sabato 28 maggio 2011

Il delitto di via Poma. Condannato e non colpevole

Uscirà nelle librerie a metà luglio il libro di Raffaella Fanelli e Roberta Milletarì: "Condannato e non colpevole".
Edito da Aliberti (160 pagine). Per ora è possibile prenotarlo qui.

venerdì 27 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - quarta parte

L’alibi

Ad ulteriore suffragio della tesi accusatoria viene indicata la testimonianza di Giuseppa de Luca, moglie del portiere Pietrino Vanacore, la quale dichiarò all’epoca di aver visto uscire una persona intorno alle ore 18:00.

Estrapolando dalle risultanze dibattimentali, in particolare per quanto riguarda le informazioni aggiuntive ricavate da intercettazioni telefoniche, la Corte deduce che l’iniziale ed erronea identificazione nell’arch. Forza possa ben adattarsi per somiglianza fisica a quella dell’imputato.

Il passaggio chiave è il seguente:
"Rileva la Corte che non si può non cogliere una qualche somiglianza, anche in relazione all’età,(cfr. le foto prodotte dal PM ed acquisite agli atti all’udienza del 7/6/2010) tra il Forza che però quel giorno si trovava già in vacanza all’estero, e il BUSCO. "

Tuttavia, l’indicazione di Forza non era ricavata dall’aspetto, ma dall’abitudine di questi di portare un cappellino a visiera e per il modo di camminare, sicchè appare del tutto inutile postulare una somiglianza facciale fa Forza e Busco, avendo la De Luca riferito di aver visto l’uomo di spalle.

Non può inoltre tacersi il fatto che se la De Luca è ritenuta attendibile per il ricordo della persona vista alle 18:00 pure dovrebbe essere attendibile per quanto riguarda i ricordi relativi a Salvatore Volponi, a suo dire assiduo frequentatore del palazzo e che ebbe a presentarsi quella sera con il famoso : “signora si ricorda di me?” circostanza confermata anche da Mario Vanacore.
Ma poiché Volponi ha negato tutto, appare evidente che qualcuno mente, o la De Luca o Volponi stesso, con la conseguenza che è impossibile accreditare entrambi come testimoni affidabili, come viceversa si è fatto in questa sentenza.

Con l’avvistamento della De Luca delle 18:00 si conclude la striminzita narrazione relativa alla dinamica dei fatti.

Ora il Giudice si occupa dell’alibi di Raniero Busco e così esordisce:
In merito all’alibi va preliminarmente precisato che emerge in modo univoco dagli atti che nel 1990 non vennero fatti accertamenti sull’alibi del BUSCO relativo al pomeriggio di quel 7 agosto.

Dunque si afferma che nell’inchiesta del 1990, Raniero Busco si giovò di una singolare disattenzione da parte degli inquirenti, per cui non solo questi non gli chiesero l’alibi durante l’interrogatorio notturno, ma nemmeno si curarono di verificare in seguito come avesse trascorso il pomeriggio del 7 agosto 1990.
A provare questo, secondo l’assunto del Giudice, vi sarebbero anzitutto le carte dell’inchiesta del 1990, laddove proverebbero, ove presenti, che non fu chiesto l’alibi (il verbale dell’8.8.90) e, ove assenti, che non fu accertato.
Se però si vuole che le carte siano decisive, occorre pure dimostrare che fosse usuale all’epoca formalizzare con scrupolo ogni cosa.

L’assenza di documentazione in atti deve quindi coincidere con l’assenza di attività investigative in direzione del fidanzato della vittima, perché se così non fosse si avrebbe la prova, non solo di una attenzione verso il Busco che ora si vorrebbe negare, ma pure l’attitudine a non formalizzare ogni cosa.
Un indizio evidente di questo modo di procedere si ha il pomeriggio dell’8 agosto quando Raniero Busco fu nuovamente prelevato per essere sottoposto ad interrogatorio (non verbalizzato), mentre in contemporanea veniva eseguita una accurata perquisizione presso la sua abitazione, di cui non è presente agli atti alcun riscontro (fonte deposizioni processuali di Cavaliere, Del greco e la madre di Busco).

E’ dunque clamorosamente evidente che, a dispetto del “silenzio delle carte”, nelle prime ore furono condotti accurati accertamenti nei confronti di Raniero Busco che certo non potevano prescindere dal sapere, o tentare di sapere, dove si trovasse quel pomeriggio. E non è un caso che proprio quel pomeriggio venga acquisito dal teste Palombi – questo fortunatamente agli atti – il riscontro relativo alla presenza di Raniero Busco alle 19:45 presso il bar dei portici.

Probabilmente gli inquirenti supposero, forse a torto, che l’essere stato al Bar in orario comunque antecedente le 19:45 (Palombi non lo vede arrivare alle 19:45 ma è lui che arriva alle 19:45 e Raniero già sta li) costituiva un alibi sufficiente a scagionarlo, proprio in forza dell’orario delle telefonate fatte dalla vittima la cui chiusura alle 17:35 si pone in forte contrasto con la tempistica del delitto e l’arrivo al bar. E’ possibile che riscontri fatti “a voce” avessero confermato la notizia fornita da Palombi e forse esteso la sosta nei pressi del bar (pare che in quella data il Bar fosse chiuso per ferie).

E’ dunque evidente che le carte non documentarono ogni attività di indagine.

Un breve cenno merita anche il tentativo del Giudice di suffragare la tesi dell’alibi non chiesto e non verificato, laddove si avvale di un brano della deposizione resa in aula dall’ispettore Gobbi, nella quale il Pubblico Ministero ottiene una conferma dal medesimo circa la possibilità che si fosse dedotta l’estraneità di Raniero Busco dal fatto che il rinvenimento del cadavere – ore 11:30 – coincideva con la permanenza al lavoro all’Alitalia dello stesso.

Ora è evidente che la conferma ottenuta da Gobbi, vale al massimo per le prime ore di interrogatorio (in piena notte) quando forse non si avevano elementi per dedurre l’ora di commissione del delitto, ma anche ammettendo vi fosse inizialmente questa convinzione di estraneità, essa svanì nel pomeriggio quando, come già detto, fu disposta la perquisizione a casa del fidanzato, e quando sicuramente erano disponibili le prime informazioni sull’autopsia.

E’ dunque chiaro che fu svolta in direzione di Raniero Busco una pesante attività investigativa, che certo non collima con la negligenza che il Giudice pretende oggi di imputare agli inquirenti del 1990, laddove suppone che non vennero fatti accertamenti sull’alibi dell’attuale imputato.

Nulla impedisce, sia chiaro, di criticare l’operato degli investigatori dell’epoca, financo nelle persone del capo della Mobile, della Omicidi e della Procura della Repubblica, il dr. Catalani.
Forse vi fu approssimazione nelle prime indagini, poca accuratezza nei riscontri testimoniali, sicuramente scarsa cura nelle annotazioni a verbale, tutti elementi che possono far pensare ad errori anche gravi, compresa la possibilità che l’alibi di un sospetto non fosse verificato con cura e dato per buono, anzichè dubbio.

Ma addirittura pretendere che vi fosse da parte dei soggetti sopra menzionati una tale negligenza da omettere gli usuali controlli di rito, non è soltanto irriguardoso, ma palesemente inverosimile.
Eppure il Giudice di 1° grado sostiene con accanimento la tesi che l’alibi non fu chiesto e non fu accertato.

Perché?
Perché un conto è procedere contro un sospetto con il peso di accertamenti che all’epoca furono infruttuosi, altra cosa è procedere supponendo che gli accertamenti furono inesistenti.

Questo permette di procedere con affermazioni come quella che si legge a pag. 86:
Per la prima volta BUSCO era stato sentito sul suo alibi nel 2004 e aveva asserito che quel pomeriggio lo aveva trascorso in compagnia di Simone Palombi al bar dove si riuniva la comitiva, cioè al bar portici…

Poche righe che hanno il pregio di sommare due asserzioni che esprimono entrambe, false certezze.
La prima – Busco sentito per la prima volta sull’alibi nel 2004 - è una ipotesi inverosimile per le ragioni già dette.
La seconda – l’indicazione di Palombi - è soltanto presuntiva poiché come sa benissimo il Giudice, Raniero Busco disse di non ricordare e invitò i magistrati a verificare sulle carte del 90 i fatti da lui riferiti riguardo al pomeriggio del 7 agosto, e solo dopo espresse la possibilità e non la certezza, di essere stato con Palombi quel pomeriggio (cosa peraltro in parte vera, come vedremo dopo).

Il Giudice procede imperterrito ed evidenzia la contraddizione con quanto dichiarato da Palombi nel 1990 riguardo al noto viaggio a far visita alla zia morente.
L’unica riflessione lecita di fronte a tale fatto e che Raniero Busco non si curò di prefabbricarsi con l’aiuto di chicchessia alcun alibi, per cui riferì semplicemente ciò che vagamente ricordava, incurante, a riprova della buona fede, di poter incorrere in una smentita, peraltro soltanto parziale (su questo si ritornerà in seguito).

A nulla serve, come fa il Giudice, esibire l’intercettazione ambientale fatta prima del confronto fra i due, nell’anticamera del Procuratore, posto che il colloquio non ha mostrato alcuna evidenza che faccia risaltare la malafede dell’imputato, salvo che nelle torbide elucubrazioni del giudicante.

Più avanti l’estensore cita la circostanza che Raniero Busco, a seguito di una trasmissione televisiva del gennaio 2007, si presentò agli inquirenti per indicare altri testimoni.
A parte il fatto che probabilmente l’iniziativa non consegue alla trasmissione televisiva, ma a richieste specifiche dei magistrati,viene da considerare il modo curioso con cui la Procura procede nelle indagini riguardo all’alibi di Raniero Busco.

Non assume direttamente le informazioni a mezzo dei Carabinieri con interviste agli amici di Raniero e Simonetta (facilmente rintracciabili chiedendo alla famiglia Cesaroni o cercando agli atti) oppure controllando all’anagrafe i residenti all’agosto 90 nella via dove abita Busco, per poi interrogarli direttamente, senza farsi consigliare i testi dal sospetto.

