martedì 1 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - parte 3

Il delitto

Alle ore 15:00 circa del 7 agosto 1990 Maria Luisa Sibilia lascia per ultima l’ufficio situato al 3^ piano della scala B. Da quel momento l’ufficio rimane vuoto, fino al momento in cui Simonetta Cesaroni, oppure il suo assassino, od entrambi insieme, giunge o giungono per la sessione di lavoro pomeridiana.

Infatti, poichè nessuno fu visto entrare, non vi è modo di stabilire chi entrò per primo, sicchè è anche possibile che l’assassino abbia preceduto Simonetta in ufficio, nel qual caso avrebbe dovuto possedere le chiavi.

D’altra parte l’ipotesi circa una visita di lavoro programmata nel pomeriggio, è stata ampiamente esposta nell’analisi dei fatti occorsi quella stessa mattina negli uffici della RELI s.a.s..

Anche i pochi elementi che si possono trarre dal contenuto del computer o dalla duplice conversazione telefonica con la Berrettini, non offrono indizi risolutivi circa il momento in cui sopraggiunge l’assassino, tranne il fatto che la Cesaroni non accenna in quelle telefonate ad altre presenze nell’ufficio.

Per quanto riguarda invece l’interruzione del lavoro proprio nel corso del caricamento di una “prima nota”, non pare potersi dedurre alcunché, posto che i motivi dell’interruzione possono essere i più svariati e non solo l’improvvisa constatazione che era entrato qualcuno (visitatore munito di chiavi), o il richiamo di un bussare alla porta o di un citofono che suonava.

Può affermarsi unicamente che ad un dato momento la situazione nell’ufficio muta radicalmente e la Cesaroni si reca, per decisione sua o rispondendo ad una richiesta, nella stanza del direttore Carboni.

E qui non ci si può esimere dal lamentare l’assenza totale nella nuova inchiesta, di indagini in direzione del dr. Carboni, sia rispetto alle necessarie verifiche dell’alibi fornito nel 1990, sia con riferimento ad attività di intercettazione ambientale o telefonica, non lesinate in altri casi.

Con ciò non si vuole sicuramente adombrare sospetti sull’allora direttore della sede Aiag di via Poma, ma certo non si può trascurare, e non solo per motivi suggestivi, che la stanza del delitto era la sua, e che le incombenze lavorative della Cesaroni erano strettamente connesse al suo ufficio.

Ciò detto, con l’ingresso nella stanza del direttore inizia la tragica sequenza che conduce al feroce delitto.
Nella requisitoria il Pubblico Ministero ha sostenuto che la stanza del dr. Carboni è stata appositamente scelta dalla coppia per consumarvi un rapporto sessuale. Tale convincimento si è fondato su deduzioni di carattere generale, e su altri elementi tratti dalla relazione peritale dei RIS di Parma.

Ci si riferisce in sostanza al fatto che la stanza era la più defilata rispetto all’ingresso, che la medesima stanza aveva le tapparelle abbassate, che la vittima è stata rinvenuta seminuda con le scarpe ordinatamente riposte a lato del muro, ed infine che non sono stati riscontrati segni di difesa.

Nessuna delle circostanze segnalate appare significativa nell’indicare l’intenzione condivisa di approcciarsi ad un rapporto sessuale.

Non lo è la scelta della stanza, la cui posizione distante dalla porta d’ingresso non migliora le condizioni di sicurezza, e forse le diminuisce, giacchè non consentirebbe, così distanti, di udire l’approssimarsi di visitatori indesiderati.

Non lo sono le tapparelle abbassate, artifizio che poteva essere adottato in qualsiasi stanza.

Nemmeno la più vistosa circostanza che la vittima appariva seminuda, depone a favore di un approccio sessuale consenziente.


Ben potrebbe essere accaduto; che la spogliazione sia avvenuta ad opera dell’aggressore dopo che la vittima era stata colpita con il probabile ceffone, e forse uccisa con le prime stilettate inferte nelle zone vitali. L’assassino poteva quindi decidere, come in effetti avvenne, di proseguire le efferatezze denudando interamente il corpo ed accedere così alle parti intime per infierire ulteriormente.

Proprio la circostanza delle scarpe appaiate rinvenute sul bordo della stanza, a poca distanza dal corpo, additato ad indizio di un gesto volontario della vittima, pare viceversa più consono ad una aziona condotta dallo stesso aggressore, il quale doveva forzatamente estrarre le scarpe per rimuovere il pantacollant.

