sul cuore e su un rene di Cafasso, il pusher dei trans di Marrazzo, stabilendo che era morto di overdose. Più precisamente avevano scritto che la causa del decesso era dovuta alla “presenza di morfina per 1,16 microgranni per millitro nel sangue, per 6.03 nelle urine e per 8,46 nella bile”. Lunedì però il perito incaricato dal gip su istanza della difesa racontava un’altra storia: “scompenso cardiocircolatorio in soggetto cardiopatico, dismetabolico e obeso, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”. Non overdose quindi ma infarto dovuto a uno stile di vita che prima o poi ti porta alla tomba. Ma non necessariamente “proprio quel giorno”. Questo però significa che nessuno gli avrebbe dato una droga per un’altra al solo scopo di ucciderlo. Il giallo è tutto nell’autopsia: per un errore che, a sentire il “Messaggero”, i due periti del pm, Federico Iacopini e Stefano Moriani (quest’ultimo è anche quello che ha ritrovato il dna di Raniero Busco sul reggiseno di Simonetta Cesaroni a distanza di anni) avrebbero commesso. Come? Forse copiando e incollando frasi prese dall’autopsia di un altro sarebbe venuta fuori una relazione che induceva a credere che in realtà fosse stato compiuto un esame autoptico completo , anche sui polmoni, il fegato e le visceri del Cafasso. Cosa che invece era palesemente non vera come attestato dalla perizia fatta dal professor Giovanni Arcudi dopo la riesumazione del cadavere.

Aleggia su tutto ciò un’ulteriore stranezza: a maggio quando l’avvocato di Testini, Valerio Spigarelli attuale presidente dell’Ucpi, chiese la riesumazione del cadavere, la pm si oppose dicendo che tanto sarebbe stata inutile in quanto la precedente autopsia svolta avrebbe lasciato integri ben pochi organi interni del corpo del pusher deceduto e che quindi era inutile fare questa riesumazione e l’ulteriore esame autoptico. Per “fortuna” del Testini, che comunque sta in carcere accusato di omicidio da otto mesi, il Gip non ha dato retta al pm e adesso il giallo dei trans di Marrazzo si arricchisce di un ulteriore elemento. Infatti a parte il cuore e un rene, tutti gli altri organi erano “in situ”, come recita la perizia con il suo linguaggio fatto di latino scientifico. Segno che nessuno aveva sezionato il cervello, i polmoni e gli altri organi interni. E’ anche un mistero del perchè di questa scelta: è abbastanza bizarro infatti stabilire che una persona sia morta per overdose di droga senza analizzare il cervello, il fegato, lo stomaco e i polmoni. Anche se poi dalla prima perizia risultava “per errore” persino il peso dei polmoni che invece non erano mai stati mossi dalla gabbia toracica.

Adesso tocca ripartire da zero e separare le morti e le coincidenze del caso Marrazzo dall’affaire vero e proprio. Di sicuro si sa solo che la notte tra l’11 e il 12 settembre Gianguarino Cafasso è morto.

Il trans Jennifer accusa il maresciallo Testini di avergli fonito la droga in un certo luogo ma a quell’ora il cellulare di Cafasso si agganciava in una cella sita in un posto diverso. Poi c’è questa nuova autopsia che, comunque sia, scagionerebbe chiunque dall’ipotesi di omicidio per tappare la bocca a uno scomodo testimone: se non è morto per overdose è difficile stabilire un nesso di causa effetto tra l’assunzione di eroina, ammesso che gliela abbia data il carabiniere tuttora in carcere per omicidio, e la morte avvenuta per un arresto cardiaco dovuto allo stile di vita di Cafasso. Nessuno poteva prevedere che proprio quel giorno lui sarebbe morto e non magari uno prima o un anno dopo. Quanto all’uso di droghe, Cafasso ne faceva quotidianamente e quindi su questo punto l’accusa traballerebbe non poco. Infine una notazione su queste perizie su dna e affini che ormai sono entrate, anche grazie ai leggendari uomini dei Ris di Parma, nel calderone della giustizia spettacolo: negli Stati Uniti da anni si stanno riaprendo, ma al contrario, un sacco di “cold case” di gente condannata anche a morte sulla base dell’esattezza indubitabile dei reperti del dna. E’ invece bene che si sappia che per una serie di circostanze (escluso e comunque a parte il dolo) questi reperti possono essere facilmente contaminabili e portare a conclusioni errate fior di periti e giudici. Il dna da tempo non è più la prova regina in America. Ma noi, si sa, importiamo le mode con 20 anni di ritardo e con altrettanti anni di ritardo ci accorgiamo quando sono passate.