Non avvia presso gli organi di polizia del 1990 adeguati riscontri delle attività di indagine che furono fatte in direzione del fidanzato della vittima (mai convocati in Procura sia Cavaliere sia Del Greco), se non quelle funzionali alla costruzione fasulla dell’alibi coincidente con il turno di notte all’Alitalia di sui si è già detto in precedenza.
Forse il PM poteva indurre l’agente Gobbi a rispondere in modo “consono” alle attese, ma è impensabile che gente del calibro di Cavaliere e Del Greco si sarebbero fatti “trastullare” nel giochetto del PM.

Vien da pensare quindi che la scelta di consegnare l’iniziativa al sospetto sia stata seguita al solo scopo di indurre Busco a fare qualche passo falso, da “certificare” poi in intercettazioni telefoniche.
Passi questa strategia di lasciar fare al sospetto, ma allora si tenga in debito conto (e lo faccia anche il Giudice) che le intercettazioni a carico di Busco, pur tantissime, non hanno dato alcun esito.
Gli unici riscontri sono emersi a carico delle vicine di casa, per le quali è forse possibile ipotizzare una qualche intenzione di “dare una mano”.
Quel che è certo, però, è che non sono emersi in queste intercettazioni, né in altre, elementi che provino ciò che infine conta e cioè la presenza di Raniero Busco in via Poma o, quantomeno, l’uscita di casa in auto in fascia oraria sospetta.

Diverso il caso degli amici di Busco, in particolare Luigi Poli che nelle risultanze delle deposizioni rese al PM nel 2007, appariva molto credibile e affidabile.

Il Giudice tenta di screditarne l’attendibilità valendosi di una intercettazione telefonica nella quale Luigi Poli conversa con Samanta Dionisi. Ora in questa conversazione non si ravvisa nulla, ma proprio nulla di significativo, sia riguardo all’attendibilità del teste, sia in direzione di una qualsivoglia compromissione di Busco nel delitto.

Il Giudice ricorre unicamente a delle suggestioni, e questo si appalesa in tutta evidenza quando estrae una frase riferita a Raniero dal contesto della conversazione con la Dionisi: “qualche mezza cazzata strana”, pretendendo di attribuirvi un qualche arcano significato che tuttavia evita di spiegare.

Sorprendente è però la conclusione, ove si vorrebbe decretare l’inattendibilità di Priori e Poli.
Si legga con attenzione:
In sintesi, con riferimento alle testimonianze dei tre amici, (Palombi, Priori e Poli), si può concludere che le uniche indicazioni che sono risultate attendibili provengono dal Palombi, che ha riferito di essersi recato al Bar al suo rientro a Roma, intorno alle 19:45, incontrandovi oltre al Busco anche Poli e Priori, laddove questi ultimi “desumono” di avere visto il BUSCO quel pomeriggio di tanti anni prima in ragione delle loro abitudini quotidiane…

Come si vede è del tutto inutile disquisire se Poli e Priori hanno ricordato un’abitudine o una realtà essendovi certezza che entrambi fossero in compagnia di Busco quel giorno, avendo questa presenza congiunta alle 19:45 il riscontro del teste Palombi, a cui il Giudice non può fare a meno di credere.
Dal verbale dell'8 agosto (h 17.00) di Simone Palombi:
... verso le ore 19.45 sono uscito dalla mia abitazione e mi sono recato al bar dei portici ove ho incontrato il mio amico Busco Raniero insieme ad altri amici comuni. Dopo aver salutato Raniero che come ripeto era in compagnia di amici ed esattamente Luigi Poli e Fabrizio Priori, ho comprato le sigarette e …

E’ indubitabile quindi che i testi sono attendibili, e se anche si dovesse ritenere impreciso o insufficiente il loro ricordo, niente può indicare che vi è stata l’intenzione di compiacere l’amico.

Infine le vicine di casa.
Gli elementi prodotti dall’accusa, sebbene privi di evidenze clamorose, possono sicuramente inficiare l’attendibilità della Di Giacomo e della Pellucchini tanto che il Giudice ne approfitta per prodigarsi in disquisizioni, una volta tanto articolate e precise.
Meno convincente appare invece la confutazione della teste Pierantonietti, frettolosamente liquidata come troppo sintetica e apodittica, al punto che non si capisce cosa si voglia dai testimoni, dal momento che non piacciono quelli troppo precisi – Di Giacomo – e nemmeno quelli troppo sintetici.

Inutile aggiungere che le deposizioni della madre, dei due fratelli e dello stesso imputato, pur largamente riprese con un’ampia riproduzione testuale delle deposizioni, non offrono spunti per particolari riflessioni del giudicante, sicchè non è utile parlarne.
E utile viceversa parlare delle osservazioni che la Corte svolge a pag. 104 a confutazione dell’alibi prodotto dall’imputato.
Nel farlo l’estensore illustra dapprima la tesi difensiva che in sostanza può sintetizzarsi come segue.
Non poteva essere accaduto che gli inquirenti non avessero chiesto l’alibi a Raniero, altrimenti non sarebbe seguita la perquisizione a casa sua, a riprova di un evidente sospetto nei suoi confronti, incompatibile con l’indifferenza verso l’alibi.
Quindi se in seguito gli inquirenti cessarono di occuparsi di lui, evidentemente erano stati soddisfatti dall’alibi fornito, e questi non poteva che coincidere con quelli forniti dalle amiche della madre.

La riproduzione della tesi difensiva da parte del giudice è corretta, tranne che per la parte finale che, come vedremo, è del tutto arbitraria.

Si guardi ora a come prosegue il Giudice:
Questa ricostruzione, peraltro sconfessata dagli investigatori dell’epoca che hanno concordemente escluso che BUSCO fosse sospettato poichè aveva dichiarato di ignorare il luogo in cui Simonetta lavorava quei due pomeriggi a settimana (sull’estraneità ai fatti del BUSCO ritenuta dagli investigatori dell’epoca, si veda anche più sotto il racconto di Marzi Giampiero, teste disinteressato e dal nitido ricordo) è contraddetta dalle intercettazioni telefoniche che dimostrano la ricostruzione compiacente delle testimonianze di alibi, accortamente orchestrate dalla madre, di cui si è detto e su cui appresso si tornerà.

In questo passaggio vi sono due affermazioni che meritano la più netta e risoluta censura.

La prima è rappresentata dal fatto che si nega ciò che è evidente per qualunque persona di buon senso, e cioè che la perquisizione venne disposta proprio perché insospettiti dal fatto che Busco ignorasse dove lavorava la fidanzata. Tuttavia, qualora permanga qualche dubbio può sempre rimediarsi nel processo d’appello chiedendo al dr. Del Greco quale fosse il bizzarro motivo che lo spinse ad agire in quel modo.

La seconda affermazione indica invece una contraddizione fra ciò che la difesa avrebbe affermato – l’alibi fornito dalle vicine di casa che avrebbe convinto gli investigatori dell’epoca – e le intercettazioni che proverebbero la mendacia delle medesime testimoni.

Pur dando per scontato che le testimonianze delle vicine di casa siano mendaci, è falso che la difesa abbia affermato che furono queste signore a persuadere gli investigatori del 1990 circa l’alibi di Raniero Busco.

Falso e ridicolo perché le stesse testimoni hanno affermato di non essere mai state sentite all’epoca dei fatti. E la stessa PM esordisce in aula con la Pelucchini dicendo “Signora, lei è stata sentita per la prima volta 17 anni dopo il fatto...

Può valere ad ulteriore riprova dell’inaccettabile postulato del Giudice, la stessa deposizione processuale di Raniero Busco, nella quale egli si limita ad indicare che quel giorno lavorò nell’officina di casa per poi recarsi al Bar dei Portici per incontrare gli amici, come d’abitudine era solito fare tra le sei e le sette di sera.

Nessuna pretesa quindi di associare le testimonianze di oggi a quelle dell’epoca dei fatti, come erroneamente dedotto dal Giudice, per giunta con l’ulteriore malizia di selezionare soltanto le testimoni insidiate dalle note intercettazioni telefoniche.

Un cenno merita anche il riferimento alla madre dell’imputato - Teatini Giuseppina – che il giudice richiama all’attenzione per sottolinearne il comportamento eccessivamente apprensivo tenuto nell’immediatezza degli eventi, ma anche nelle fasi successive.

Gli argomenti proposti dal giudicante si concentrano soprattutto nell’intervista del 3.9.90 del giornalista Marzi, fatta a Raniero Busco e, in sostanza, anche alla madre, pronta a “intromettersi” nel racconto del figlio per sottolineare, dice il Giudice, l’alibi del lavoro nell’officina di casa.

Può forse stupire la sollecitudine della Teatini, ma da qui a sostenere che la stessa avesse “timori rivelatori” per l’alibi del figlio, ce ne passa.

Del resto se la madre aveva motivo di temere per l’alibi, allora bisognerebbe ammettere che tale insidia era portata dagli inquirenti persino a distanza di due mesi dal delitto, con buona pace dell’asserita indifferenza verso Busco degli inquirenti del 1990.

Merita invece di essere riprodotta la parte conclusiva della trattazione inerente l’alibi, ove si legge, tra il resto:
E’ indubbiamente molto anomalo, pur dando per scontato che il BUSCO fosse il meno “coinvolto” fra i due nella relazione amorosa, che i fatti di una giornata così particolare, (e sui quali egli asserisce anche di essere stato interrogato nel ’90 e proprio sui suoi movimenti del pomeriggio, per di più a suon di ceffoni e con l’ostensione delle foto del cadavere, e dunque avendo validissimi motivi per ricordare), in cui si era consumata la barbara e misteriosa uccisione della sua fidanzata ed in cui lui era stato prelevato da una Volante della Polizia in piena notte e poi trattenuto per molte ore in Questura, fossero caduti nell’oblio insieme a quelli di tanti altri giorni uguali uno all’altro. "

Nel desolante panorama di motivazioni generose soltanto nel riprodurre le argomentazioni peritali, ma stringate e parziali nel riferirsi alla dinamica dei fatti, il Giudice offre finalmente uno spunto interessante, disegnando in modo ineccepibile la singolarità del ricordo offerto dall’imputato riguardo a quella notte.

