martedì 31 agosto 2010

Igor Patruno: "Una fitta trama di stranezze..."

Lo scorso giovedì (26 agosto) il Corriere della Sera, il più “autorevole” tra i quotidiani italiani, ha pubblicato un articolo, firmato da Ferruccio Pinotti, nel quale si riportano i verbali di una deposizione stralciata dall’inchiesta “cheque to cheque”. Il personaggio che nel 1996 ha rilasciato le dichiarazioni,tale Luciano Porcari, viene definito ''uomo di confine tra criminalità e servizi segreti''. Nativo di Orvieto, classe 1940, Luciano Porcari subisce una condanna per la morte della sua ex convivente, coinvolto nel 1977 nel dirottamento di un aereo e, infine, diviene – è lui stesso a dichiararlo – “broker” per conto di una società operante negli ambienti della cooperazione italiana con l’Africa del Nord. Ambienti dove sono girate tangenti, dove corrotti e corruttori hanno avuto mano libera per decenni. Insomma un “affarista” di pochi scrupoli. La Dolmen, questo è il nome della società, sarebbe stata utilizzata anche come copertura del SISMI. Difficile stabilire quali affari siano passati per le mani di Porcari e ancora più difficile capire come il SISMI abbia utilizzato la Dolmen, sempre ammesso che sia vero.
Nel verbale, datato 4 dicembre 1996, l’affarista racconta che la Dolmen aveva un doppione, una Dolmen 2, con sede in via Poma: “La povera Simonetta Cesaroni era la ragazza incaricata di stipulare i contratti per conto di queste società (legate ai contratti della cooperazione allo sviluppo, ndr) al di fuori del suo lavoro normale e quindi inevitabilmente era a conoscenza di queste operazioni illecite che, come io le ho detto, ho concluso per conto di queste società. Devo precisarle che ho conosciuto gli uffici di via Poma nel 1991, al ritorno dalla Liberia. Come vede tutte le persone che hanno avuto conoscenza delle attività di queste società sono state uccise”. Il riferimento è alla morte di Mario Ferraro, colonnello del SISMI, ritrovato il 16 luglio 1995 nel bagno della sua abitazione romana, impiccato ad un asciugamano. Ferraro stava indagando proprio sugli ambienti della cooperazione italiana. Fin qui l’articolo.
Ho recentemente scritto un libro, La ragazza con l’ombrellino rosa, l’omicidio di via Poma venti anni dopo, sulla morte di Simonetta Cesaroni e mi è capitato svariate volte di imbattermi in fatti quantomeno strani. Ho dichiarato nel libro di non credere che nell’omicidio possano essere coinvolti direttamente uomini dei “servizi” italiani e resto di questa opinione anche dopo aver letto l’articolo di Ferruccio Pinotti. Ovviamente questo non esclude che possano esserci state coperture, o addirittura depistaggi, dopo l’omicidio. Per capirci qualcosa dobbiamo tornare al 7 agosto del 1990 e tentare di dare un significato a tanti elementi apparentemente privi di collegamenti diretti tra loro.
Cominciamo con la cartellina. Sì proprio una innocente cartellina da lavoro. Simonetta l’aveva con se quando è uscita dalla sua abitazione di via Serafini per dirigersi in via Poma. È la sorella Paola a ricordarsi della sua esistenza e a dichiararlo agli inquirenti. Cosa c’era dentro? Innocenti prime note, oppure documenti di diversa nature consegnati alla ragazza da qualcuno degli ostelli (la Cesaroni lavorava nella sede regionale degli Ostelli della Gioventù)? Impossibile stabilirlo perché della cartellina non c’è traccia negli elenchi degli oggetti rinvenuti nell’ufficio di via Poma.
Continuiamo con Sergio Costa, genero dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi. Arriva per primo sulla scena del crimine. Nulla di strano visto che è di turno al pronto intervento del commissariato Prati. Invece no! Sergio Costa, in forza al Sisde dal 1982 al 1996, risulta distaccato presso la Questura di Roma dal primo gennaio al 30 novembre del 1990. Insomma qualche domanda viene legittimo porsela. Lo stesso Roberto Cavallone, il PM che ha riaperto il caso nel 2004, lo inserisce in un elenco di 30 sospettati. Il suo DNA, prelevato attraverso una tazzina di caffè, viene sottoposto a confronto con quello rinvenuto sugli indumenti della vittima, ma l’esito fu negativo.
