martedì 22 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - sesta e ultima parte

Telefonate e indagini

Il giorno successivo al delitto la polizia svolge frenetiche attività di indagine e nel volgere di poche ore dispone della maggior parte dei protagonisti della vita di Simonetta: i famigliari, gli amici, i colleghi di lavoro. Tutti in questura a riferire dove stavano, cosa facevano e quant’altro. Con la stessa rapidità, la Polizia acquisisce le prime sommarie informazioni dai pochi testimoni che nel pomeriggio del 7 agosto si trovavano nel palazzo o nelle vicinanze. Il resto deve venire dai rilievi della scientifica sulla scena del crimine.

Sono procedure standard, praticate in altre centinaia di casi, di sicuro affidamento per chi, partendo dall’assoluta ignoranza dei legami famigliari, lavorativi ed amicali della vittima, sa di doverli acquisire rapidamente se vuole disporre in tempi brevi di piste da seguire e persone da sospettare.

Bisogna fare in fretta perchè nelle prime ore, nei primissimi giorni, può sfruttarsi il vantaggio di poter raccogliere informazioni sui fatti di quel giorno, non gravate da incertezze o ricordi sbiaditi. Una insidia che col passare del tempo aumenta, e rende indistinguibile la reticenza dalla semplice dimenticanza, come si è avuto modo di vedere al processo con molti testimoni.

Bisogna fare in fretta perché gli inquirenti sanno per esperienza che le possibilità di catturare l’assassino, trascorsi alcuni giorni, diminuiscono radicalmente.

Forse nella fretta si dimenticano di verbalizzare alcune testimonianze, oppure riducono all’osso le risultanze di molte dichiarazioni. Gli uffici, all’epoca, ancora lavorano con le macchine da scrivere, mezzi che impongono sintesi preconfezionate, che non consentono le agevoli correzioni degli attuali programmi di scrittura. A parte il verbale di Paola Cesaroni, nel complesso esaustivo, tutto il resto si riduce a brevi scampoli.

Raniero Busco non è l’unico sul cui verbale non figura l’alibi per le ore del delitto. Sarà però l’unico a pagarne le conseguenze.

Raniero Busco non viene risparmiato, e se anche può essere servito a fornire informazioni sulla vittima come riferito dagli investigatori dell’epoca al processo, le tante ore trascorse in questura (praticamente l’intera giornata dell’8 agosto) e la contemporanea perquisizione presso la sua abitazione alla ricerca di indizi compromettenti (testimonianza di Del Greco al processo) sono rivelatrici di attività investigative puntuali e insistenti. Attività che però non conducono a nulla.

Vengono sentiti anche i tre portieri del complesso condominiale di via Poma, e con loro i rispettivi famigliari. Sommariamente e senza verbalizzare vengono ascoltati alcuni condomini, i pochi presenti o i pochi rintracciati in quel giorno d’agosto.

Fatta eccezione per il ragazzo segnalato dal Colonnello Danese intorno alle 16, nessuno ha visto persone entrare o uscire dalla scala B e pare strano perché i portieri e le loro famiglie, a partire dal tardo pomeriggio, sono soliti radunarsi nel cortile centrale presso una fontana per prendere il fresco e mangiare cocomeri. Forse poteva sfuggire una persona entrata alle 16, ma non una persona uscita intorno alle 18:00.

Intanto si viene a sapere da Paola Cesaroni e Salvatore Volponi della telefonata che Simonetta doveva fare alle 18:30 e che non fece. Si viene a sapere di alcune telefonate fatte da Simonetta a delle colleghe per avere informazioni di tipo lavorativo. Telefonate che si chiudono poco dopo le 17:30.

Ne emerge una fascia oraria che può confacersi alla probabile ora dell’aggressione a Simonetta: 17:45 – 18:30. Una fascia oraria in cui una persona non ha testimoni che possono dire di averla vista, e che comunque si trova a pochi passi dall’ufficio: Pietrino Vanacore.

Per gli investigatori dell’epoca è un indizio pesante perché se il palazzo era deserto (l’anziano Ing. Valle è esente da sospetti per ovvie ragioni), e nessuno è stato visto entrare o uscire e, al tempo stesso, Vanacore non era con i molti altri soggetti che sostavano presso la fontana, chi altri può essere l’assassino?