Sarebbe tuttavia ingiusto cogliere unicamente la goffaggine dialettica di Busco nel descrivere gli eventi, e non anche l’ingenuità del medesimo nell’assecondare le ambigue trame degli inquirenti. E non si allude tanto alla disponibilità a sottoporsi ai vari esami richiesti, ma all’aver accettato di essere lui stesso ad indicare chi poteva averlo visto quel giorno.
E’ questo a precipitarlo in un vortice di malintesi, di malizie investigative e di mezzi inganni, che infine si traducono nella rappresentazione dell’alibi contraddetto, di cui Palombi è il “portavoce”.
Ma a dispetto delle convinzioni del Giudice e, a ben vedere, di molti osservatori, non è affatto vero che Palombi ha contraddetto l’alibi indicato da Raniero Busco. Palombi confermò invece di essere stato con Raniero, ma solo dalle 19:45, per cui il ricordo di Raniero era sostanzialmente esatto, seppur impreciso.

Una indiretta conferma si ha dal fatto che quando la Procura oppone a Busco il racconto della zia morente (senza però dirgli che poi passò al bar alle 19:45) e quindi facendogli sentire il “fiato sul collo”, Busco fornisce altri due nomi – Priori e Poli – che coincidono proprio con i nominativi a suo tempo indicati da Palombi come persone che stavano con Busco.

E’ una conferma clamorosa della buona fede di Raniero e persino della sua buona memoria, dal momento che lo stesso Palombi in aula non sarà in grado di ricordare questi nominativi.
Non paghi gli inquirenti (Raniero azzecca i nomi giusti e non dice nulla di compromettente al telefono, tantomeno cerca di influenzare gli amici Priori e Poli che infatti confermeranno in modo vago) danno ad intendere a Raniero che ancora mancano conferme, che forse la ragazza era morta prima, che sarebbe meglio avere un alibi anche per metà pomeriggio.

E’ finalmente compaiono i testimoni ideali (per l’accusa): le amiche della madre. Loro, qualche stupidaggine riescono a dirla al telefono.

Bruno Arnolfo

sabato 21 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - terza parte

L’ora della morte


Il tentativo svolto nell’ultima indagine di restringere la fascia oraria del decesso indicata nella perizia del medico legale – da 7 a 12 ore dal rinvenimento del corpo – non pareva in verità una necessità impellente, perché come ebbero a dire gli inquirenti dell’epoca, la sopravvenuta informazione circa le telefonate fatte (alla Berrettini) e quelle non fatte (a Volponi) avevano ristretto l’indicazione temporale alla fascia che va dalle 17:45 alle 18:30. Fascia oraria a cui si sovrapponeva un’altra evenienza testimoniale – Giuseppa De Luca – che disse di aver visto un uomo uscire intorno alle 18:00.

Tuttavia, poiché l’arco temporale, pur ristretto, si fondava su ciò che avevano detto dei testimoni e non su rilievi scientifici, parve necessario avere riscontri maggiori e verificare se dalle risultanze dell’autopsia potevano ricavarsi ulteriori informazioni utili a stabilire un range temporale più ristretto.

L’esito di questi esami ebbe a determinare la possibilità che il delitto fosse occorso molto prima di quando si supponeva in base alle testimonianze delle telefonate, causando un vero e proprio cortocircuito nelle congetture fino ad allora svolte sull’orario del delitto con implicazioni assai importanti sia in direzione del fidanzato, sia rispetto alla veridicità delle testimonianze relative alle telefonate.

Infatti, se l’anticipo dell’orario del decesso pare aggravare a prima vista la posizione di Raniero Busco (se la morte di Simonetta arretra di mezzora, Busco dispone dei tempi tecnici per uccidere, pulire, tornare a casa, cambiarsi e raggiungere il bar e farsi notare dai testimoni), non meno sospetta diverrebbe la posizione degli autori delle telefonate concordi nel riferire orari che non si conciliano con un delitto già commesso (se la morte avviene prima delle 17, Simonetta non può aver conversato due volte al telefono fra le 17:15 e le 17:35).

Ora, poiché non ha senso pensare che la Berrettini o la Baldi avessero motivo di mentire per proteggere Raniero Busco, ne consegue che l’anticipo dell’orario della morte compromette la posizione dell’imputato, solamente se la Berrettini e la Baldi sbagliarono in buona fede a riferire gli orari delle telefonate.

Allora la domanda è:

può accadere che poche ore dopo il delitto due testimoni riferiscano orari sbagliati di circa mezzora?
Se la risposta più ragionevole è no, allora restano tre possibilità:
  1. i protagonisti delle telefonate mentono sugli orari o sul fatto stesso che Simonetta abbia telefonato, per proteggere qualcuno
  2. qualcuno imita la voce di Simonetta (già uccisa) da parte di una complice dell’assassino
  3. la perizia di Moriani sulla digestione è imprecisa o infondata e Simonetta è morta non prima delle 17:45-18:00
Le prime due possibilità escludono ovviamente Raniero Busco. Anche la terza non si concilia con l’ipotesi che sia l’imputato l’assassino, e di questo si è ampiamente trattato nella ricostruzione del delitto (sempre su questo blog) laddove si è ampiamente discusso della tempistica del delitto.

Per continuare a indicare Raniero Busco quale colpevole del delitto non rimane quindi che ipotizzare che le conversazioni telefoniche siano effettivamente avvenute nei tempi indicati nella perizia sulla digestione, e che tre testimoni, Berrettini, Baldi e Sibilia, insieme, avessero riferito orari sbagliati di almeno 20 minuti in perfetta buona fede.

Un compito arduo ma anche una necessità impellente che impegna allo spasimo l’ufficio del Pubblico Ministero, ieri, e la Corte d’Assise, oggi.

Si guardi allora a come nell’esposizione del giudice di 1^ grado l’aggiustamento funzionale alla esigenze accusatorie diviene, di fatto, una vera e propria manipolazione.

Tutto comincia a pag. 63 con i primi accenni al referto autoptico del 1990 rimesso in discussione nel 2007 per ricavare eventuali ulteriori elementi per restringere lo spazio temporale entro cui collocare l’ora del decesso.

A pag. 65 si accenna appunto al contenuto gastrico rinvenuto nello stomaco di Simonetta, i famosi 150 cc di poltiglia semifluida.

La permanenza nello stomaco della poltiglia rivela quindi che non si era ancora completata la digestione per cui poteva dedursi in base ai parametri noti dei tempi di digestione in rapporto alla qualità e quantità di cibo ingerito, e all’orario del pasto, quale potesse essere il limite temporale entro cui collocare il delitto.

Afferma nella relazione il dr. Moriani: “In particolare, tenuto conto di un pasto consumato intorno alle ore 13:30 – 14:00 e di un tempo di digestione di circa tre ore, l’epoca della morte va collocata intorno alle 17:00.

Evidentemente il consulente deve aver ritenuto opportuno “aggiustare” in eccesso la valutazione temporale in quanto essendo non conclusa la digestione, era più corretto affermare le ore 17:00 come “tempo ultimo” invece di “tempo medio” come indicato in relazione.

Data comunque per buona questa valutazione che il giudice assume a prova, si guardi a come l’estensore delle motivazioni la traduce: ”...la morte sarebbe sopravvenuta tra le 7 e le 12 ore dal momento del sopralluogo, in orario compreso tra le 2 e 3 ore dal momento dal pasto e dunque intorno alle 17:30

Intorno alle 17:30?
L’errore ha del clamoroso, infatti se il pasto fu consumato entro le 14:00, dire “tra le 2 e 3 ore dal pasto” avrebbe condotto alla fascia fra le 16:00 e le 17:00, non alle 17:30.

Un banale errore di calcolo senza intenti manipolatori?

Non sembra perché poco dopo si verifica una nuova “disattenzione”.
Infatti allorchè il Giudice rimanda alle dichiarazioni rese in aula da Berrettini Luigina e Baldi Anita, nonché dalle SIT di Sibilia Salvatore (marito della Baldi) afferma: è risultato che il pomeriggio del 7 agosto alle quattro e mezza- cinque meno un quarto Simonetta aveva telefonato a casa della Berrettini…chiedendole istruzioni sulle tecniche di inserimento dei dati...

Tutto sbagliato.


E vero che in aula la Berrettini esordisce dicendo “alle quattro e mezza- cinque meno un quarto Simonetta aveva telefonato” e ciò in aperto contrasto con quanto affermò l’8 agosto 1990 a poche ore dal delitto, ma alla successiva contestazione della difesa, la Berrettini si corregge e conferma in toto le dichiarazioni del 1990 ribadendo più volte che la telefonata iniziale arrivò alle 17:15 e l’ultima si chiuse alle 17:45.

Il SIT di Sibilia (13/9/90) è ovviamente immutabile e indica, pure con il corredo di un eloquente “e dell’orario sono più che certo” le ore 17:15 (prima telefonata, non l'ultima)!

In effetti la Baldi (e questo dovrebbe far pensare) si corregge rispetto al 1900 e retrocede ad un “17 e qualche cosa” che tuttavia andrebbe ulteriormente anticipato di altri 10 minuti per via dell’orologio che “andava dieci minuti avanti”.

Niente di univoco quindi e meno che mai idoneo a suffragare la tesi che le telefonate cominciarono alle 16:30-17.00 per chiudersi alle 17:15.


La confusione comincia ad essere troppa.

Prima si somma erroneamente il tempo di digestione medio, poi si allude a deposizioni o dichiarazioni che dicono il contrario di ciò che si afferma (Berrettini e Sibilia), infine si “piazza” l’orario delle 17:15 che non quadra con nulla: né con le dichiarazioni a verbale del 1990 e tantomeno con le deposizioni in aula.

Sembra che si “sgomiti” a destra e a manca per aggiustare orari contraddittori e perizie che se da un lato fanno comodo (combaciare con i tempi di Busco), dall’altro devono “adattarsi” agli orari dei “testimoni telefonisti”, smentire i quali avrebbe effetti devastanti per le tesi accusatorie.

Ma andiamo avanti.
Dopo aver riferito della perizia sul computer con deduzioni discutibili, l’estensore afferma:
Tanto premesso, può dunque ritenersi che Simonetta aveva interrotto il lavoro intorno alle h. 17:00-17:10, (secondo l’orario fornito dalla Baldi della cui attendibilità non vi sono motivi di dubitare), quando si era fermata poiché non riusciva ad inserire i dati”

Un’altra sgomitata.

Intanto l’orario 17:00-17:10 contrasta con ciò che lo stesso estensore affermava poche pagine prima quando riferiva “è risultato che il pomeriggio del 7 agosto alle quattro e mezza- cinque meno un quarto Simonetta aveva telefonato a casa della Berrettini…chiedendole istruzioni sulle tecniche di inserimento dei dati…” sicchè viene da domandarsi se l’estensore non sia in totale confusione.

