mercoledì 27 aprile 2011

Via Poma: riflessioni sulla sentenza

Le motivazioni della sentenza di primo grado che ha condannato Raniero Busco a 24 anni sono state depositate al limite dei tempi stabiliti. 139 pagine di cui, al momento, ne conosciamo pochi passaggi ma che danno un’idea della decisione presa dalla terza Corte d’Assise di Roma presieduta dal Giudice Evelina Canale. La condanna è stata decisa all’unanimità con l’altro giudice a latere Paolo Colella e con i sei giudici popolari.

Si legge: ‘(…) va considerato che quand’anche per assurdo si volesse ipotizzare che a mordere il seno di Simonetta, e dunque a ucciderla, fosse stata un’altra persona, questa avrebbe dovuto necessariamente rilasciare il proprio Dna sul reggiseno e sul corpetto della ragazza, ciò non è avvenuto, perché è stato ritrovato solo materiale biologico della vittima e in parte ridottissima di Busco’.

Dunque le tracce di Dna trovate sugli indumenti di Simonetta Cesaroni, uccisa negli uffici Aiag di via Poma il 7 agosto 1990, seppur senza prova certa, appartengono a Raniero Busco, fidanzato della vittima all’epoca dell’omicidio.

Un altro punto che però fa sorgere dubbi è il motivo di tale gesto. Sempre secondo la sentenza Simonetta ha aperto la porta al suo assassino (Busco, secondo i Giudici), hanno iniziato un rapporto sessuale consenziente – la giovane si è spogliata senza alcuna costrizione – poi però è accaduto qualcosa che ha scatenato la follia omicida. Prima il morso al seno, poi la reazione della ragazza, quindi un violento schiaffo e l’accanimento con almeno 29 coltellate, alcune anche nelle parti genitali. Un massacro. Ecco appunto, quale può essere stata la causa scatenante? Un rifiuto sessuale pare improbabile, dato che Simonetta si era spogliata e dato che dalle lettere che scriveva – lette in aula durante il processo – lei era innamorata di Busco, anche se lui voleva solo fare sesso (all’epoca i due avevano 20 anni).

Nella sentenza, almeno fin quando non la analizzeremo tutta, non sembra esserci il movente di questo omicidio. E la condotta violenta di Busco, a nostro parere, sembra un po’ forzata.

Interessante la parte relativa all’ex portiere di via Poma, morto suicida. Si legge: ‘la Corte pur esprimendo profondo rammarico per la triste vicenda umana di Vanacore non ritiene che la sua prematura scomparsa abbia posto fine a possibili sviluppi nelle indagini’.

Dunque due eventi: il primo è l’omicidio di Simonetta, il secondo un intervento (non meglio specificato) di Vanacore. Due eventi che non sarebbero collegati tra loro. E allora la vicenda non finisce qui…

Giovanni Lucifora

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Il Tempo: "Busco unico colpevole. Di altri non c'è traccia"

Delitto di via Poma. Depositate le motivazioni della sentenza dello scorso 26 gennaio. Simonetta si spogliò per il fidanzato e gli aprì la porta.