Profittando del corpo ormai cadavere, l’assassino slaccia e poi sfila le scarpe che poi impugna entrambe con una sola mano, così da riporle appaiate a poca distanza.

La stessa operazione poteva sì, essere eseguita dalla Cesaroni, ma avrebbe comportato azioni poco naturali in un contesto passionale, e persino inutilmente macchinose (si pensi alla possibilità di sfilare le scarpe usando i piedi e quindi senza slacciarle).

Inoltre la posizione del corpo con le braccia allargate e i capelli all’indietro sembrano “testimoni” del passaggio di una maglietta che viene sfilata dall’assassino.

Sempre riguardo alla tesi di un delitto che matura nel contesto di un rapporto consenziente, di cui non sfugge l’assonanza con l’asserita colpevolezza di Busco, deve svolgersi l’obiezione più importante e, al tempo stesso, più proficua per decifrare le ragioni che hanno condotto al delitto e, soprattutto, all’efferato accanimento sul corpo ormai cadavere.

Si è a lungo narrato in dibattimento e con abbondanza di testimonianze, circa la personalità di Simonetta Cesaroni, descritta come persona che denotava una particolare maturità, pure riscontrabile nella descrizione del suo rapporto con il fidanzato, ove lamenta il prevaricare dei contenuti sessuali rispetto alla agognata richiesta di affettività.

Si scorge dunque un evidente proposito della Cesaroni a volere esaudito il desiderio di un rapporto serio, tanto da arrivare ad esprimere nella “lettera a Babbo Natale” (da taluni erroneamente ascritto ad un atteggiamento infantile) l’auspicio che il rapporto muti nel senso desiderato.

La serietà di Simonetta emerge in modo netto proprio il 7 agosto 1990 quando la sorella la contatta per reperire materiale giuridico utile a dirimere alcune controversie che aveva sul luogo di lavoro.

Simonetta non cede alle aspettative della sorella di avere la disponibilità del libro che trattava la materia, ed impone alla stessa di annotare alcune informazioni sotto dettatura al telefono. Solo più tardi Simonetta otterrà il consenso del datore di lavoro a portare il libro a casa.

Questo fatto testimonia quanto la Cesaroni fosse corretta nei rapporti professionali.

La pubblica accusa e, con particolare energia le parti civili, hanno rimarcato in dibattimento la serietà, la maturità, l’educazione e la correttezza della Cesaroni.

Opinioni pienamente condivisibili, senza esitazioni.

Condivisibili al punto da ritenere alquanto improbabile che Simonetta potesse agire con tanta scaltrezza da profittare della prima occasione in cui fosse sola in ufficio, per ospitare il suo ragazzo, nientemeno che per un incontro amoroso, e per giunta nell’ufficio del “capo”.

L’accusa, a dispetto degli elogi infusi alla personalità della vittima, non ha viceversa esitato a far sua l’ipotesi che vede Simonetta adoperarsi per avere il suo amato in ufficio, incurante del rischio di essere scoperta, incurante del duplice dovere di essere rispettosa nei confronti del suo datore di lavoro, ma anche dei titolari dell’ufficio di via Poma.

Scaltra al punto da spogliarsi di sua iniziativa.

Un quadro che, viceversa, è da ritenersi assolutamente inverosimile.

Può aggiungersi al riguardo che quand’anche si ipotizzase che Simonetta aveva così rapidamente maturato l’intenzione di incontrarsi con un uomo a fini sessuali, si deve convenire che sarebbe più usuale che l’uomo risultasse persona estranea agli affetti tradizionali.

E noto infatti che uffici e luoghi di lavoro in genere, non sono meta di fugaci amplessi fra coniugi o fidanzati, ma piuttosto il luogo di incontri clandestini con nuovi amanti, magari del posto, che non dispongono di altre sedi.

L’ipotesi nuovo amante non mancherebbe di spunti che vanno dalle rivelazioni del 2004 di Salvatore Volponi, ad alcune controverse testimonianze circa conoscenze recenti e dall’accenno della sorella circa la cura nel prepararsi per la serata del 6 agosto che, come è noto, non poteva riguardare Busco, impegnato dal turno di lavoro all’Alitalia.

D’altro canto l’ipotesi nuovo amante appare debole per altri motivi, in primis, per le considerazioni relative alla personalità della vittima, in secondo luogo, per altre evidenze che saranno trattate in dettaglio nel capitolo dedicato alle prove scientifiche relative agli indumenti e al presunto morso.