Poi pare davvero eccessiva la fiducia riposta nel testimone Baldi Anita che, a ben vedere muta troppe volte le proprie deposizioni.

Comincia l’8 agosto 1990 ove afferma a verbale:
Verso le 17:30 di ieri mi ha telefonato a casa Luigina Berrettini..
Poi il 22 agosto 1990 si “sintonizza” alle dichiarazioni del 13 agosto 1990 del marito Sibilia Salvatore (le 17:15) alludendo all’orologio precoce di circa 10-15 minuti
Infine nel 2010 in aula:
PM: ecco, ricorda almeno approssimativamente l'orario di questa telefonata da parte della Signora Berrettini?
DICH. BALDI: quello che ho dichiarato all'epoca lo confermo pienamente perché girando intorno al letto, stavo dormendo con... stavamo dormendo, per rispondere al telefono, rispose mio marito, io girai intorno al letto vidi la... la... guardai sulla sveglia così, avevamo una sveglia molto grande con le... con i numeri luminosi...
PM: sì.
DICH. BALDI: ...erano le 17 e qualche cosa, esattamente quello
che... che dichiarai all'epoca, anzi credo di aver fatto una seconda dichiarazione nella quale mi corressi perché non mi ero resa... cioè non mi ero ricordata al momento che la nostra sveglia andava dieci minuti avanti.

In pratica la Baldi nel 2010 “guadagna alla causa” una ventina di minuti facendo retrocedere il 17:15 del 1990 (già adattato all’orologio che andava avanti di dieci minuti) alle 17 o forse meno del 2010.
Non sembra molto opportuno riferirsi alla Baldi come soggetto “della cui attendibilità non vi sono motivi di dubitare”.

Dopo queste “riflessioni” tese a manovrare gli orari in funzione, come vedremo, delle necessità di attribuire a Raniero Busco una tempistica adeguata a scongiurare l’alibi certo delle 19:45 al Bar dei Portici, il Giudice si serve di un altro testimone: Salvatore Volponi.
E cosi l’uomo che non conosceva l’indirizzo di via Poma a dispetto di numerose testimonianze contrarie, e le cui dichiarazioni usate contro Raniero Busco furono dette per la prima volta in un libro scritto nel 2003-2004 in totale contrasto con ciò che aveva detto fino ad allora, diviene per il giudice fonte certa e indiscutibile.
Si legge:
Volponi ha anche sostenuto che a causa dell’urgenza che c’era di finire quel lavoro, egli si era offerto di raggiungerla in via Poma, ma la ragazza era stata irremovibile a non farlo andare, (no, no, non venga, non si preoccupi, cioè faccio da sola, tutto da sola, non si preoccupi) egli era anche a conoscenza che quel giorno Simonetta sarebbe rimasta da sola in ufficio, non essendo prevista la presenza del rag. Menicocci, che aveva fatto fino ad allora da istruttore, né di altri impiegati)"

Per carità, se lo dice Volponi!
Come non credergli?
Come non credere a uno che in fondo ha solo 3 o 4 testimoni che affermano fosse già stato in via Poma.
Come non credere a uno con svariati problemi vissuti in sede civile e penale.
Come non credere a uno che dice di essersi offerto di aiutare Simonetta, sapendo, e lo ammette, che tanto non poteva farlo.
Come non credere a ciò che disse in un libro (un libricino ammette lui) con dichiarati scopi commerciali, che pure necessitava di un finale torbido che facesse cassetta.
Come non credere a chi rimanda per quattro volte la deposizione in aula.


Simonetta, ragazza seria ed educata non fece di tutto per procurarsi un alcova a buon prezzo per portarci l’uomo che tanta indifferenza provava per i suoi sentimenti.
Simonetta non ebbe alcun dominio del suo destino, né ebbe attenzioni per chi , al contrario, le pretendeva. L’uomo non tollerò il rifiuto di Simonetta e dopo averla resa inerme, volle imporre al suo corpo lo sfregio punitivo e possessivo di chi quel corpo non ebbe mai.

Bruno Arnolfo

mercoledì 18 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - seconda parte

Il morso

A pag 40 il Giudice introduce il capitolo dedicato alla “lesione (morso) al capezzolo sinistro” e insiste da subito sull’estrema rilevanza probatoria di tale esame peritale, con ciò assumendo che il disinteresse mostrato dagli investigatori della 1^ inchiesta fosse segno di evidente imperizia.

In verità la questione del morso è stata nel corso degli anni, niente più di una supposizione come ebbe a dire in più occasioni lo stesso esecutore dell’autopsia – dr. Carella Prada -, sicchè appare ingeneroso censurare l’operato di polizia e magistratura.

Oltretutto le ragioni che all’epoca indussero gli inquirenti a non considerare l’ipotesi di effettuare rilievi sulla lesione al capezzolo, non era certo dovuta al fatto che si ignorasse la cosa.

Molto più semplicemente si riteneva che un tale tentativo avrebbe prodotto soltanto risultati incerti o inconcludenti, forse persino rispetto alla possibilità di stabilire che di morso si trattava.

Opinione condivisa dai magistrati che riaprirono l’inchiesta nel 1996 e, parrebbe, dagli stessi magistrati che hanno seguito l’ultima inchiesta, se è vero come è vero che agli inizi – anno 2004 – i rilievi scientifici furono circoscritti ai locali esterni (lavatoi) e ai reperti disponibili (inclusi indumenti), con accenni al possibile morso, solamente come indicazione ai RIS di una possibile causale al deposito di saliva su corpetto e reggiseno.

Soltanto dopo gli esiti infruttuosi degli esami del sangue e, relativamente alla contestualità, dello stesso DNA, la procura, ottenuta una proroga delle indagini, commissionò a fine 2008 la cosiddetta perizia dentaria.
Dunque una decisione che non matura nel quadro degli usuali accertamenti peritali, nel qual caso si sarebbe fatta subito, ma nell’evidente intento di “provare l’ultima carta”.

La descrizione della lesione che si vorrebbe attribuita ad un morso è affidata alle relazioni di Carella Prada nelle due versioni del 1990 – autopsia – e 2007 – consulenza – e del maggiore Pizzamiglio, i quali concordano nel dire che le lesioni alla cute e la deformazione al capezzolo sono dovute all’azione di due mezzi, uno superiore l’altro inferiore, che “hanno serrato come una morsa il capezzolo” . Da qui la deduzione che “i mezzi” altro non sono che le arcate dentarie.

Ottima osservazione, senonchè la medesima compatibilità è riscontrabile con un'altra componente “molto a portata di….. mano”, e cioè le dita, anch’esse in grado di esercitare una pressione sul capezzolo in qualunque direzione e intensità si voglia.

Si aggiunga poi che le unghie possono incidere sulla cute nella misura voluta dall’aggressore, molto più agevolmente di quanto possa farsi con i denti.

Un ulteriore rilievo fatto dai consulenti si ha riguardo alla “vitalità” delle escoriazioni, resa evidente dalla presenza di una crosticina siero ematica, che non avrebbe potuto prodursi se al momento della lesione Simonetta fosse già deceduta. Questa evidenza avrà in seguito la sua importanza in quanto il Giudice assumerà questo fatto come rilevante al fine di contestualizzare il morso alla azione delittuosa, e ciò attraverso la comparazione a un’altra lesione, pure munita di crosticina, di cui si ha certezza della contestualità al delitto.

Questo ultimo rilievo, grossomodo condivisibile (nel processo c’è stata invece opposizione da parte della difesa), non è comunque dirimente riguardo alla cruciale questione di quale sia la causa della lesione.

Invece il giudice assume per certo che la causa sia un morso, né pone in discussione questo elemento, ignorando quindi ogni ipotesi alternativa che pure fece lo stesso consulente Carella Prada nell’intervista al Corriere della Sera del 2004, dove ebbe a dire che poteva trattarsi di un pizzicotto.

Dunque il giudice così conclude (pag. 45):
Tanto premesso, osserva la Corte che la contemporaneità tra il morso e l’aggressione alla giovane, oltre che riferita dai consulenti del PM, le cui argomentazioni sono apparse logiche, congruenti rispetto ai principi scientifici comunemente accettati e fondate su corretti elementi di fatto, e solo apoditticamente contrastate da quelle del consulente della difesa, trova oggettivo e indubbio riscontro in quella sorta di graffio, di cui si è detto sopra, arrecato con il tagliacarte che l’assassino ha per 29 volte affondato nel corpo della ragazza e che presenta una crosticina siero ematica dalle stesse caratteristiche di quella rilevata sul capezzolo sinistro

Se noi togliamo la parola in neretto “morso” e la sostituiamo con “lesione al seno”, nulla di quanto detto sarebbe da osteggiare pregiudizialmente, fino a condividere nella sostanza le affermazioni del giudice.


Persino potrebbe ricavarsi dal riferimento alla ferita similare prodotta con il tagliacarte, una similitudine più marcata di quella voluta dal Giudice, e cioè la possibilità che l’arma da taglio usata per uccidere abbia concorso a produrre sia la ferita “a graffio”, sia quella al capezzolo.

Ecco dunque che le ipotesi diventano tre: il morso; il pizzico; il taglio con lama congiunto a pressione con dita.


Infine è opportuno far notare una cosa estremamente importante.
Se le due lesioni ritenute dal giudice coeve al delitto, avvennero con Simonetta viva (presenza della crosticina), allora occorre interrogarsi sul perché la vittima non oppose reazioni degne di nota (assenza segni difesa), posto che l’azione di un morso doloroso da un lato e la strisciata della lama sul corpo dall’altro, dovevano prendere un certo tempo, durante il quale è appunto inimmaginabile che Simonetta non avesse reagito.

Verrebbe quasi da pensare che il ceffone ebbe effetti così devastanti da inibire per sempre capacità reattive, senza però causare la morte( si pensi al caso del pugno di De Giovanni alla stazione). Ecco che in questo modo troverebbero spiegazione le due ferite con crosticina, di persona ancora in vita ma inerte.

Se questo è l’unico modo in cui possa giustificarsi la vitalità (crosticina) da un lato, e l’assenza di reazioni della vittima dall’altro, ne consegue che prima del ceffone non ci fu alcun morso.
Nessuno può ignorare cosa questo comporti.

Eliminando il morso come causa della reazione di Simonetta e della controreazione dell’assassino (ceffone) svanisce la pretesa di inquadrare il tutto nello scenario di un rapporto consenziente con il morso a fare da grossolano preliminare.