Il Dna sul corpetto e sul reggiseno della vittima. L'assenza di tracce biologiche di altre persone. La contestualità fra il morso al capezzolo sinistro e l'azione omicidiaria. L'appartenenza all'imputato dell'impronta del morso.
Elementi «tali da far ritenere raggiunta la piena prova di responsabilità» di Raniero Busco nell'omicidio di Simonetta Cesaroni. In 139 pagine piene di citazioni dibattimentali, la III Corte d'Assise presieduta da Evelina Canale spiega perché il 26 gennaio scorso ha condannato a 24 anni di reclusione l'ex fidanzato della ragazza uccisa in via Poma il 7 agosto 1990.
Una condanna, osservano i giudici nelle motivazioni depositate ieri, a 90 giorni dal verdetto, che provocherà «effetti disastrosi» nella «vita di Busco» che, nel frattempo, si è sposato ed è diventato padre.
Quello che le motivazioni non spiegano e che il processo non ha provato, oltre a non chiarire molti lati oscuri della tesi sostenuta dal pm Ilaria Calò, è il ruolo del portiere Pietrino Vanacore nella vicenda. Tanto da definire la ricostruzione dell'accusa «plausibile» ma non «pienamente provata», eppure con una «sua coerenza interna, nel senso che riesce a dare una collocazione ad alcuni "tasselli" che, nonostante l'ampiezza e la scrupolisità delle indagini, permarrebbero diversamente inspiegabili». Non solo. Per la Corte, il suicidio del portiere di Prati non ha «posto fine al possibile sviluppo» delle indagini.
Ciò che emerge chiaramente dal documento è la totale adesione del collegio giudicante alle ipotesi del pm, mentre al contrario gli elementi «prospettati dalla difesa non reggono a un serio vaglio critico».
La pietra angolare del castello accusatorio è rappresentata dal cosiddetto «detective in provetta». Il Dna trovato sulla biancheria intima della vittima (secondo il pm saliva, per la difesa una sostanza biologica non precisabile), la contestualità del suo rilascio con il delitto e il fatto che se Simonetta fosse stata uccisa da qualcun altro si sarebbero dovute trovare altre tracce genetiche sugli indumenti, costituiscono un «elemento fortemente indiziante». Poi c'è la «contemporaneità» tra il (presunto Ndr) morso «e l'aggressione alla giovane», che trova «oggettivo riscontro» in un'altra ferita provocata dal tagliacarte e che ha le stesse caratteristiche medico-legali. Che a mordere sia stato Busco, per i giudici non ci sono dubbi, vista la peculiarità della lesione e le caratteristiche uniche della sua dentatura. Anche in questo caso i rilievi dei consulenti della difesa sono considerati «non di rado contraddittori». In più la persona vista dalla portiera Giuseppa De Luca quel martedì pomeriggio potrebbe essere proprio l'imputato, che è «privo di alibi» e ha tentato di crearsene uno falso anche usando testi che hanno mentito per coprirlo.
E il movente? Il movente non c'è, ammettono i giudici, ma «lo spaccato dell'infelice rapporto che emerge dalle lettere della ragazza è compatibile con la presenza di Busco in via Poma». La dinamica disegnata dalle motivazioni è la seguente: Busco chiama Simonetta a casa all'ora di pranzo, la raggiunge più tardi in Prati, dove lei gli apre la porta e lo accoglie seminuda, cerca di avere un rapporto sessuale con la fidanzata, che, però, si rifiuta (e perché, allora, si era spogliata?). A questo punto, il giovane (che ha un carattere violento, ha sostenuto il pm) la stordisce con «un vigoroso ceffone» e, quindi, infierisce sul suo corpo «affondando più volte il tagliacarte», anche nella vagina.
Una ricostruzione che appare, come minimo, illogica. Come il verdetto appare basato sull'esclusione di altri possibili colpevoli. È invece condivisibile l'osservazione dei giudici, quando dicono che «è indubbiamente molto anomalo» che Busco non ricordi con precisione i suoi movimenti nel giorno del delitto.
Ma non è altrettanto «anomalo» condannare a 24 anni di galera una persona incensurata solo perché, a distanza di vent'anni, ha un vuoto di memoria?


Maurizio Gallo

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martedì 12 aprile 2011

Carmelo Lavorino: "Delitto dell'OLGIATA ... lontano da VIA POMA"

Dopo 20 anni è stato risolto il giallo dell’Olgiata grazie all’investigazione scientifica e criminalistica, alla tecnologia ed alla ricerca scientifica e criminologica, alla pazienza della parte offesa (marito e figli della vittima), alla volontà di risolvere il caso, al fatto che il filippino Manuel Winston abbia confessato.