Dimitri Buffa
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martedì 31 agosto 2010

Igor Patruno: "Una fitta trama di stranezze..."

Lo scorso giovedì (26 agosto) il Corriere della Sera, il più “autorevole” tra i quotidiani italiani, ha pubblicato un articolo, firmato da Ferruccio Pinotti, nel quale si riportano i verbali di una deposizione stralciata dall’inchiesta “cheque to cheque”. Il personaggio che nel 1996 ha rilasciato le dichiarazioni,tale Luciano Porcari, viene definito ''uomo di confine tra criminalità e servizi segreti''. Nativo di Orvieto, classe 1940, Luciano Porcari subisce una condanna per la morte della sua ex convivente, coinvolto nel 1977 nel dirottamento di un aereo e, infine, diviene – è lui stesso a dichiararlo – “broker” per conto di una società operante negli ambienti della cooperazione italiana con l’Africa del Nord. Ambienti dove sono girate tangenti, dove corrotti e corruttori hanno avuto mano libera per decenni. Insomma un “affarista” di pochi scrupoli. La Dolmen, questo è il nome della società, sarebbe stata utilizzata anche come copertura del SISMI. Difficile stabilire quali affari siano passati per le mani di Porcari e ancora più difficile capire come il SISMI abbia utilizzato la Dolmen, sempre ammesso che sia vero.
Nel verbale, datato 4 dicembre 1996, l’affarista racconta che la Dolmen aveva un doppione, una Dolmen 2, con sede in via Poma: “La povera Simonetta Cesaroni era la ragazza incaricata di stipulare i contratti per conto di queste società (legate ai contratti della cooperazione allo sviluppo, ndr) al di fuori del suo lavoro normale e quindi inevitabilmente era a conoscenza di queste operazioni illecite che, come io le ho detto, ho concluso per conto di queste società. Devo precisarle che ho conosciuto gli uffici di via Poma nel 1991, al ritorno dalla Liberia. Come vede tutte le persone che hanno avuto conoscenza delle attività di queste società sono state uccise”. Il riferimento è alla morte di Mario Ferraro, colonnello del SISMI, ritrovato il 16 luglio 1995 nel bagno della sua abitazione romana, impiccato ad un asciugamano. Ferraro stava indagando proprio sugli ambienti della cooperazione italiana. Fin qui l’articolo.
Ho recentemente scritto un libro, La ragazza con l’ombrellino rosa, l’omicidio di via Poma venti anni dopo, sulla morte di Simonetta Cesaroni e mi è capitato svariate volte di imbattermi in fatti quantomeno strani. Ho dichiarato nel libro di non credere che nell’omicidio possano essere coinvolti direttamente uomini dei “servizi” italiani e resto di questa opinione anche dopo aver letto l’articolo di Ferruccio Pinotti. Ovviamente questo non esclude che possano esserci state coperture, o addirittura depistaggi, dopo l’omicidio. Per capirci qualcosa dobbiamo tornare al 7 agosto del 1990 e tentare di dare un significato a tanti elementi apparentemente privi di collegamenti diretti tra loro.
Cominciamo con la cartellina. Sì proprio una innocente cartellina da lavoro. Simonetta l’aveva con se quando è uscita dalla sua abitazione di via Serafini per dirigersi in via Poma. È la sorella Paola a ricordarsi della sua esistenza e a dichiararlo agli inquirenti. Cosa c’era dentro? Innocenti prime note, oppure documenti di diversa nature consegnati alla ragazza da qualcuno degli ostelli (la Cesaroni lavorava nella sede regionale degli Ostelli della Gioventù)? Impossibile stabilirlo perché della cartellina non c’è traccia negli elenchi degli oggetti rinvenuti nell’ufficio di via Poma.
Continuiamo con Sergio Costa, genero dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi. Arriva per primo sulla scena del crimine. Nulla di strano visto che è di turno al pronto intervento del commissariato Prati. Invece no! Sergio Costa, in forza al Sisde dal 1982 al 1996, risulta distaccato presso la Questura di Roma dal primo gennaio al 30 novembre del 1990. Insomma qualche domanda viene legittimo porsela. Lo stesso Roberto Cavallone, il PM che ha riaperto il caso nel 2004, lo inserisce in un elenco di 30 sospettati. Il suo DNA, prelevato attraverso una tazzina di caffè, viene sottoposto a confronto con quello rinvenuto sugli indumenti della vittima, ma l’esito fu negativo.