Svanisce anche la trama voluta dai consulenti, della saliva che imbratta gli indumenti in simultanea e in sovrapposizione alla ferita riscontrata sul capezzolo.

Inoltre, senza il morso prima, è difficile immaginarlo dopo, quando e ben evidente che l’assassino intese affidare all’arma bianca e non ad altri mezzi le sue insane attenzioni.

Queste considerazioni sono importanti non solo per le implicazioni probatorie (il morso che si collega alla saliva e quant’altro), ma anche per quanto ci svela della personalità dell’assassino e dell’esatta natura del suo gesto.
L’accusa, braccata dall’idea che poteva trattarsi solo del fidanzato, ha volutamente contestualizzato il fatto all’interno di un rapporto consenziente e quindi passionale, ascrivendo poi alla presunta natura aggressiva del Busco l’esito infausto che ne è seguito, con tanto di overkilling.
Ma a smentire in modo clamoroso la natura passionale del delitto vi solo le ferite prodotte, tutto fuorché ascrivibili all’overkilling.

Non vi è stata infatti la frenetica deriva di una aggressione, dove le ferite si sommano non per la necessità di uccidere ma perché la foga non può facilmente contenersi.

L’assassino ha disegnato sul corpo della vittima le sue perversioni senza alcuna foga. Non ha ecceduto nelle lesioni mortali al cuore. Ha diretto le sue attenzioni agli occhi, al seno, al ventre, ai genitali esternamente e poi internamente.
Ha consumato il suo delirio con gusto.
Si tornerà sulla natura del delitto più avanti, quando si accennerà al movente e alle osservazioni prodotte nelle motivazioni.

La lunga dissertazione sulla prova del morso, quasi integralmente frutto di richiami al contenuto delle perizie e delle deposizioni in aula, inizia a pag. 46 e si dispiega in una serie di rilievi che in sostanza dovrebbero provare la corrispondenza dei segni rinvenuti nell’area del capezzolo sinistro, all’impronta che i denti di Raniero Busco dovrebbero produrre nell’atto di morsicare il seno della fidanzata.

A dispetto di una produzione grafica e fotografica alquanto voluminosa quanto inconcludente, non viene mai indicata, né dai periti né dal giudice, una precisa corrispondenza fra le misure riferite alle incisioni sulla cute (peraltro per nulla chiare) e quelle dei denti laddove questi sono “a contatto”.
Si notino le seguenti conclusioni riferite ad alcuni dei rilievi eseguiti.

In un caso:
La zona della lesione CD corrisponde alla superficie vestibolare 42 (incisivo laterale inferiore destro) che si contrappone a quello disto palatina dell’11 (incisivo centrale superiore destro). La dimensione della lesione di 4.5 mm. corrisponde a circa 80% del dente e può essere compatibile con la porzione incisale del 42"
In un altro caso:
La zona della lesione FE corrisponde al 32 (incisivo laterale inferiore sinistro) e in modo particolare a quella piccola porzione distale del suddetto dente che incide con il margine incisale del 22 (incisivo laterale superiore sinistro). Il rapporto fra dimensione esigua della lesione: 2.5 mm. si relaziona con la piccola porzione di dente interessata da un contatto occlusale."
In un altro caso ancora:
"La zona della lesione GH corrisponde al 33 (canino inferiore sinistro) ed in particolar modo al suo versante distale che si contrappone al versante mesiale del 23 (canino superiore sinistro). La dimensione: 4,8 mm. è compatibile con le dimensioni della faccetta d’usura presente nel 33."

Dunque abbiamo nell’ordine un “e può essere compatibile” un “si relaziona” e un “è compatibile”, espressioni diverse, ciascuna caratterizzata dalla vaghezza e indeterminatezza, del tutto insufficienti a valutare ciò che si vorrebbe, e cioè la perfetta coincidenza delle due misure (incisione e porzione del dente incidente), senza la quale è irragionevole parlare di prova.

La cosa inaccettabile è che mentre si da conto della misura dell’incisione, quella opposta del dente non viene neppure indicata.

Non solo mancano queste misure, ma pure è assente la misurazione delle distanze fra i vari segni lasciati sulla cute della vittima, anche questi bisognosi di un raffronto millimetrico con le rispettive distanze rinvenibili nelle occlusioni dentali.

Ma il giudice non si pone problemi e neppure commenta, e a pag. 55 consegna la parola al consulente della difesa dr. Nuzzolese.

Le argomentazioni difensive, al pari di quelle dell’accusa, sfociano presto in tecnicismi poco comprensibili, per cui è arduo comprenderne tutti i passaggi, sebbene appaia chiara la critica sul versante metodologico, ancorché più specificatamente metrico.

Lo spazio consegnato alle citazioni è sicuramente abbondante, sia che riguardi i rilevi tecnici dell’accusa, sia quelli di senso opposto della difesa, semmai scoraggia l’esiguità degli interventi del giudicante, tanto che nelle 18 pagine che le motivazioni dedicano all’esame tecnico delle opposte perizie, all’incirca una pagina è trattenuta dall’estensore per le proprie osservazioni.


Il tono di questi interventi, già alquanto sparuti, sono comunque univoci nell’affermare apoditticamente la fondatezza della perizia dell’accusa e l’irrilevanza delle obiezioni difensive, il tutto senza approfondimento alcuno.


Basti ad evidenziare tale modesto approccio alla tematica, il modo con cui l’estensore chiude l’argomento “morso”.

Lo fa consegnando l’ultima parola all’accusa e riproducendone integralmente le conclusioni (pag. 63), anziché occuparsene direttamente.

Per il Giudice basta così.

E’ il momento dell’alibi di Busco e per discuterne occorre fissare l’ora della morte.


Bruno Arnolfo

lunedì 16 maggio 2011

Il movente

Leggiamo nelle motivazioni della sentenza:
"Altro elemento valorizzato dalla difesa per sostenere l'innocenza di Busco è rappresentato dalla asserita mancanza di un movente... Ebbene, ancorchè si assuma da parte della difesa che non sia stato individuato alcun movente, lo spaccato dell'infelice rapporto che emerge dalle lettere della ragazza (non smentito ma minimizzato dai testi), è compatibile con la presenza di Busco in via Poma quel pomeriggio. L'imputato ha sempre negato di conoscere dove si trovasse il luogo di lavoro di Simonetta, ma si tratta di un assunto francamente poco credibile; è invece da ritenersi verosimile che la lunga telefonata dell'ora di pranzo di cui ha riferito la madre di Simonetta (e che tutte le sue amiche e i suoi colleghi di allora hanno attendibilmente negato di aver fatto o ricevuto quel giorno a quell'ora), abbia avuto come interlocutore proprio il Busco e che detta telefonata possa aver indotto la ragazza ad avere un incontro con il fidanzato in via Poma, anche tenuto conto che egli sarebbe partito senza di lei per la Sardegna il giorno successivo."

Dalla precedente analisi si evidenziano una serie di circostanze date per scontate (o comunque ritenute molto probabili):
  1. Busco sapeva dove lavorava Simonetta (via Poma)
  2. Busco telefonò a Simonetta all'ora di pranzo del 7 agosto
  3. Busco sarebbe partito il giorno dopo per la Sardegna
  4. Entrambi ritenevano urgente e irrimandabile quell'incontro (unico) fuori dai loro luoghi abituali d'incontro
I punti 1,2,4 sono pure supposizioni. Il punto 3 è molto controverso: Raniero Busco, Simone Palombi, Nazzareno Fiorucci, Mario Moro, Fernando Coppola dovevano partire per la Sardegna, soli ragazzi senza una presenza femminile. Qualcuno si ricorda che sarebbero dovuti partire l'8 di agosto, ma non è stato chiarito se sarebbero partiti tutti insieme o in due date diverse. Busco dichiara nel 1990 che avrebbe dovuto incontrare Simonetta il venerdì 10. Quindi sembrerebbe che sarebbe partito in altra data. Inoltre le sue ferie in quell'anno partono al 17 di agosto. La circostanza non è stata chiarita al processo e non c'è quindi una prova che giustificherebbe l'urgenza dell'incontro di 'congedo' estivo tra i due ragazzi nel pomeriggio del 7 agosto.

Leggiamo ancora dalle motivazioni:
Simonetta "sapeva che sarebbe rimasta sola in ufficio avendo insistito con il Volponi perchè non passasse in via Poma. E' certo che la ragazza ebbe ad aprire ad una persona che conosceva e con la quale si stava accingendo ad avere un rapporto sessuale pienamente consenziente tanto che si era regolarmente spogliata. Questa persona non poteva essere che il Busco, dal momento che non si è rinvenuta traccia di altre possibili contemporanee 'storie' con altri uomini"

Altre circostanze assunte come certe:
  1. Simonetta era sola in ufficio a via Poma
  2. Simonetta era certa di essere sola per tutto il pomeriggio in via Poma tanto da organizzare un incontro intimo con il fidanzato
  3. Simonetta era una ragazza tanto spregiudicata da organizzare un incontro intimo con il suo fidanzato in un ambiente lavorativo
  4. Simonetta si è spogliata di sua volontà
  5. Simonetta apre la porta al suo assassino
  6. Simonetta non aveva altre 'storie' con uonimi diversi dal suo fidanzato
  7. Simonetta insiste con Volponi affinchè non la raggiunga a via Poma

I punti da 1 a 5 sono pure supposizioni. Siccome nessun dipendente AIG ha testimoniato di essere andato a via Poma dopo le 15.00 si assume che non ci fosse altri che Simonetta. E si assume pure che nessuno, per qualsivoglia motivo, potesse passare da quell'ufficio nel pomeriggio del 7 agosto.
Questa circostanza è quantomeno strana: quello era per la ragazza l'ultimo giorno di lavoro. Si sarebbe dovuto controllare la conclusione dell'operato. Poi ci si può immaginare anche un saluto, un ringraziamento, una stretta di mano. E la restituzione delle chiavi dell'ufficio. E' possibile che nessuno abbia sentito questa esigenza?
Ricordiamo a tal proposito e come termine di paragone, l'incontro molto formale che Simonetta aveva avuto come presentazione al personale degli Ostelli.

Per quanto riguarda i punti 3 e 4 sono in totale controtendenza con tutte le testimonianze e i riscontri fatti con la famiglia, le amiche ed i colleghi.