Un sospetto eccessivo di inquirenti dalle facili suggestioni?

E perche mai?

Si pensi soltanto al fatto che oggi, a seguito delle nuove indagini, sappiamo con sufficiente certezza che Vanacore entrò in quell’appartamento prima del ritrovamento ufficiale del corpo. E’ assolutamente ovvio che se questa informazione fosse già stata nota all’epoca, ancor più gli inquirenti avrebbero sospettato di Vanacore.

Cosa mancava agli inquirenti per sapere che Vanacore non era l’assassino?

Mancava la notizia di quelle telefonate a Tarano che certamente avrebbero inchiodato Vanacore alla responsabilità di aver nascosto quanto a sua conoscenza del delitto, ma che al tempo stesso lo avrebbero escluso dal novero dei potenziali assassini. Nessun omicida avrebbe infatti interesse a confidare le sue prodezze a persona completamente ignara dei fatti e pure estranea ai suoi affetti personali.

Malgrado la mancanza di queste informazioni, gli inquirenti videro giusto circa il coinvolgimento di Vanacore e questa impressione si rafforzò quando interrogarono in carcere il portiere.

Non ebbero però l’intuizione, almeno all’inizio, di pensare a Vanacore come persona coinvolta, ma non autrice del delitto. Il che obiettivamente non era facile da pensare, essendo poco ragionevole che una persona sia disposta ad essere complice di un delitto così orrendo.

Su queste riflessioni si tornerà in seguito nella disamina delle telefonate a Tarano. E’ però molto importante dire ancora una cosa sulle indagini dell’epoca in direzione del portiere di via Poma.

Quale altra constatazione fecero gli inquirenti, ancora oggi di estrema importanza?

Constatarono che a parte il corpo seminudo, niente faceva ritenere che il delitto fosse maturato nel contesto di un incontro amoroso consensuale.

Potevano forse pensare ad una cosa del genere con protagonisti una ventenne ed un uomo prossimo alla sessantina?

Ovviamente no. Ma a parte questo, gli inquirenti non lessero la scena del crimine come indicativa di un possibile intreccio amoroso, di vecchia o nuova data. Colsero invece nella ferocia delle coltellate l’indizio rivelatore di un rifiuto materializzatosi fin da subito e non certo con indosso soltanto i calzini e il reggiseno.

Infine una deduzione istintiva:

L’assassino porta via gli indumenti che lui stesso ha tolto.

Queste sono grossomodo le prime impressioni che ebbero del delitto Polizia e Procura, e sebbene oggi in troppi ci si affanni a dire che le vecchie indagini furono parziali, prevenute e, persino, professionalmente scadenti, ancora bisogna aspettare che in futuro si giudichino quelle ultime.

Al di la del comune blaterare sui progressi delle indagini scientifiche non si comprende in che cosa le nuove indagini si distinguerebbero rispetto a quelle del 90, quanto ad imparzialità, completezza e rigore deduttivo.

Oltre alle sorprendenti lacune nel disporre intercettazioni ambientali e telefoniche, laddove persone ritenute erroneamente morte non sono state controllate, tutti sanno perfettamente che dopo la scoperta del DNA di Busco sugli indumenti, l’inchiesta è virata decisa in direzione dell’ex fidanzato senza più curarsi di mantenere alcun equilibrio.

Si e forzato su tutto, a cominciare dall’alibi contraddetto, di cui la malizia nel documentarlo può sfuggire solo ad un cieco.

Si è forzato, come vedremo fra poco, sugli orari di certe telefonate.

Si è forzato, riprendendo una citazione del processo, sulle “..catene causali distinte che procedono in parallelo…”. un abile artifizio dialettico usato dal Pubblico Ministero per neutralizzare evidenze completamente contrarie all’ipotesi accusatoria.

Ma torniamo ora alle primissime indagini.

L’8 agosto 1990 viene sentito tutto il personale degli Ostelli con lo scopo, da un lato, di avere una panoramica delle relazioni interne e delle affinità con Simonetta Cesaroni, dall’altro, di cogliere nei soggetti maschi possibili sintonie al quadro delittuoso.