Il 4 aprile scrissi "Speriamo che non arrivi qualcuno che faccia ritrattare il filippino, così facendolo divenire una star giudiziaria alla Michele Misseri e usandolo come biglietto d’entrata e grimaldello per talk show." ... ebbene ... questo si è verificato: sta arrivando la solita armata brancaleonesca a caccia della visibilità mass mediatica!

Speriamo che l’uomo non diventi una vittima splendente di pentimento e di sofferenza (o la pecorella smarrita tornata all’ovile), visto che il rimorso dell’omicidio lo avrebbe fatto soffrire per ben venti anni… angosciandolo sino a intenerirlo, tanto che ha chiamato una figlioletta come la vittima: "Alberica", così dimostrando astuzia, sadismo, capacità manipolatorie, egosimo, strumentalizzazione della figlia per procacciarsi alibi psicologici! Però, nonostante il pentimento, i gioielli e i soldi spariti si sono persi e il filippino non ne sa nulla (sic!!!) e, inoltre, dichiara di non ricordare nulla dell'accaduto, come se volesse dimostrare che al momento del fatto era incapace di intendere e/o di volere: ritengo tutto ciò sospetto e da miscelare con le lacrime da coccodrillo del reo confesso.

Sono del parere che Winston poteva essere incastrato già dall’inizio grazie agli elementi logici (movente, possibilità, opportunità, capacità, tempi, sincronie e incroci di alibi), alla sua territorialità ed alla facilità dei movimenti all'interno della villa stessa (i due cani della contessa lo hanno fatto passare, conoscenza di come entrare e come uscire, conoscenza del codice di accesso al garage), a una serie di indicatori del crimine già presenti nel puzzle che dovevano essere organizzati e collegati, alla metodica omicidiaria (aggressione in seguito a litigio, colpi con lo zoccolo, strozzamento tipico di arti marziali, copertura del volto come ultima parte della firma psicologica, ...), a qualche sua traccia biologica che all’epoca poteva di già essere tipizzata ma che non venne analizzata, al rapporto litigioso che aveva con la contessa: questo avrebbe impedito che il sospetto si potesse abbattere verso il marito della vittima Pietro Mattei e il giovane Roberto Jacono.
Ricordiamoci che sin dall'inizio l'omicidio era del tipo complesso e variegato con la prova evidente di più metodiche di aggressione e omicidiarie (colpi alla testa con lo zoccolo, tentativi di strozzamento atipico, tentativi di strangolamento, tentativi di soffocamento), con i chiari indicatori di (A) omicidio d'impeto in seguito a litigio e furto per tacitazione testimoniale, (B) della ovvia territorialità domestica, (C) della copertura dell'assassino di sesso maschile da parte di qualche territoriale di sesso femminile.
Era il classico caso da libro giallo-noir di alto livello!

Il caso dell’Olgiata mi ricorda – per le vicende investigative e per gli aspetti enigmatici – l’omicidio della professoressa catanese Antonella Falcidia, 4 dicembre 1993, assassinata nel suo appartamento con diverse pugnalate inferte con tecnica orientale, soldi spariti, orologio di valore al polso della vittima (come Alberica Filo della Torre). Venne puntato il marito e mantenuto nell’inferno del sospetto per 17 anni, tanto che nel 2007 venne incarcerato (poi liberato in seguito al ricorso al Tribunale del riesame), processato e - infine - assolto nel febbraio-marzo del 2011. Ebbene, anche in quel caso non hanno guardato verso una direzione che sto indicando da anni: la posizione di un collaboratore domestico della vittima proveniente dallo Sry Lanka, marito della badante, tale Antonio, oggi tornato nel suo Paese ...

Ultimi pensieri: 1) La traccia ematica dell'Olgiata col Dna del filippino Winston non ha nulla a che vedere con la traccia ematica di Via Poma e col suo Dna, sia ben chiaro: la prima è certa, è riferita a un solo tipo di sangue, ne sono state definite tutte e sedici le regioni alleliche; la seconda è l'ombra di un'incertezza vista di profilo ed al buio, sarebbe frutto di commistioni di due, tre e quattro sangui e Dna, ne sono state definite solo otto regioni alleliche.
2) Qualcuno ha coperto il filippino, lo ha aiutato nel depistaggio ed ha goduto di una buona parte dell'attività predatoria. 3) Se il filippino non confessava stavamo freschi.