Il punto 6 è ritenuto vero in quanto non vi sono riscontri certi del contrario (testimonianze delle amiche).
Per il punto 7 l'unica fonte a riguardo è Salvatore Volponi, persona sempre invisa dalla famiglia Cesaroni, che tra l'altro ha anche portato in giudizio per una causa civile riguardante le condizioni di lavoro e di sicurezza riferibili a Simonetta.

A tal proposito si evidenzia un totale sbilancio di credibilità a svantaggio dei testimoni della difesa: viceversa tutti i teste relativi all'ambiente ufficio sono ritenuti attendibili e anzi costituiscono supporto, anche in mancanza di riscontri certi, alle tesi accusatorie.

Leggiamo ancora:
"Poi qualcosa non ha funzionato: forse di fronte ad un tardivo ed inaspettato rifiuto di lei, l'aggressore, già in preda all'eccitamento sessuale, ha avuto una reazione violenta dapprima stordendola con un vigoroso ceffone e poi affondando più volte il tagliacarte nel suo corpo ormai disteso a terra e senza che la ragazza potesse opporre alcuna resistenza, tra l'altro infierendo con l'arma anche nella vagina della giovane."

Due considerazioni: "qualcosa non ha funzionato" è decisamente generico, va bene per chiunque ed in qualsiasi situazione. Per quanto riguarda i colpi inferti nelle parti intime, sono stati da sempre motivo di riflessione e hanno sempre fatto pensare ad altro e diverso movente, attuato da persona quantomeno disturbata mentalmente e lontana nel modo di agire da quell'unica persona che aveva la piena disponibilità sessuale della ragazza.

In conclusione si ritiene che il movente, che dovrebbe essere un caposaldo per un'accusa di omicidio, almeno nel modo in cui è stato prospettato, rimanga alquanto incerto e aleatorio, motivato da circostanze tutt'altro che certe.

Gabriella Schiavon

martedì 10 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - prima parte

ANALISI CRITICA DELLE MOTIVAZIONI
DELLA SENTENZA A CARICO DI RANIERO BUSCO

Sono bastate tre righe, subito alla seconda pagina delle motivazioni di condanna di Raniero Busco, per cogliere il tenore complessivo del giudizio di 1° grado espresso dalla Corte di Assise di Roma:

"Simonetta aveva insistito con Volponi che non era necessario che anch’egli si recasse quel pomeriggio in via Poma, ma che sarebbe stato sufficiente che ella gli telefonasse verso le 18-18:30….per riferirgli a che punto era con l’inserimento della contabilità"

Dunque, secondo la Corte, fu Simonetta da sola a decidere il suo destino il mattino del 7 agosto, quando, risoluta, dissuase il suo datore di lavoro dal recarsi anch’esso in via Poma, ove evidentemente la giovane si era programmata un incontro intimo da consumare con il fidanzato.

Parole nette, definitive, che paiono un fatto acclarato che non ammette repliche.

Sembrano parole udite dalla viva voce di Simonetta
Ma non è così.
Sono tratte da un libro scritto dal testimone più controverso di questo processo: Salvatore Volponi.

L’uomo che per sua stessa ammissione nutriva con quelle rivelazioni solo ed esclusivamente scopi commerciali, in ciò sospinto dal suo editore, desideroso di infarcire il racconto di scenari cupi e misteriosi adatti al grande pubblico.

Una rivelazione che al processo si è tradotta in una testimonianza che le parti (anche la difesa) hanno accettato senza obiettare alcunché.
Il Giudice si è affrettato ad usarle, insinuando con questa citazione che Simonetta volesse assicurarsi campo libero per ricevere l’amato Raniero sul luogo di lavoro.

Eppure gli atti offrivano molti spunti per diffidare delle dichiarazioni di Volponi e non solo perché maturate nell’ambiguità del racconto consegnato alle stampe nel 2004, e neppure per le note discrepanze testimoniali che ne minano la credibilità (dichiarazioni processuali di De Luca, Vanacore e Menicocci sulla frequentazione di Via Poma negata da Volponi).

Le evidenze più forti erano nelle carte dell’inchiesta del 1990, ove Volponi forni numerose deposizioni, addirittura confortate da estesi memorandum da lui stesso redatti.

In nessuno di questi atti che coprono i primi mesi di indagine sul delitto, Volponi riferisce o anche soltanto allude, ad una situazione nella quale Simonetta insiste per rimanere da sola al lavoro.
Ciononostante il racconto dei fatti comincia facendo dire a Simonetta ciò che in realtà ha detto Volponi, non davanti ad un poliziotto od un giudice, ma innanzi al suo editore.

L’estensore prosegue la narrazione dei fatti occorsi il 7 agosto 1990.
Lo fa in modo molto sommario, e quando riferisce delle ricerche della sorella cade in una sorprendente imprecisione.
Afferma infatti (pag. 2) che Volponi ignora il numero di telefono dell’ufficio di via Poma cosiccome l’indirizzo, senonchè in aula (12.11.2010) e nelle stesse dichiarazioni del 1990 (14.8.1990) il datore di lavoro di Simonetta ha affermato di avere quel numero e anche di aver telefonato invano, come pure ricorda Paola Cesaroni (8-8-1990: 'Volponi a questo punto attacca il telefono e, mentre io leggo i numeri di telefono di via Poma, il primo corrispondeva ad un numero scritto sul blocco delle tele­fonate'). Da questo fatto scaturì la nota osservazione (all’epoca dei fatti e anche in aula) circa il fatto che telefonando alla SIP si sarebbe ottenuto facilmente l’indirizzo.
Non è un errore che incida in modo significativo nella vicenda e tantomeno nel Giudizio, tuttavia sorprende la vistosa lacuna della Corte.
Ce ne saranno altre.

Dopo la descrizione dei fatti principali occorsi il 7 agosto, il giudice di 1° grado fornisce un ampio resoconto dei procedimenti giudiziari occorsi nel 1990 a carico di Pietrino Vanacore e a partire dal 1991 a carico di Federico Valle e nuovamente di Vanacore, questa volta per favoreggiamento.
L’esposizione si avvale di un ampio stralcio delle imputazioni nei confronti di Vanacore, formulate nei due procedimenti dal giudice Catalani, nonché della conclusiva sentenza del GUP con la decisione di non luogo a procedere.

A pag. 9 il giudice di 1° grado inaugura la trattazione della nuova inchiesta saltando a piè pari ogni aspetto inerente le vicende che hanno caratterizzato il caso con abbondanza di dettagli tecnici e riscontri testimoniali, mostrando fin da subito di voler centralizzare ogni discorso sulle risultanze scientifiche, a dispetto persino di evidenze ricavabili dall’ultima inchiesta.


Scompaiono di scena i testimoni e i fatti dai quali poteva dedursi un contesto che conduceva ad ipotesi prossime all’ambiente lavorativo, o comunque di un assassino che aveva una marcata confidenza con i luoghi. In una parola, l’ipotesi del cosiddetto territoriale.

Si evita di parlare di tesi alternative per evitare di contraddirle.

Con abbondanza di riferimenti alle perizie e alle trascrizioni dei verbali d’udienza, il giudicante illustra l’indagine scientifica condotta sugli indumenti della vittima, mostrando in dettaglio le campionature eseguite su corpetto e reggiseno alla ricerca di tracce biologiche di un soggetto diverso da Sinonetta Cesaroni.
L’illustrazione prosegue fino a pag. 39 con fugaci interventi dell’estensore a confutazione delle obiezioni difensive che sommariamente possono così enumerarsi:
  1. obiezioni di carattere procedurale circa la maldestra conservazione dei reperti e la possibilità di una contaminazione fra di essi o con agenti esterni
  2. obiezioni riguardo all’impossibilità di determinare la natura biologica delle tracce (saliva, sudore, muco ecc…
  3. impossibilità di provare la con testualità delle tracce biologiche al delitto non potendosi dimostrare che gli indumenti erano stati lavati prima di essere indossati, circostanza che peraltro impone un lavaggio in lavatrice e non a mano come era usale per la madre per quel tipo di indumenti(le tracce di saliva resistono al lavaggio a mano)
  4. indimostrabilità, relativamente al corpetto, della contaminazione salivare contestuale al morso, per la circostanza che l’indumento non era verosimilmente indossato.
Qui occorre prestare la massima attenzione, altrimenti si rischia di essere traviati dall’astuta condotta del giudicante nel contrastare le tesi difensive.
Occorre infatti precisare che le prime due obiezioni difensive sopra annotate, non possono inficiare la validità della prova scientifica nel suo complesso, se non su un piano meramente formale e metodologico.
Forse non era neanche il caso di esporre siffatte obiezioni.
Sta di fatto che la Corte si avventerà con dovizia e abbondanza di argomentazioni proprio sulle prime due obiezioni della difesa.
Prima di esaminare in dettaglio i 4 punti occorre dar conto di un’altra argomentazione di carattere generale, usata dal Giudice a corredo dell’affermata contestualità delle tracce biologiche all’aggressione.

Si tratta della “topografia” delle tracce appartenenti a Raniero Busco visionate mediante apposizione su manichino dei due indumenti, laddove si evidenzia una marcata prevalenza dei campioni biologici in corrispondenza dei seni, con prevalenza su quello sinistro, e progressiva scomparsa di tracce man mano che ci si allontana dai medesimi.

Riferisce la Corte:

“Si rileva tuttavia che un elemento fortemente indiziante del rilascio di tracce biologiche proprio in occasione dell’omicidio è rappresentato dal fatto che tali tracce sono particolarmente evidenti nell’area del reggiseno e del corpetto corrispondente ai seni della ragazza e più marcatamente al seno sinistro…”.

Una affermazione grottesca!
Non si capisce infatti quale rilevanza possa avere la citata prevalenza di tracce di saliva in corrispondenza dei seni, posto che nessuno contesta che l’imputato ebbe in precedenza contatti intimi con la fidanzata, durante i quali Raniero Busco, al pari di qualsiasi uomo del pianeta, ebbe a preferire le effusioni sui seni piuttosto che in uno sparuto angolo del tronco femminile.

E se anche si dovesse accertare che vi era più saliva sul seno sinistro rispetto a quello destro , vorrà dire che Raniero Busco, al pari di metà della popolazione mondiale maschile, predilige inclinarsi sulla destra, piuttosto che sulla sinistra.