Preme inoltre segnalare che non si vuole qui escludere il carattere sessuale del delitto, reso macroscopicamente evidente dalla disposizione delle stilettate e dalle offese recate sulle parti intime, ma ritiene che questo attenga, sostanzialmente, ai soli propositi dell’assassino.

Vi è insomma certezza che l’assassino mirasse ad avere un approccio sessuale con la Cesaroni, ed è altrettanto possibile che la vittima potesse anche aver compreso questa eventualità, forse in parte assecondata, ma non certamente condivisa al punto da spogliarsi spontaneamente e rimanere solamente con i calzini, il reggiseno e il corpetto.

Tale abbinamento, oltre ad essere improbabile (vestita sopra, svestita sotto), stona anche per l’eccessiva vulnerabilità della posa, non facilmente accettabile per qualsiasi donna, specie in un ambiente non famigliare.

In ultimo deve essere esaminata la questione inerente l’assenza di segni di difesa sul corpo della vittima rilevata in sede di autopsia, ritenuta compatibile con l’asserito rapporto consensuale che stava per consumarsi nella stanza del dr. Carboni.

Sul punto l’opposizione è netta.

La circostanza che la vittima fosse priva di segni di difesa mostra semmai che l’aggressione è stata repentina e del tutto inattesa, così da impedire qualsiasi reazione della Cesaroni. E non vi è dubbio circa il fatto che il violento schiaffonte che ha raggiunto la ragazza all’emivolto destro, possa aver fatto perdere i sensi alla vittima, inibendo quindi ogni successiva reazione.

Pure probabile appare la possibilità che Simonetta sia stata colpita di spalle con la mano destra, e quindi senza neanche vedere ciò che stava per accadere. Depone in tal senso la circostanza che non sono state udite grida di aiuto o di dolore.

Potrebbe obiettarsi che anche nel caso di un rapporto consenziente e con la donna già semunuda, poteva occorrere che una aggressione improvvisa non consentisse alcun tipo di reazione.

Ciò sarebbe vero soltanto se si escludesse qualsiasi preventivo atto di molestia.

Ma non è così.

L’accusa ha sostenuto che Raniero Busco avrebbe maldestramento inflitto una dolorosissima morsicatura al capezzolo del seno sinistro, che poi degenera, a causa della reazione di Simonetta, nell’aggressione vera e propria.

Dunque, una reazione ci sarebbe stata, e non si vede come avrebbe potuto non tradursi in segni visibili anche post-mortem. Lo stesso medico legale autore dell’autopsia – prof. Carella Prada – ha ipotizzato che la vittima possa essersi difesa con un’arma di fortuna – il tagliacarte – poi strappato dalle sue mani dall’aggressore per usarlo contro di lei.

Eppure i segni non ci sono.

E se i segni non ci sono non resta che ipotizzare, quantomeno in termini di maggiore probabilità, una aggressione improvvisa, per nulla preceduta da atti ostili o, meglio, dolorosi.

Si affaccia quindi l’ipotesi che non vi sia stato alcun morso, e le conseguenze di questa ipotesi possono ben comprendersi.

E’ opportuno, tuttavia, rinviare questa problematica al momento in cui ci si occuperà delle prove scientifiche.

Conviene ora esaminare il problema dell’arma del delitto.

Sulla scena del crimine (inteso come stanza) non fu rinvenuto alcun oggetto appuntito o comunque idoneo a produrre le lesioni rinvenute nell’autopsia e accuratamente annotate e misurate, come da referto.

Potrebbe dedursi da questo fatto che l’assassino abbia deciso di occultare l’arma, così come avvenuto per alcuni vestiti della vittima, nel logico desiderio di ridurre al minimo le possibilità di ricavare da rilievi di vario genere indizi compromettenti.

Al riguardo va detto che nel sopralluogo svolto la notte stessa e nei momenti successivi in cui si aveva la disponibilità piena dei locali in forza del sequestro, fu eseguita un’accurata campionatura degli strumenti d’offesa presenti in tutti i locali dell’appartamento. Emerse quindi che gli unici oggetti che potevano cagionare il titpo di ferite riscontrate sul corpo della vittima, erano due tagliacarte in uso agli impiegati.

Anzi si ebbe la netta impressione che uno di essi, quello in dotazione alla signora Sibilia Maria Luisa, potesse corrispondere per la forma e per la misura della lama, all’ampiezza e profondità delle ferite. Inoltre risultava in base ai riscontri con il personale degli uffici che nussuno di questi tagliacarte mancasse all’appello.