Non sappiamo quanto queste investigazioni interne all’ambiente di lavoro siano state intense e quanta cura sia stata dedicata alle verifica degli alibi del personale, dei loro spostamenti, delle loro relazioni con la vittima e, in generale, ogni riscontro che conduca ad avere cognizione di tutti i soggetti maschili che direttamente o indirettamente ruotavano intorno agli uffici AIAG di via Poma.

E’ lecito tuttavia pensare che i sopravvenuti sospetti in direzione di Vanacore abbiano in definitiva diminuito le attenzioni nei confronti dell’ambiente lavorativo, non essendoci relazione diretta tra l’attività dell’ufficio e i compiti del portiere.

Comunque sia i primi interrogatori offrirono un’informazione estremamente preziosa dal punto di vista investigativo. Si tratta di una telefonata che Simonetta Cesaroni fece nel pomeriggio alla signora Berrettini, allora responsabile del personale, per superare una difficoltà di tipo lavorativo nell’inserimento di codici identificativi.

Tralasciando ora i dettagli di queste deposizioni, ciò che è importante stabilire è che l’intreccio di telefonate che seguirono alla prima telefonata della Cesaroni alla Berrettini, per come è stato descritto da ben tre testimoni (Luigina Berrettini, Anita Baldi e Salvatore Sibilia), offre un quadro preciso e concordante del fatto che Simonetta chiuse la conversazione con la Berrettini (la seconda di quel giorno) non prima delle 17:30 e non oltre le 17:45.

Deposizioni rese il giorno successivo al delitto, e quindi estremamente importanti sotto il profilo dell’affidabilità dei ricordi.

Un orario, tuttavia, che mal si acconcia alla possibilità che l’assassino sia stato Raniero Busco.

Seguendo l’ipotesi sostenuta dall’accusa di un incontro voluto da Simonetta d’intesa col fidanzato, nel quale i due prima discutono di alcuni aspetti legati alla loro difficile relazione, e poi si piegano alle reciproche attrazioni carnali sfociate in un morso e poi in una aggressione mortale, il tempo occorso può stimarsi in mezz’ora.

Tutto ciò, si badi, accettando che i due siano rapidamente transitati da una aspra discussione ad una tenera e disinvolta intimità nella quale la vittima si sposta in un’altra camera, si toglie le scarpe (riposte con cura sul bordo del muro) e poi si denuda per concedersi all’amato nell’originale posa in calzini e reggiseno. Una generosità ripagata dal fidanzato con un morso recidente e doloroso al seno, che scatena la ribellione della vittima, che si arma di un tagliacarte e tenta di difendersi, ma viene sopraffatta da un ceffone, prima, e dalle pugnalate con lo stesso tagliacarte, poi.

Tutto ciò senza che sul corpo di Simonetta si notino in autopsia segni di una tentata difesa.

Concessa una mezzora di tempo per una simile improbabile dinamica, un’altra mezzora va concessa per le pulizie successive, così da arrivare ad un’ora complessiva. Poi occorre ancora tener conto che dopo la telefonata risolutrice della Berrettini, Simonetta carica a terminale i dati di due prime note e soltanto alla terza si interrompe di colpo, forse per aprire la porta al fidanzato che citofona o bussa alla porta. Altri 10- 15 minuti, quindi.

Fatte le dovute compensazioni si può quindi stimare che alle 19:00 Raniero Busco è sulla propria auto pronto a partire per far riento a casa, disfarsi degli indumenti della vittima, cambiarsi, lavarsi, e recarsi al Bar dei Portici a ….caccia di testimoni.

Sapendo che il tempo di percorrenza da Via Poma alla residenza di Busco è di 40 minuti, è assolutamente ovvio che non può avercela fatta.

Serve mezzora in più.

Serve che Simonetta, la Berrettini, la Baldi e anche Sibilia, sbrighino le loro faccende dei codici identificativi mezzora prima di quanto è segnato sui verbali dell’8 agosto 1990.

Serve che qualche ricordo del 2010 appaia più verosimile di quelli di ventanni prima.

Serve di tutto, anche orologi ad alta velocità.