Torniamo ora ai punti contestati dalla difesa.

Nella prima di queste obiezioni viene rilevata la scorretta modalità di custodia dei reperti.
Cogliendo la sostanziale irrilevanza sul piano probatorio di siffatte obiezioni, il Giudice di 1^ grado si prodiga in estese controdeduzioni confortate della consueta giurisprudenza concorde nel definire la mancanza di sigilli un elemento di per se non idoneo a invalidare l’uso di reperti a fini processuali.
Si parla molto di una cosa che conta poco

Nella seconda obiezione la difesa apre una disputa sulla natura delle tracce biologiche – sudore anziché saliva – con il proposito di rendere meno agevoli le congetture della tesi accusatoria circa la dinamica del morso a danno del seno della vittima, idoneo a produrre saliva e non sudore.
La tesi difensiva è assai debole e pure inconcludente dal momento che non è in grado di offrire argomenti persuasivi in direzione dell’ipotesi sudore (al contrario dell’accusa che può produrre, se non la certezza, numerosi elementi che indicano che si trattava di saliva).
Inoltre, come si vedrà, forzare l’ipotesi sudore contraddice una obiezione ben più forte, la terza!
Il Giudice sfrutta la debolezza della tesi difensiva per “inondare” nuovamente le motivazioni di argomenti stringenti e precisi a confutazione dell’asserita presenza di sudore al posto della saliva.

Ed eccoci alla terza obiezione, pesantissima. Chiara e lampante se non fosse per l’incauta diatriba di cui si è detto prima, e cioè l’aver sostenuto l’ipotesi del sudore.
Le sperimentazioni dei RIS provano che il lavaggio a mano elimina le tracce di sudore ma non quelle di saliva, e, come è noto, la mamma di Simonetta ha dichiarato in aula che era solita, specie d’estate e per quel tipo di indumenti, fare il bucato a mano.
In pratica le tracce del fidanzato, se di saliva, potevano persino resistere a numerosi lavaggi!

Cade, o meglio frana miseramente, la prova del DNA, in quanto la formazione di tracce biologiche di Busco in data 7 agosto 1990, rimane soltanto una congettura del tutto indimostrabile.

A meno di un gioco di prestigio che il Giudice produce in sole quattro righe (mancano gli argomenti per parlarne a lungo).

Si legge nelle motivazioni:

“Tuttavia, osserva la corte che se anche, per assurdo, si dovesse escludere l’unica ipotesi compatibile con il quadro indiziario emergente dagli atti, ovvero che si tratti di residui di saliva, va comunque ribadito che è certa, (e peraltro, come si ripete, non contestata) l’attribuibilità delle tracce biologiche al BUSCO”

Ora al giudice conviene compiacere la “teoria del sudore” e la utilizza per dimostrare come in ogni caso ci si troverebbe di fronte all’ineluttabilità della presenza del DNA di Busco.

A parte il fatto che un tale postulato priverebbe la Corte della prova del morso (“no saliva, no morso”, direbbe il caro George) non è certo consentito servirsi, secondo convenienza, di teorie diverse per confutare le deduzioni difensive.
Se la Corte afferma che si trattava di saliva, saliva rimane sempre, e si accetta serenamente che corpetto e reggiseno potevano avere, anzi quasi sicuramente avevano, tracce organiche di Raniero Busco antecedenti il fatto delittuoso.

La quarta obiezione, anch’essa molto importante, viene “scantonata” dal Giudice nello stesso modo di prima: con poche righe e con un altro gioco di prestigio.
Si tratta del fatto che il corpetto che fu trovato sbottonato e posato sul ventre della vittima, immune da macchie di sangue e da fori prodotti dall’arma da taglio, suggeriva nettamente l’eventualità che la vittima se lo fosse tolto prima dell’aggressione (per aderire spontaneamente ad una intesa amorosa, per compiacere il corteggiatore di cui aveva paura, per altri motivi).

Qui occorre ricordare per l’ennesima volta che il rinvenimento del DNA di Busco sugli indumenti diviene prova solamente se è possibile affermare la contemporaneità del formarsi delle tracce all’aggressione, o quantomeno che non è possibile provare il contrario.

Ciò che mostra la difesa è appunto la prova del contrario.


Infatti, se il corpetto non fosse indossato al momento dell’aggressione nulla potrebbe dimostrare che l’imbrattamento di saliva è avvenuto in quel luogo e in quel tempo, o piuttosto in altro luogo e in altro tempo.

Ora si presti attenzione alla replica del Giudice:
“E’ fin troppo ovvio replicare che, essendo il fatto avvenuto nel contesto preliminare di un rapporto sessuale, (come più avanti si preciserà), Simonetta ben poteva essersi tolta il corpetto dopo che BUSCO le aveva toccato con la bocca i seni, seppure coperti dal corpetto e dal sottostante reggiseno allorché entrambi erano da lei indossati. Peraltro, l’obiezione non giustificherebbe comunque la presenza del DNA sul reggiseno, certamente indossato al momento del morso”

Questa osservazione è fuorviante e non pertinente.
Nessuno nega, infatti, che possa essere accaduto ciò che descrive il Giudice, e cioè che la contaminazione sul corpetto sia avvenuta nel corso di preliminari che hanno preceduto la svestizione e poi il morso.
Il punto cruciale e che se così fosse è assolutamente indimostrabile la contestualità, non essendoci modi di sostenere che detti preliminari amorosi siano avvenuti pochi minuti prima l’aggressione o svariati giorni prima.

Pure inutile è osservare che sul reggiseno è comunque presente il DNA di Busco e che questo era sicuramente indossato al momento del presunto morso.
Infatti, benché ciò sia vero, a nulla serve rimarcarlo, in quanto è sufficiente che su un solo indumento sia agevolmente ipotizzabile la contaminazione pregressa, per dedurre come possibile anche quella sull’altro indumento.
Si aggiunga che nella relazione dei RIS, diversamente dal Giudice, i periti hanno sostenuto che il corpetto fosse indossato proprio per rendere utilizzabile la prova del DNA. Tesi semplicemente affermata e non dimostrata, come purtroppo si usa fare.

Resta, a margine di questa prima parte di analisi delle motivazioni esposte dal Giudice di 1^ grado, l’impressione di una sostanziale leggerezza nel trattare il caso.
In queste prime 40 pagine, l’estensore si affida quasi sempre alle risultanze peritali senza produrre particolari riflessioni e, soprattutto, affrancandosi totalmente da ogni contesto fattuale ricavabile dalle centinaia di elementi che le inchieste di oggi e di ieri hanno prodotto.

Procedendo nella lettura ciò apparirà ancora più grave ed intollerabile.

Bruno Arnolfo

martedì 3 maggio 2011

L'alibi di Raniero Busco.

Leggiamo dalle motivazioni della sentenza:

"In merito all'alibi va preliminarmente precisato che emerge in modo univoco dagli atti che nel 1990 non vennero fatti accertamenti sull'alibi del Busco relativo al pomeriggio di quel 7 agosto... Per la prima volta Busco era stato sentito sul suo alibi nel 2004 e aveva asserito che quel pomeriggio lo aveva trascorso in compagnia di Simone Palombi... senonchè Palombi aveva reso dichiarazioni difformi già nel 1990, sostenendo di essere stato a Frosinone tutto il giorno... Sentito nell'ambito delle indagini di cui al presente procedimento, Palombi aveva confermato la circonstanza e la aveva confermata anche nel confronto con l'imputato il quale invece aveva ammesso che forse poteva essersi sbagliato sulla presenza del Palombi, in considerazione del lungo tempo trascorso dai fatti."

La difesa sostiene che è incredibile che in 10 ore circa di interrogatorio (in 2 riprese tra la notte ed il pomeriggio dell'8 agosto) non venne chiesto l'alibi a Busco. E' più probabile che venne chiesto e verificato, ma non verbalizzato. Inoltre l'alibi fornito dall'imputato è stato ricordato (bisogna dire con una certa ingenuità) in maniera incerta, a 14 anni dal fatto. Infatti nel verbale 6.12.04 quando gli si chiede l’alibi Busco dice : “se non ricordo male verso le 16.00 sono stato con Simone Palombi e poi verosimilmente ci siamo incontrati con gli altri amici della comitiva”.

Ma non è tutto qui perchè di persone che dicono di aver visto Busco nel pomeriggio del 7 agosto ce ne sono ben sei:

- Fabrizio Priori: incontra Busco al Bar 'Portici' alle 17.30/18.00
- Luigi Poli: vede Busco insieme a Priori davanti al Bar 'Portici' tra le 17 e le 19
- Maria Di Giacomo: vede Busco (sporco di grasso) sotto casa alle 18.20
- Annarita Pelucchini: vede Busco sotto casa alle 17/17.30
- Giulia Pierantonietti: vede Busco nel garage sotto casa alle 17/17.15
- Paolo Busco, fratello dell'imputato: vede Busco lavorare nel garage sotto casa intorno alle 17/17.10

Vediamo come vengono considerate queste testimonianze nelle motivazioni:

"Poli, sentito per la prima volta nel 2007, aveva dichiarato di non essere certo che fosse proprio il 7 agosto", mentre al processo dichiarava "Sì, sì, penso di sì, perchè alla fine ho sempre pensato questa cosa"... Priori, a sua volta ha riferito che era 'quasi sicuro' di aver incontrato quel pomeriggio il Busco... In sintesi, con riferimento alle testimonianze dei tre amici, (Palombi, Priori, Poli), si può concludere che le uniche indicazioni che sono risultate attendibili provengono dal Palombi, che ha riferito di essersi recato al bar al suo rientro a Roma, intorno alle 19.45, incontrandovi oltre al Busco anche Poli e Priori, laddove questi ultimi 'desumono' di aver visto il Busco quel pomeriggio di tanti anni prima in ragione delle loro abitudini quotidiane."

Mentre Priori si dichiara 'non proprio sicuro' che fosse proprio quel giorno, Poli è più risoluto nei ricordi e conferma (come ha fatto dalla prima deposizione che non è del 2007, ma del 19.5. 2005) che si trattava proprio del 7 agosto.

Sulle testimoni donne (Di Giacomo, Pelucchini) le motivazioni della sentenza sono ancora più severe:

"Balza subito agli occhi, invece, l'eccesso di precisione sugli orari, (giustificato con racconti francamente poco credibili), che caratterizza le dichiarazioni delle amiche della madre dell'imputato..."