Carmelo Lavorino

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giovedì 7 aprile 2011

Il Tempo: "Il detective in provetta incastrò anche Busco"

Il detective in provetta ha contribuito a dare una svolta al giallo dell'Olgiata e la scoperta scientifica è stata seguita dalla confessione di Winston Manuel, sebbene il filippino sarebbe in procinto di ritrattare la sua versione dei fatti.

Anche nell'altrettanto ventennale caso di via Poma il Dna ha avuto un ruolo decisivo.

Ha permesso di far condannare a 24 anni di reclusione l'ex fidanzato della vittima Raniero Busco.

Un successo giudiziario sottolineato ieri dai legali di Paola Cesaroni, sorella di Simonetta. «La prova scientifica raggiunta grazie ai risultati ottenuti mediante l'esame del Dna risulta certamente attendibile ed esente da valutazioni soggettive e critiche pretestuose, seppur a distanza di venti anni dal tragico evento», sostengono Massimo Lauro e Federica Mondani. È vero.

Ma i due «gialli» sono molto diversi tra loro. Busco era il fidanzato della ragazza uccisa nel '90 e può aver lasciato sue tracce biologiche sul corpetto di Simona tre giorni prima dell'omicidio, durante un rapporto sessuale.

L'accusa ha replicato portando in aula la madre della vittima: mia figlia si cambiava spesso la biancheria intima, ha detto la donna. Lo ha fatto anche in quei giorni? Non si sa. È una deduzione, non una prova.

Il filippino, invece, non può aver lasciato tracce di sangue sul lenzuolo che avvolgeva il volto della contessa se non in occasione dell'assassinio. Winston aveva anche un valido movente, i debiti con la nobildonna e le liti fra i due. Se, poi, è stato sorpreso da Alberica mentre rubava, una sua reazione violenta sarebbe stata confortata dalla logica. Busco non aveva apparenti motivi per uccidere. Non la gelosia, citata come un possibile movente dal pm, visto che era lui a essere meno coinvolto nella storia. Manuel, infine, ha confessato (per ora). Raniero ha sempre negato di essere il carnefice dell'ex fidanzata. Ragioni che saranno sostenute con energia nel processo d'appello.

Un «via Poma bis» che vedrà l'avvocato di Busco, Paolo Loria, affiancato da un principe del Foro, il professor Franco Coppi, che ha accettato ieri la difesa del meccanico di Morena.


Maurizio Gallo

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mercoledì 6 aprile 2011

Scienze forensi – Validità della prova del DNA

La scienza ha fatto conquiste da fantascienza. La microscopia non incontra più limiti dimensionali, all’analisi chimica non sfugge più nessuna molecola, la genetica si appresta a riprodurre esseri viventi da un loro frammento, la medicina riesce a seguire il corso del pensiero nel cervello.
Parrebbe che nessun ostacolo più si frapponga ad indagini criminali a cui più nulla sfugge; ma purtroppo anche la scienza ha un punto debole e sono gli uomini che la applicano.

Quanto più le macchine diventano sofisticate, quanto più basta premere un bottone per ottenere un risultato, tanto più si tende a mettere davanti alla macchina una “scimmia addomesticata” che sa solo premere il bottone.
In Italia mancano strutture adeguate in grado utilizzare i nuovi metodi con l’alto livello scientifico richiesto dalle nuove tecnologie, destinate a raffinati laboratori universitari più che a laboratori di polizia, a professori universitari con esperienza piuttosto che a generali o questori, pur se occasionalmente laureati in scienze.

Peggio ancora: mancano strutture indipendenti che non facciano sorgere il dubbio che esse lavorino più per confermare le tesi degli investigatori che per trovare la verità.