Torniamo alla notte dell’8 agosto 1990. Il corpo di Simonetta è stato scoperto da poco e accadono tre fatti strani. Una poliziotta della Mobile si siede alla scrivania utilizzata dalla ragazza per inserire le prime note e le fatture nel programma di contabilità degli ostelli e si mette a disegnare una inquietante pupazza. Non contenta scrive sotto una frasetta altrettanto inquietante: CE DEAD OK. Passeranno 16 anni prima che la poliziotta confessi di aver fatto quel “lavoretto”. Era nervosa, inquieta e quindi ha scarabocchiato su un foglio bianco? Vallo a capire. Se si dovesse sospettare della sua buona fede sembrerebbe un depistaggio. Ma non è finita! In sequenza gli agenti delle volanti cancellano “accidentalmente” la segreteria telefonica e, altrettanto “incidentalmente” staccano la presa di corrente del computer dove aveva lavorato Simonetta.
Una rapida occhiata all’organigramma degli Ostelli della Gioventù rivela subito che l'allora segretario nazionale dell'Associazione italiana alberghi della gioventù era Vito Di Cesare, cognato del prefetto Riccardo Malpica, nel 1990 direttore del Sisde. Roberto Cavallone nel 2006 incarica il maresciallo Prili della Giudiziaria di Roma di verificare tutte le informative su un presunto coinvolgimento dei servizi segreti nell’omicidio, giunte nel corso degli anni in Procura. “Nel 2006 la Procura ci chiese – dirà il graduato dell’Arma durante il processo – di fare indagini su eventuali coinvolgimenti dei servizi segreti, di verificare se avessero personale negli uffici degli Ostelli della Gioventù, di capire se l’attività degli Ostelli fosse in qualche modo collegabile a quella dei servizi. Dagli accertamenti non emerse però nulla di rilevante".
Andiamo avanti. Un colonnello del SIOS (servizio segreto interno delle forze armate), che però nel ’90 lavora alla Presidenza della Repubblica dichiara, a fine novembre del 1990, di aver visto arrivare un ragazzo dai modi “scortesi”, un ragazzo che cercava proprio la sede degli ostelli. A detta del colonnello il tipo entra ed esce dopo 20 minuti. Nonostante un realistico identikit e una precisa descrizione della sua autovettura, la Mobile non riesce ad identificarlo. C’entra qualcosa, oppure è uno qualsiasi capitato in via Poma per caso? Mistero!
Alla fine del 1991 il commissariato Flaminio comunica al Capo della Polizia di aver avuto da un “informatore” importanti informazioni sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Dopo qualche mese viene fuori il nome dell’informatore. Si tratta di un certo Roland Voller, commerciante d’auto austriaco, accusato dalle forze dell’ordine del suo Paese di essere un truffatore. La vicenda è nota: Voller tenta di incastrare Federico Valle, figlio dell’architetto Cesare e dell’avvocato Raniero. Il primo con abitazione, il secondo con studio proprio nella palazzina B di via Poma 2. Nel 1994, quando l’incastro del giovane Valle è praticamente evaporato, viene fuori che Voller non è solo un informatore della Polizia, ma anche lui ''uomo di confine tra criminalità e servizi segreti''. Altre domande senza risposta.
Nel 1995 la giornalista Gabriella Carlizzi, deceduta il 12 agosto di quest’anno, vinta dal solito “male” incurabile, invia una lettera alla Procura di Roma e rivela di aver visto uscire da via Poma, proprio il pomeriggio del 7 agosto, tre uomini dal fare concitato. Uno lo riconosce. Si tratterebbe di un “pezzo grosso” del Sisde, poi coinvolto nello scandalo dei fondi segreti. La Carlizzi ha riportato un episodio di cui è stata effettivamente testimone, oppure ha riferito qualcosa “de relato”? E soprattutto, era proprio quello il giorno in cui i tre sarebbero usciti “concitati” da via Poma? Difficile capire cosa è accaduto davvero.
Nel 1996 un tal Giovanni Vito, qualificatosi come collaboratore del Sisde, dichiara di aver operato proprio in via Poma per conto del “servizio”. Avrebbe montato nello stabile apparecchiature elettroniche di intercettazione ambientale, ed alcune telecamere. Vengono svolti dei sopralluoghi, ma non diedero alcun esito. La Procura invia anche due lettere ufficiali a Sismi e Sisde per avere notizie in merito a tali installazioni, ma entrambi i servizi rispondono che Giovanni Vito non ha mai collaborato con loro e che non sono mai state installate telecamere nello stabile di via Poma su richiesta dei servizi. Un'altra stranezza. Se Vito avesse detto il vero, le dichiarazioni di Luciano Porcari assumerebbero un diverso significato. Proprio in quegli anni Mario Ferraro, colonnello del Sismi, “suicidato” il 16 luglio 1995, stava indagando sulla mala cooperazione e su probabili coinvolgimenti di “agenti segreti” infedeli nelle tante porcherie che sono state fatte tra la Liberia e la Somalia. Ma anche in questo caso tutto è avvolto da una fitta nebbia.