Serve soprattutto che gli aggiustamenti non producano un effetto contrario a quello desiderato, ove il postumo mutamento degli orari potrebbe intaccare la buona fede dei testimoni a suo tempo risoluti e concordi nell’affermare che la sequenza cronologica delle telefonate coprì la fascia oraria compresa fra le 17:15 e le 17:35. Potrebbe infatti palesarsi il sospetto che l’orario indicato all’epoca celasse, non un errore, ma il proposito fraudolento di proteggere qualcuno a cui conveniva che Simonetta risultasse ancora viva alle 17:30.

D’altro canto, al di là delle esigenze di chi accusa o di chi difende, non pare fuori luogo ipotizzare che le telefonate siano avvenute prima di quanto indicato nel 1990 e ciò per due motivi:

  1. le risultanze peritali riguardo ai tempi di digestione che mostrerebbero come probabile un orario del decesso intorno alle 17:00

  2. l’avvio del computer alle 16:37 che secondo logica dovrebbe distare pochi minuti dall’esigenza sopravvenuta a Simonetta di avere informazioni di dettaglio sui codici identificativi.

Se dunque può esservi valido motivo per propendere sull’ipotesi di un delitto commesso prima delle 17:30, e quindi con apparente vantaggio per le tesi accusatorie, resta il sospetto di aggiustamenti orari (quelli fatti nel 1990) funzionali alla copertura di un cosiddetto territoriale. Il che esclude ogni coinvolgimento di Raniero Busco.

Ma queste non sono le uniche telefonate cruciali di quel giorno.

In base alle ultime indagini e ai riscontri dibattimentali è stato accertato che la sera del 7 agosto 1990, altre due telefonate, presumibilmente fatte dall’ufficio di Via Poma, giunsero alla residenza estiva dell’Avvocato Caracciolo di Sarno, all’epoca Presidente Aiag, la prima intorno alle 20:30, la seconda alle 23 circa. Per la precisione queste telefonate giunsero alla residenza del fattore il sig. Macinati, in quanto l’avvocato non aveva il telefono presso la sua residenza situata a 16 km. di distanza, per cui era usuale che si telefonasse al fattore che poi riferiva a Caracciolo.

Poiché le telefonate, della stessa persona, rivelavano entrambe una forte urgenza di parlare con l’Avvocato Caracciolo, si è da subito sospettato potessero essere in relazione con il delitto avvenuto negli uffici di Via Poma, anche perché l’apparecchio telefonico situato nell’ufficio in cui lavorava Simonetta rivelò la presenza di sangue sui tasti numerici, a testimonianza di un uso postumo al delitto.

Altri particolari quali l’agendina di Vanacore, forse rinvenuta sul luogo del delitto (di ciò non si ha certezza), nonché la confidenza che Macinati fece ad un maresciallo dei Carabinieri circa il fatto che fu Vanacore a telefonare a Tarano, erano estremamente indicativi di una relazione fra le telefonate e il delitto.

In udienza si è avuta conferma dallo stesso Macinati, dal figlio e dalla moglie (colei che ricevette materialmente le chiamate) di queste telefonate, ma riguardo all’autore delle medesime vi è stata la retromarcia di Macinati che ha infine sostenuto di non sapere chi fosse l’autore.

In effetti qualche motivo di dubbio vi sarebbe riguardo a Vanacore, più che altro perché pare poco verosimile che egli scegliesse di informare Caracciolo piuttosto che la Polizia, come già esposto nel precedente capitolo.

Senonchè, tolto Vanacore, resta il solo assassino a sapere del delitto negli orari riferiti da Macinati, per cui a questi bisognerebbe imputare un motivo plausibile per comunicare con urgenza con Caracciolo.

Quale?

Non certo la necessità di avere dei suggerimenti dall’avvocato Caracciolo su come celare alla polizia di essere l’assassino.

Neppure la possibilità di procurarsi un alibi, dal momento che l’ufficio e l’abitazione romana di Caracciolo sono troppo vicine a via Poma.

Resta una sola ragione, ma estremamente importante, che poteva indurre l’assassino a contattare con urgenza Caracciolo di Sarno: l’ipotesi che questi sapesse chi doveva passare in ufficio quel pomeriggio.