Torniamo alla notte dell’8 agosto 1990. Il corpo di Simonetta è stato scoperto da poco e accadono tre fatti strani. Una poliziotta della Mobile si siede alla scrivania utilizzata dalla ragazza per inserire le prime note e le fatture nel programma di contabilità degli ostelli e si mette a disegnare una inquietante pupazza. Non contenta scrive sotto una frasetta altrettanto inquietante: CE DEAD OK. Passeranno 16 anni prima che la poliziotta confessi di aver fatto quel “lavoretto”. Era nervosa, inquieta e quindi ha scarabocchiato su un foglio bianco? Vallo a capire. Se si dovesse sospettare della sua buona fede sembrerebbe un depistaggio. Ma non è finita! In sequenza gli agenti delle volanti cancellano “accidentalmente” la segreteria telefonica e, altrettanto “incidentalmente” staccano la presa di corrente del computer dove aveva lavorato Simonetta.
Una rapida occhiata all’organigramma degli Ostelli della Gioventù rivela subito che l'allora segretario nazionale dell'Associazione italiana alberghi della gioventù era Vito Di Cesare, cognato del prefetto Riccardo Malpica, nel 1990 direttore del Sisde. Roberto Cavallone nel 2006 incarica il maresciallo Prili della Giudiziaria di Roma di verificare tutte le informative su un presunto coinvolgimento dei servizi segreti nell’omicidio, giunte nel corso degli anni in Procura. “Nel 2006 la Procura ci chiese – dirà il graduato dell’Arma durante il processo – di fare indagini su eventuali coinvolgimenti dei servizi segreti, di verificare se avessero personale negli uffici degli Ostelli della Gioventù, di capire se l’attività degli Ostelli fosse in qualche modo collegabile a quella dei servizi. Dagli accertamenti non emerse però nulla di rilevante".
Andiamo avanti. Un colonnello del SIOS (servizio segreto interno delle forze armate), che però nel ’90 lavora alla Presidenza della Repubblica dichiara, a fine novembre del 1990, di aver visto arrivare un ragazzo dai modi “scortesi”, un ragazzo che cercava proprio la sede degli ostelli. A detta del colonnello il tipo entra ed esce dopo 20 minuti. Nonostante un realistico identikit e una precisa descrizione della sua autovettura, la Mobile non riesce ad identificarlo. C’entra qualcosa, oppure è uno qualsiasi capitato in via Poma per caso? Mistero!
Alla fine del 1991 il commissariato Flaminio comunica al Capo della Polizia di aver avuto da un “informatore” importanti informazioni sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Dopo qualche mese viene fuori il nome dell’informatore. Si tratta di un certo Roland Voller, commerciante d’auto austriaco, accusato dalle forze dell’ordine del suo Paese di essere un truffatore. La vicenda è nota: Voller tenta di incastrare Federico Valle, figlio dell’architetto Cesare e dell’avvocato Raniero. Il primo con abitazione, il secondo con studio proprio nella palazzina B di via Poma 2. Nel 1994, quando l’incastro del giovane Valle è praticamente evaporato, viene fuori che Voller non è solo un informatore della Polizia, ma anche lui ''uomo di confine tra criminalità e servizi segreti''. Altre domande senza risposta.
Nel 1995 la giornalista Gabriella Carlizzi, deceduta il 12 agosto di quest’anno, vinta dal solito “male” incurabile, invia una lettera alla Procura di Roma e rivela di aver visto uscire da via Poma, proprio il pomeriggio del 7 agosto, tre uomini dal fare concitato. Uno lo riconosce. Si tratterebbe di un “pezzo grosso” del Sisde, poi coinvolto nello scandalo dei fondi segreti. La Carlizzi ha riportato un episodio di cui è stata effettivamente testimone, oppure ha riferito qualcosa “de relato”? E soprattutto, era proprio quello il giorno in cui i tre sarebbero usciti “concitati” da via Poma? Difficile capire cosa è accaduto davvero.
Nel 1996 un tal Giovanni Vito, qualificatosi come collaboratore del Sisde, dichiara di aver operato proprio in via Poma per conto del “servizio”. Avrebbe montato nello stabile apparecchiature elettroniche di intercettazione ambientale, ed alcune telecamere. Vengono svolti dei sopralluoghi, ma non diedero alcun esito. La Procura invia anche due lettere ufficiali a Sismi e Sisde per avere notizie in merito a tali installazioni, ma entrambi i servizi rispondono che Giovanni Vito non ha mai collaborato con loro e che non sono mai state installate telecamere nello stabile di via Poma su richiesta dei servizi. Un'altra stranezza. Se Vito avesse detto il vero, le dichiarazioni di Luciano Porcari assumerebbero un diverso significato. Proprio in quegli anni Mario Ferraro, colonnello del Sismi, “suicidato” il 16 luglio 1995, stava indagando sulla mala cooperazione e su probabili coinvolgimenti di “agenti segreti” infedeli nelle tante porcherie che sono state fatte tra la Liberia e la Somalia. Ma anche in questo caso tutto è avvolto da una fitta nebbia.

Igor Patruno
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