Igor Patruno
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lunedì 24 maggio 2010

Igor Patruno:"L'ex portiere non aveva ingerito alcun veleno prima di annegare in novanta centimetri d'acqua"

Resi noti gli esiti della perizia tossicologica eseguita sul corpo dell'ex portiere dello stabile dove fu uccisa Simonetta Cesaroni.
L'uomo avrebbe dovuto deporre nel processo che vede imputato l'ex fidanzato della ragazza.

Pietrino Vanacore non ha ingerito nessun veleno prima di morire. L'ex portiere dello stabile di via Poma dove fu uccisa Simonetta Cesaroni, fu trovato morto nelle acque della località Torre Ovo, non lontano da 'Monacizzo' la contrada di Torricella, in provincia di Taranto, il paesino in cui era tornato a vivere da molti anni. Il corpo galleggiava a pochi metri dalla riva dove il mare è poco profondo.
Sulle prime si era pensato che l'uomo fosse annegato per effetto di qualche veleno ingerito. Per questo si attendeva l'esito degli esami tossicologici che rimettono in gioco tutto: i campioni organici, prelevati in sede autoptica dal medico legale Massimo Sarcinella, non hanno evidenziato tracce di sostanze farmacologiche o tossiche nè nocive".
Nella vettura, lasciata poco distante, fu trovata anche una bottiglia di plastica all'interno della quale c'era un anticrittogamico. Ma "lo stomaco di Pietrino era pulito - scrivono i giornali locali - ad eccezione di un residuo di caffè e della zeppola che aveva consumato poco prima di recarsi sulla spiaggia dove è stato trovato morto. La perizia del dottor Sarcinella non è ancora giunta sulla scrivania del pubblico ministero, Remo Epifani, titolare del fascicolo con l'ipotesi di reato d'istigazione al suicidio contro ignoti, perché il perito non l'ha ancora completata".
Vanacore era stato convocato al Tribunale di Roma dove due giorni dopo avrebbe dovuto deporre come testimone nel processo per l'omicidio di Simonetta Cesaroni, che vede imputato l'ex fidanzato della vittima, Raniero Busco.