Una situazione di questo tipo avrebbe reso estremamente vulnerabile la posizione dell’assassino nei confronti di chiunque fosse a conoscenza del suo fatale impegno pomeridiano. Così vulnerabile da imporre immediate contromisure per assicurarsi il silenzio di questa persona, a mezzo di una disperata confessione oppure di una plausibile bugia (es: sono entrato …ho visto il corpo…. ho avuto paura….ho famiglia……non voglio che sospettino di me).

Ovviamente nel caso non sia stato Vanacore a telefonare, le telefonate non sarebbero partite da Via Poma ma da una diversa località, essendo assai improbabile che l’assassino o chi per esso abbia sostato nell’ufficio di via Poma negli orari indicati (20:00 e 23:00). Circostanza questa che impone che l’assassino abbia comunque usato il telefono di via Poma dopo il delitto (macchie di sangue sulla tastiera) per altre possibili chiamate.

In ogni caso non è stato dimostrato che il tentativo di informare Caracciolo sia andato a buon fine, nel senso che il messaggio sia effettivamente pervenuto al Presidente Aiag (l’interessato ha negato di essere stato avvisato da Macinati).

Quello di cui vi è certezza, è che l’accusa non può permettersi di ipotizzare che l’autore delle telefonate a Tarano sia soggetto diverso da Vanacore, unico a cui può imputarsi, e non senza fatica, di aver agito mosso da timori infondati e che generano, secondo il Pubblico Ministero, le “ catene causali distinte che procedono in parallelo”.

L’unico, si aggiunga, che non può più contraddire le affermazioni dell’accusa.

Restando comunque alle conclusioni dell’accusa, e quindi seguendo l’ipotesi che sia stato Vanacore l’autore delle telefonate, non ci si può esimere dall’indagare i motivi che avrebbero indotto il portiere a compiere tale azione dopo la scoperta del cadavere.

In generale può anche credersi che Vanacore abbia desistito dal chiamare la Polizia.

Si può ben capire, insomma, il timore di chi si sarebbe trovato costretto a dover spiegare il motivo dell’ingresso nell’appartamento, particolarmente imbarazzante nel caso si dovesse raccontare di una porta socchiusa (la Polizia, infatti, diversamente da talune Corti d’Assise, non crede agli assassini che uccidono, sostano mezzora in una stanza, poi prendono le chiavi e …lasciano la porta aperta!)

Ma se la reticenza a chiamare la Polizia è plausibile, del tutto privo di logica appare l’aver avvisato (o cercato di avvisare) i datori di lavoro di Simonetta.

Non si comprende infatti la ragione per cui un uomo determinato a farsi i fatti suoi e ad evitare noie con la polizia, avrebbe al contrario sentito la necessità di rendere partecipi della scoperta altre persone, esponendosi quindi ad un coinvolgimento che pareva voler evitare.

Anche qui, come per il delitto, serve un movente per agire in tal modo, altrimenti si sconfina nell’assurdo.

Serve una motivazione sufficientemente logica da spingere il portiere a scansare la polizia, ma al tempo stesso chiamare Caracciolo e richiamarlo ancora sul tardi.

Secondo il Pubblico Ministero la motivazione risiede nel timore che il portiere aveva circa un possibile coinvolgimento nel delitto di persona interna all’ambiente di lavoro, che avesse con Simonetta una relazione.

A suffragare la tesi, lo stato del corpo seminudo, possibile indizio (anche per Vanacore) di un segreto incontro amoroso finito malamente.

Potrebbe essere?

Certamente la scena suggerirebbe a chiunque di pensare ad un “interno”, e Vanacore aveva pure il vantaggio (che non avevano gli investigatori) di poter escludere se stesso come autore del crimine.

Ma una tale osservazione, per quanto esatta, non è sufficiente ad indicarci che Vanacore sentisse il bisogno di confidare la cosa ad uno dei principali. Egli poteva benissimo tenersi questa deduzione per se, in omaggio all’intenzione di farsi i fatti suoi.

Dunque quale ulteriore ragione poteva spingerlo a chiamare l’avvocato Caracciolo?

Fatalmente occorre considerare la possibilità che Vanacore potesse aver visto di più di quanto ipotizzato dall’accusa (la scoperta casuale del cadavere) e che fosse proprio quell’avvistamento ad indurlo a salire al terzo piano per verificare.