La circostanza che nulla di quanto già si trovava negli uffici, sia stato portato via, potrebbe anche suggerire che l’arma utilizzata fosse “in dotazione” all’assassino, giunto in via Poma già munito di un’arma di offesa. Senonchè i molteplici indizi che suggeriscono la non premeditazione, peraltro condivisi dal Giudice di 1° grado, contrastano con questa ipotesi.

Inoltre una premeditata volontà di uccidere ed infierire sul corpo, avrebbe indotto a munirsi di un pugnale o coltello, che tuttavia non combacia con le ferite riscontrate, tutte originate da tagli inferti con un mezzo privo di una spiccata capacità recidente.

Se, dunque, l’arma non proviene dall’esterno e nessun tagliacarte risulta mancante, può dedursi che sia stato proprio uno dei tagliacarte in dotazione agli uffici ad essere l’arma del delitto.

Risulta agli atti una preziosa informazione al riguardo, e proviene dalla testimonianza della già citata Maria Luisa Sibilia di cui al verbale del 8.8.1990, ove riferisce:

"Sulla mia scrivania usualmente c’era un tagliacarte di color metallico chiaro tipo argentato, munito di manico di metallo, più spesso della lama. La lama era lunga circa otto dita, la punta era lievemente smussata perché tale tagliacarte si usava anche per svitare viti o forzare un cassetto incastrato. Il tagliacarte era dritto prima che andassi in ferie il 17 luglio. Quando tornai, il 7 agosto 1990, cercai il taglia carte perché mi serviva, ma non lo trovai né sulla mia scrivania, né sulle altre. Guardai nella mia stanza, in quella di Giusi Fausti ni e molto superficialmente in quella dove lavorava Simonetta. Il tagliacarte mi serviva per aprire la corrispondenza arretrata. Poi mi feci prestare il tagliacarte di Giusi che ha il manico rosso. Il tagliacarte, raffigurato in fotografia al foglio 32 degli atti della Polizia scientifica, è quello che si trovava generalmente sulla mia scrivania (...). Nella foto al foglio 32 degli atti della Scientifica sul tavolinetto laterale della mia scrivania si vede il tagliacarte di cui ho parlato prima, posto sulla destra su un blocco notes con la scritta Mediolanum a fianco ad una spillatrice. Escludo che il tagliacarte sia stato lasciato in tale posizione da me proprio per quello che ho detto prima, poiché lo cercai senza trovarlo. Se si fosse trovato lì dove è fotografato l’avrei dovuto trovare. Questo almeno secondo i principi del buon senso

I particolari riferiti a verbale (da sottolineare, ovviamente, il fatto che il tagliacarte fosse storto) rivelano quanto fossero importanti questi dettagli per la Polizia. Si aggiunga che sul menzionato tagliacarte non furono rilevate impronte, circostanza piuttosto insolita per un attrezzo di frequente uso, così da suggerire che potesse essere stato opportunamente ripulito.

Ora si impone una riflessione sulle dichiarazioni della Sibilia, perché se il suo tagliacarte è stato usato per colpire la vittima, le “migrazioni” di cui narra la testimone sono di estremo interesse per ricavare informazioni preziose sull’assassino.

Viene da domandarsi, anzitutto, per quale ragione il tagliacarte non si trovasse la mattina del 7 agosto sulla scrivania o nei pressi della postazione di lavoro della Sibilia, posto che le ricerche, svolte dalla medesima la stessa mattina anche sulla scrivania in uso alla Cesaroni, non diedero frutti.

Può dunque affermarsi che il tagliacarte non poteva che trovarsi sulla scrivania di Carboni, dove in effetti la Sibilia non cercò, e dove è del tutto logico che si trovasse dovendo ritenere che l’assassino abbia profittatto di un oggetto a portata di mano e non certo ubicato in altre stanze.

Poiché erano trascorsi parecchi giorni dal rientro dalle ferie, avvenuto proprio quella mattina, non sarebbe affatto inusuale che un oggetto adatto ad un uso promiscuo, fosse migrato nell’ufficio di Carboni per una serie di eventi casuali di cui sarebbe vano sforzo tentare una ricostruzione.

Il vero problema, semmai, è capire il motivo per cui detto tagliacarte, dopo essere stato ripulito, tornò al suo posto d’origine (scrivania Sibilia) dove fu fotografato dalla scientifica come annotato nel citato verbale.