Igor Patruno
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venerdì 1 gennaio 2010

L’odontologia forense e il delitto di via Poma

L’ultimo caso che ha riportato le lesioni da morso nella cronaca nera è un delitto per il quale è stata appena emessa la sentenza di primo grado. Il 7 agosto del 1990 una giovane impiegata, Simonetta Cesaroni, fu uccisa con 30 coltellate in un ufficio di via Carlo Poma a Roma. Dopo anni di oblio il caso si è riaperto, quando i periti del giudice hanno affermato che il morso sul seno sinistro è compatibile con l’arcata dentale di Raniero Busco, all’epoca fidanzato della vittima. Raniero Busco si è sempre proclamato innocente, ma il tribunale, sulla base di una serie di prove, lo ha dichiarato colpevole. Il caso è stato affidato a Emilio Nuzzolese, odontologo forense, che è stato nominato perito della difesa.

Nella sua attività di perito gli è capitato di affrontare diversi casi di lesioni da morso , ma quante volte ha potuto indicare con ragionevole sicurezza una corrispondenza tra lesioni esaminate e dentatura del sospetto aggressore in base al solo esame morfologico?

Il solo esame morfologico è sufficiente a confermare l’origine dentale e umana della lesione.


L’individuazione di corrispondenze e di compatibilità richiede, invece, un’approfondita analisi tecnica, non solo della lesione, ma anche della dentatura dei sospettati. I riscontri valutativi sono condizionati dal reato ipotizzato e dalle opportunità di svolgere i rilievi tecnici sul soggetto. Per esempio in un cadavere, insieme con il patologo forense, è possibile eseguire tutti i rilievi: dalle fotografie digitali con diverse fonti di luce, alla dissezione dell’area per l’osservazione con sistemi di ingrandimento.

Inoltre, si deve sempre ricordare che un bitemark non riproduce l’impronta dei denti sulla cute, bensì rappresenta la sua reazione vitale al trauma subito. Ecco perché i morsi inferti dallo stesso soggetto potranno lasciare tracce e segni differenti, comunque in grado di permetterne l’individuazione attraverso metodiche informatizzate di analisi morfometrica di compatibilità applicate su tutti i sospettati. La possibilità di svolgere tutti i necessari rilievi tecnici sia sulla vittima sia sui sospettati rendono estremamente affidabile questo accertamento medico-legale: i bitemark.

Tuttavia, a differenza di altre scienze di analisi, esistono alcuni limiti che dipendono dalla qualità e dalla quantità di informazioni oggettivamente ottenibili, spesso però conseguenti all’opportunità per l’odontoiatra forense di intervenire tempestivamente. In ogni caso l’attività di un perito odontoiatra potrà essere coadiuvata dal patologo forense, nel rispetto delle reciproche competenze, con grandi vantaggi nei riscontri valutativi soprattutto nell’ambito, per esempio, della genesi temporale della lesione.

Per quanto concerne il famoso delitto di via Poma, senza entrare nei dettagli tecnici del caso, si può dire che è uno di quelli in cui la presenza di un morso sul corpo della vittima è determinante per stabilire l’innocenza o la colpevolezza di un sospettato. È stato sicuramente difficile comparare la dentatura dell’indagato – a troppi anni di distanza – e la lesione da morso che il perito non ha potuto esaminare direttamente sulla vittima. L’operato degli altri periti dentisti ha individuato una compatibilità tra il morso e la dentatura di Raniero Busco nel 2008. Purtroppo, nell’agosto 1990 non fu richiesto un accertamento da parte di un perito odontoiatra con tutte le conseguenze in ordine alla affidabilità tecnica sia dei rilievi di allora sia delle valutazioni comparative di oggi. Proprio l’esiguità dei dati avrebbe dovuto scoraggiare la valutazione comparativa con un solo soggetto. Secondo quanto ho rilevato e sulla scorta degli stessi dati tecnici a disposizione dei periti già intervenuti, posso comunque escludere che il morso sia stato inferto da Raniero Busco. Le caratteristiche dentali e il tipo di segni che Busco avrebbe lasciato nell’atto di addentare per mordere sono stati analizzati secondo le procedure suggerite dall’American Board of Forensic Odontology, l’organo che certifica gli odontoiatri forensi negli Usa.