In particola viene contestato alla Pelucchini che, nonostante abbia dichiarato in due occasioni di aver visto Busco alle 17/17.30, in una intercettazione telefonica viene sorpresa a dichiarare di averlo visto alle 16/16.30.
Ma, orari a parte, lei dice di averlo visto anche sotto intercettazione, e questa non è cosa da poco. Possiamo pure discutere sull'orario, ma non sul fatto che l'abbia incontrato; questo proprio perchè detto sotto intercettazione e quindi più credibile.

Sull'altra testimone, la Pierantonietti leggiamo:

"Il racconto della Pierantonietti, è da un lato, per la sua apodittica sinteticità e schematicità, in nessun modo circostanziato nè contestualizzato, intrinsecamente inattendibile, dall'altro, smentito dalla testimonianza del figlio, Biancini Alessandro, il quale ha dichiarato di non ricordare nulla dei fatti del 7 agosto... è singolare che un giovane, dotato di migliore memoria dell'anziana madre nulla ricordi di quanto affermato con certezza da costei"

Bisogna rilevare che, se da un lato la Di Giacomo e la Pelucchini vengono ritenute poco credibili perchè forniscono troppi particolari a sostegno del ricordo, dall'altro la Pierantonietti viene considerata poco credibile perchè non ne fornisce abbastanza.

Poi si asserisce che tale testimonianza sarebbe 'smentita' dallo stesso figlio. Ma il figlio NON smentisce la madre, dice solo di non ricordare l'accaduto, che è tutt'altra cosa.
Inoltre va ricordato che Biancini all'epoca aveva solo 17 anni.

Poi al fratello di Busco, Paolo, viene contestato di aver dichiarato precedentemente di aver saputo dalla madre che Raniero stava lavorando sotto casa, ma sotto giuramento, al processo dice di essersi ricordato meglio parlando della vicenda a casa, di aver scavato un pò nella memoria e di avere chiara l'immagine di Raniero che lavora in macchina sui sedili smontati.

Infine c'è sa segnalare un'intervista fatta all'imputato e alla madre dal giornalista Giampiero Marzi nei primi giorni di settembre del 1990 in cui Busco sostiene NON di essere stato con Palombi, ma di essere stato nel box sotto casa a lavorare in riparazioni.

E' ancora da sottolineare il fatto che gli alibi testimoniati non sono tra loro incompatibili: infatti anche davanti al bar 'Portici' (che si trova vicinissimo casa dell'imputato) Busco viene visto 'armeggiare' con uno stereo in una macchina. Quindi è possibile che buona parte del pomeriggio l' abbia passata nell'attività di riparazioni sia nello spazio sotto casa adibito a garage, sia spostandosi di poco per aiutare un'amico.

Le motivazioni della sentenza concludono sull'alibi:

"Concludendo, a giudizio della Corte, Busco deve ritenersi privo di alibi tra le 16.00 e le 19.45 di quel pomeriggio".

Bisogna però considerare che normalmente non è così facile trovare tante persone disposte a mentire per difendere un presunto assassino.
Come sempre ogni situazione può essere vista da molti punti di vista e giudicata di conseguenza.
Qui rimane però il fatto che sei persone diverse per sesso, per età, per tipologia di vincolo con l'imputato, sono giudicate TUTTE inattendibili.

Gabriella Schiavon

lunedì 2 maggio 2011

Corriere della Sera: "Via Poma, la condanna di Busco e i dubbi su una sentenza ambigua"

Le sentenze della magistratura si rispettano, su questo non si discute, per carità. Però, neppure si discute sul fatto che poi possano essere commentate. Da chiunque.
E francamente le ambiguità, le ombre e i dubbi che accompagnano le motivazioni della sentenza con la quale la Corte d' Assise ha condannato Raniero Busco a ventiquattro anni di carcere per l' omicidio di via Poma avvenuto venti anni fa, sembrano enormi.

Tant' è che, pur considerando l' immenso dolore e la esasperazione della famiglia Cesaroni, forse sono apparse un po' precipitose le dichiarazioni della sorella Paola, di soddisfazione e di sollievo.

Qui si rischia che un probabilissimo innocente vada in galera e il colpevole la faccia franca.
Ma andiamoli a vedere questi dubbi, uno per uno.

Innanzitutto, l' ora della morte. Non essendo stata presa la temperatura del cadavere della povera Simonetta, non è certa. Senonché, c' è un elemento che fa da «spartiacque», e deve essere considerato con attenzione, per quanto riguarda l' ora: è la telefonata che avviene alle 17 e 35 fra l' ufficio di via Poma e l' ufficio in cui c' è una collega di Simonetta, la signora Berrettini. All' altro capo del filo c' è una voce femminile. Se è quella di Simonetta, il delitto è avvenuto dopo. Quanto? Vogliamo considerare - a meno di una concomitanza immediata - almeno un quarto d' ora? Minimo? Dunque, se il delitto avviene un po' prima delle sei è il colpevole è Busco, qualcuno ci vuole spiegare come ha fatto il ragazzo, in poco più di un ora - consumato un omicidio atroce - a pulire meticolosamente l' ufficio e a tornare dal quartiere Prati a Morena dove fu visto al bar poco dopo le sette? Se, invece, l' ora del delitto è prima, a chi appartiene la voce femminile che la Berrettini ascoltò? E, visto che siamo in tema di telefonate: a chi appartiene la voce maschile che per due volte, la sera del delitto, alle otto e alle undici, telefonò da via Poma in campagna, dove si trovava il titolare dell' ufficio in cui lavorava Simonetta, il signor Caracciolo di Sarno?

Inoltre: qualcuno può spiegarci - se a compiere il delitto è stato Busco - che in quel palazzo di via Poma non era mai stato, quale è la «logica» che presiede ai fatti? In altre parole: c' è un atto barbaro di violenza inaudita (dovuto a un raptus, alla negazione di un rapporto intimo, a un litigio); la ragazza è morta; e l' omicida che fa? Invece di scappare, di darsela a gambe, nel timore che qualcuno possa entrare nell' ufficio, rimane lì a pulirlo meticolosamente. Perché? E perché mai, sempre col rischio di essere colto sul fatto, o di destare sospetti, avrebbe dovuto portar via con sé alcuni degli indumenti di Simonetta? A che scopo?

Infine, se come pare, sulla maniglia della porta dell' ufficio è stato trovato sangue della povera Simonetta e sangue compatibile con quello del Busco, da dove veniva il sangue di Raniero Busco, visto che nessuno degli inquirenti di allora accertò sulla sua pelle una ferita (la stessa ferita che, al contrario, fu cercata sulle braccia di un sospettato poi prosciolto, e cioè il giovane Valle)?

E ancora. Nessuno sapeva dove lavorava Simonetta. Stranissimo. Non lo sapeva la sorella Paola che l' accompagnò con il fidanzato alla metropolitana verso le tre (che però con Simonetta aveva gran confidenza: le diceva tutto). E non lo sapeva neppure il datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi. E questo, francamente è clamoroso. Tanto più che a fronte delle dichiarazioni del Volponi che in questi anni ha fatto di tutto per non essere interrogato, ci sono quelle della moglie del portiere Pietrino Vanacore che ha invece dichiarato di averlo visto in via Poma.
È vero? Chi mente?

Così, passiamo a un personaggio fondamentale di questo processo, Vanacore, che un anno fa, alla vigilia dell' interrogatorio, si è tolto la vita esasperato, a suo dire (i cartelli e biglietti lasciati prima di uccidersi) per i sospetti. Ma quali sospetti? Dopo essersi fatto ventisei giorni di carcere per reticenza, il Vanacore è stato scagionato completamente nei vari gradi dei processi che si sono seguiti. Si era ritirato in Puglia, e lì stava. Ora, francamente, al di là del possibile stress del Vanacore (che la giustizia considerava innocente), come è possibile non rimanere turbati da un suicidio che avviene alla vigilia di un interrogatorio? Cosa sapeva Vanacore? Sapeva qualcosa che non ha detto e che gli pesava sulla coscienza? E per quale motivo la sua agendina fu trovata fra gli oggetti della povera Simonetta? E per quale motivo sua moglie fu così restia a consegnare le chiavi dell' ufficio? E, sempre a proposito di chiavi, come mai le chiavi di Simonetta (le chiavi dell' ufficio) sparirono dalla sua borsa? Se il colpevole è Busco, quale «logica» presiede alla sparizione delle chiavi?

Veniamo quindi di nuovo a Busco. L' accusa sostiene la irrefutabilità delle prove scientifiche: il Dna compatibile e il morso. La difesa sostiene che non sono affatto sufficienti. È uno scontro di periti, che i venti anni di distanza rendono ancora più incerto di quello che è. Mentre non può esserci alcuna incertezza - e questo è davvero stupefacente, per quanto riguarda la sentenza - sulla totale assenza del movente di questo omicidio. Ma insomma. Come le stesse amiche di Simonetta e le sue lettere hanno rivelato, fra Raniero e Simonetta c' era una relazione affettuosa e intima che però non andava al meglio: lei voleva più affetto, qualcosa in più. Ora, alla vigilia della partenza per le vacanze - che i due ragazzi avrebbero fatto ciascuno per conto proprio - dopo un paio di giorni da un rapporto affettuoso e intimo fra i due avvenuto in un luogo tranquillo, dobbiamo immaginare che un ragazzo che si sente anche un po' freddo, non disponibilissimo nei confronti della sua ragazza, va a cercarla fino all' ufficio in cui lei lavora e si macchia di un delitto che, per la sua dinamica (ventinove coltellate inferte in tutto il corpo e specificamente nelle zone erogene con sadismo) è il tipico delitto che rivela la disperazione degli impotenti o dei respinti?
Era così grave la crisi fra Simonetta e Raniero che, un paio di giorni prima avevano fatto tranquillamente l' amore? Proprio no. Tant' è vero che gli inquirenti di allora, immediatamente lasciarono andare il Busco e per tutti questi anni la famiglia Cesaroni non si è sognata di sospettarlo.

In conclusione: non ci siamo proprio.

Chi ha ucciso Simonetta, una splendida ragazza innocente vent' anni fa, conosceva bene il palazzo di via Poma. Non veniva dalla lontana periferia: cioè da un altro mondo. E certamente scagionano Busco tutti i gravi punti interrogativi irrisolti.


Giorgio Montefoschi

link all'articolo