Poteva Raniero Busco conoscere l’ubicazione originaria del tagliacarte?
Ovviamente no.

Questo, si badi, sarebbe un fatto risolutivo ai fini di stabilire la totale estraneità ai fatti del fidanzato, senonchè residua una possibilità, e cioè che fosse la Cesaroni stessa a disporre momentaneamente del tagliacarte, così da decidere, quello stesso pomeriggio, di riportarlo alla postazione d’origine.

L’ipotesi, tuttavia, cozza con una prima evidenza fattuale, relativa al fatto che la Sibilia affermò di aver guardato, pur sommariamente, anche sulla scrivania di Simonetta, senza scorgere nulla.

Ma vi è una seconda considerazione, molto più importante: se anche fosse accaduto che il tagliacarte stava sulla scrivania della Cesaroni, questo significherebbe che non era nella stanza di Carboni e quindi non nella disponibilità immediata dell’assassino, che qui supponiamo fosse Raniero Busco. E quand’anche si immaginasse che per qualche ragione Simonetta, o anche il fidanzato, l’avesse portato con se nella stanza del delitto, fatalmente il tagliacarte sarebbe tornato nel luogo dove era stato preso, e cioè sulla scrivania della Cesaroni, ignorando Busco di chi fosse il tagliacarte.

Come si vede non pare esserci, se non ricorrendo ad ipotesi alquanto bizzarre, una sequenza ragionevole che risolva la questione di come Raniero Busco potesse “occuparsi” del tagliacarte, ed è fatale chiedersi se le medesime osservazioni non siano associabili anche ad altri ipotetici assassini.

L’interrogativo è di fondamentale importanza, perché qualunque ipotesi investigativa si svolga, fosse anche la più plausibile, deve coniugarsi con altrettanti plausibili scenari.

Così nel caso del tagliacarte che, per quanto fortemente indiziato di essere l’arma del delitto, deve anche essere associabile ad un ipotetico assassino che avesse un ragionevole motivo per eseguire lo spostamento, nonché conoscenza della collocazione originaria. Se non fosse possibile fare questa associazione, la stessa ipotesi del tagliacarte perderebbe consistenza.

Posto quindi che a Raniero Busco non è imputabile né la “motivazione” e nemmeno la “conoscenza” chi altri poteva avere questi due fondamentali requisiti?

Certo non un ipotetico nuovo amante, o comunque persona che non avesse qualche confidenza con l’ufficio. Ma un dipendente degli ostelli o un assiduo frequentatore dei medesimi, poteva eccome conoscere l’ubicazione originaria del tagliarate.

Rimane il problema della motivazione, e quindi del vantaggio che poteva trarre un “interno” dallo spostare il tagliacarte dalla scena del crimine al luogo di “dimora abituale”.

Ebbene il vantaggio può facilmente essere individuato nel proposito di celare il coinvolgimento di un soggetto interno, eliminando ogni riferimento all’uso di oggetti appartenenti all’ufficio, ottenibile soltanto ripristinando la situazione standard.

Ecco spiegato il motivo per cui non si sottrae e si porta via il tagliacarte, e nemmeno lo si lascia dove si è colpito a morte.

A confortare questa tesi vi sono altri importanti elementi, primo fra tutti la sottrazione di denaro e preziosi appartenenti alla Cesaroni per simulare un furto.

Si guardi con la massima attenzione a questi aspetti (spostamento tagliacarte e furto) perché sarebbe semplicistico limitarsi a constatare che si trattò di un tentativo di depistare le indagini in direzione di un delinquente abituale.

Ciò che deve far riflettere è il fatto che l’assassino si concesse del tempo per riflettere sul modo migliore di depistare gli inquirenti, e poco importa se queste soluzioni furono ingenue o maldestre. Importa capire che egli non riteneva particolarmente pericoloso protrarre la sua sosta nell’appartamento, purchè questo gli fosse utile per allontananare ogni sospetto da persone che avessero, come egli aveva, confidenza con i luoghi.

Non solo è difficile pensare che Raniero Busco potesse concedersi il tempo per simulare un furto. Pure difficile è pensare che potesse credere di trarre vantaggio dal far sospettare un rapinatore esterno, proprio lui che era un esterno.

Della sottrazione dei vestiti e di altre azioni condotte nell’appartamento successivamente al delitto si tratterà allorchè verrà esaminata la fuga dell’assassino da via Poma.

[Parte 1]

[Parte 2]

Bruno Arnolfo

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