In conclusione, la sentenza di via Poma traduce una complessa attività d’indagine. Solo la lettura delle motivazioni permetterà la vera comprensione di quegli elementi che hanno portato a ritenere Raniero Busco colpevole.



CENTRO MEDICO DENTISTICO

via Anassagora, 2a - 09134 Cagliari - tel. 070 513925 - p.i./c.f. 03122010923 - info@centromedicodentistico.it

Il delitto di via Poma: un giallo senza fine


Il delitto di via Poma: un giallo senza fine


Tipologia: audiolibro
Autore: Jacopo Pezzan e Giacomo Brunoro
Speaker: Max Dupré, Rita Zanchetta, Nino Carollo e Mauro Ferreri
Durata: 1h 25′
Data pubbl.: 2011

Descrizione

Il giallo di via Poma è senza dubbio uno dei casi più famosi e complicati degli ultimi vent’anni, un giallo che per moltissimo tempo è stato il cold case per eccellenza della storia italiana. Questa brutta storia è cominciata nell’estate nel 1990 e, nonostante la sentenza di primo grado che ha condannato pochi mesi fa Raniero Busco, la sensazione è che non sia ancora finita.

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Libro : Io, Via Poma e... Simonetta


Libro : Io, Via Poma e... Simonetta

Autore: Volponi Salvatore
Editore: E.N.I.A.P.A.S.
Pagine: 128
ISBN: 8890154004
ISBN-13: 9788890154003
Data pubbl.: 2004


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La ragazza con l'ombrellino rosa. L'omicidio di via Poma venti anni dopo


La ragazza con l'ombrellino rosa. L'omicidio di via Poma venti anni dopo



Autore: Patruno Igor
Editore: Ponte Sisto

Pagine: 272
ISBN: 8895884256
ISBN-13: 9788895884257
Data pubbl.: 2010

Descrizione

La ricostruzione dettagliata di 19 anni di indagini. La storia di un omicidio assurdo ed inquietante raccontata quasi come un romanzo.

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Il delitto di via Poma. Sulle tracce dell'assassino


Il delitto di via Poma. Sulle tracce dell'assassino

Autore: Lavorino Carmelo
Editore: Il Filo
Genere: problemi e servizi sociali
Argomento: delitto cesaroni, simonetta
Collana: Crimen
ISBN: 8856729814
ISBN-13: 9788856729818
Data pubbl.: 2010

Descrizione

Via Poma: due parole che nel mondo dell'investigazione criminale e della cronaca giudiziaria sono diventate simbolo e luogo del giallo dei gialli, secondo in Italia solo ai delitti del Mostro di Firenze, il ricordo bruciante e ossessivo di un insuccesso investigativo. È il 7 agosto del 1990. In un palazzo di via Poma a Roma, lavora come segretaria part-time la ventenne Simonetta Cesaroni. Quel giorno Simonetta entra in ufficio intorno alle 16, deve sbrigare delle pratiche contabili: nessuno la rivedrà più viva. Alle 23:20 viene ritrovata cadavere nei locali dell'ufficio, quasi nuda, massacrata con ventinove colpi d'arma bianca al volto, al petto e all'inguine, sul seno il probabile segno di un morso. Ha così inizio il giallo di Via Poma, di cui Carmelo Lavorino si è occupato fin dall'inizio, come autorevole criminologo e consulente di parte di uno degli imputati. Attraverso una dettagliata ricostruzione della vicenda, Lavorino propone al lettore un'appassionante indagine scientifica, poliziesca e giudiziaria che s'insinua in tutti i misteri e gli scenari del caso, sino a fornire una soluzione inedita, logica e alternativa alle piste finora seguite dagli inquirenti.

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