Una decisione fatale, perché entrando deliberatamente nella stanza in cui scoprirà un cadavere, Vanacore si priva (senza volerlo ovviamente,) della possibilità di raccontare il fatto alla polizia senza dire chi aveva visto fuggire (come già detto, il portiere non può pensare che la polizia crederebbe ad un ingresso fortuito).

Ora è probabile che il portiere di fronte alla scelta di dire tutto (scoperta del cadavere, avvistamento e riconoscimento dell’uomo in fuga) o di non dire niente, abbia temporeggiato e infine deciso che forse poteva delegare ad altri questa scelta, a persona che oltre ad essere il responsabile di quegli uffici era un avvocato che poteva pure consigliarlo sul da farsi. Tenta quindi con queste chiamate a Tarano, infruttuose.

Infine desiste, e decide di farsi da parte, di non farsi vedere dai primi soccorritori.

Di tacere.

In carcere sospettato di omicidio, capisce di non poter dire, tre giorni dopo il delitto, di essere entrato nell’appartamento, fosse anche per un nobile motivo. Teme per se, per la sua famiglia, e infine concede agli inquirenti la mezza verità dell’uomo visto fuggire, non da lui ma dalla moglie, un uomo, necessariamente, sconosciuto.

Può pensarsi a molti altri motivi che possono aver indotto Vanacore al silenzio, di più maliziosi.

Oppure si può credere alle famose “catene causali distinte che procedono in parallelo” , e cioè a Vanacore che entra per caso, che vede un corpo martoriato e rimane di pietra, che chiama i principali per avvisarli che un loro dipendente ha combinato un casino, che seccato per non aver trovato nessuno si nega lo stesso alla polizia e va a dormire dall’anziano architetto.

Una “catena causale” che include, e vengono i brividi soltanto a pensarlo, la decisione di uccidersi piuttosto di dire la banale, comoda e innocente storiella dell’ingresso casuale che nulla ha a che fare col delitto.

E’ più facile credere agli oroscopi.

L’8 marzo 2010 Vanacore si è ucciso affogandosi in mare e consegnando ai posteri l’atto di accusa di vistosi cartelli, troppo esibiti per essere veri.

Non convince la storia della persecuzione giudiziaria o dei media, che infine lo spinge a farla finita. Ben più grave era la persecuzione quando stava in carcere con l’accusa di omicidio. Oppure due anni dopo quando ad essere accusato era Federico Valle e lui di favoreggiamento.

Perchè mai un uomo che ha resistito a pressioni psicologiche così forti, cede di schianto quando di fatto non esiste più alcuna accusa di essere stato complice di un delitto?

Tutti quanti, e quindi ciascuno di noi, hanno esortato Vanacore a dire la verità, quasi esistesse un modo per farla riconoscere inequivocabilmente. La verità non è invece riconoscibile da nessun gesto o parola, e spesso non viene creduta.

Vanacore lo ha sempre saputo e per timore di non essere creduto e peggiorare la sua posizione, decise di non dire la verità, di tenerla per se.

Finchè gli viene offerta una verità monca, abbastanza vera per essere creduta, ma falsa quanto basta per condannare un innocente.

La persecuzione di magistrati e giornalisti sarebbe finita, forse anche quella del vero assassino, ma quella della coscienza lo avrebbe distrutto, perché infine si può tacere, ma non mentire a danno di un uomo innocente.

Ha scelto di tacere, nel modo che gli è sembrato più facile.


[Parte 1]

[Parte 2]

[Parte 3]

[Parte 4]

[Parte 5]

Bruno Arnolfo

2 commenti:

  1. Su Vanacore la penso esattamente come te Bruno!

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  2. complimenti come sempre, bruno......certo che il fatto che l' autore delle telefonate sapesse chi doveva passare in ufficio esclude non poco il fatto che si sapesse di un incontro clandestino........e gia', lo diciamo da un pezzo , in fondo......forse lo sapeva perche' era UNA PRESENZA ABITUALE PER FINI DI LAVORO....e leggendo le carte ne rimangono soltanto 2( due)......vuoi vedere che alla fine combacia tutto.....in fondo pochi giorni fa rispondendo a un post facevo notare quelle chiavi che gli aveva lasciato un ragazzo. ciao e complimentissimi a te e gabry per l' informazione continua che date a chi conosce il caso da poco. marco

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