In Inghilterra vi è il Forensic Science Service considerato di assoluta eccellenza e che assiste laboratori di oltre 60 paesi e dispone della più ampia banca dati del mondo sulle scienze forensi con oltre 70.000 documenti. Pur essendo lo FSS indipendente dalla polizia, vi sono poi istituzioni private ad alto livello, come lo LLG con oltre 1000 dipendenti, in grado di assicurare consulenze qualificatissime.
Non che in Inghilterra non vi siano errori peritali, ma si fa di tutto per ridurli al minimo e le perizie non vengono mai eseguite sotto la spinta di salvar la faccia di un pubblico ministero o di un corpo di polizia ed è molto frequente la revisione di processi quando si scopre che una metodologia impiegata da un laboratorio non era adeguata al caso.
In paragone la situazione italiana è a dir poco penosa e si ha troppo spesso l’impressione di essere nelle mani di apprendisti stregoni.


Quale elevato livello di consapevolezza scientifica sia richiesto, lo ha dimostrato il problema dei residui di sparo, cioè delle particelle di polvere da sparo che rimangono sulle mani dello sparatore e che dovrebbero dimostrare che egli è lo sparatore. Sono oltre 70 anni, a partire dalla tecnica del c.d. guanto di paraffina, che si studiano nuovi sistemi per individuare i residui di sparo e che ogni nuovo sistema si rivela fallace. Attualmente, pur non essendovi più limiti tecnici all’indagine, si è visto che in moltissimi casi è impossibile stabilire la provenienza del residui e che vi è un tale inquinamento da corpuscoli identici o analoghi a residui di sparo che è da scriteriati affermare con certezza che ciò che si è trovato sulla mano o sugli abiti del sospetto è un residuo di sparo e, nel caso che lo fosse, che la sua presenza è idonea a dimostrare che il sospetto ha sparato. Si consideri che un locale in cui si è sparato è altamente inquinato da residui di sparo i quali si ritrovano su ogni persona che vi entri; che chiunque maneggia una pistola assume e ridistribuisce residui di sparo; che ogni ufficio con poliziotti è inquinato da residui di sparo. Un tempo si trovavano sulle mani residui di sparo con facilità, anche dopo giorni dallo sparo; attualmente si considera inutile e pericoloso ricercarli dopo tre o quattro ore! Quindi negli USA lo FBI ritiene di poter dare una risposta tranquillizzante solo in un terzo dei casi esaminati. Un recente libro (2008) di John D. Wright, Der Täter auf dem Spur, noto esperto di scienze forensi, neppure ne parla più!
Eppure in Italia i nostri laboratori erano giunti a trovare elementi certi di colpevolezza nel 90% dei casi il che significa che nel 60% dei casi le conclusioni della perizia erano, quantomeno, avventate o ciecamente dalla parte dell’accusa!


Un nostro perito, tra i migliori, mi riferisce che fra le numerose perizie del laboratorio dei Carabinieri da lui esaminate negli ultimo 12 mesi, non ne ha trovata una che reggesse ad un approfondito vaglio scientifico (non che fossero necessariamente errate, ma non dimostravano con rigore scientifico quanto affermato; un buon perito di parte avrebbe potuto dimostrare che ogni affermazione poteva essere legittimamente messa in dubbio).
Ciò significa che in passato migliaia e migliaia di processi, in tutto il mondo, sono stati definiti sulla base di perizie balistiche prive di ogni valore scientifico, che non dimostravano assolutamente nulla, buone solo a tranquillizzare la coscienza dei giudici.
Si è avuto un esempio eclatante di questa situazione nel caso Marta Russo in cui i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo. Alla fine il processo è stato deciso sulla base di una discussa testimonianza, proprio come 100 anni orsono.
Altro episodio penoso della nostra storia giudiziaria si è avuto nel caso “unabomber” in cui gli investigatori avevano repertato un paio di forbici in casa di un sospettato ed un lamierino sul luogo del fatto e per mesi e mesi non hanno mai pensato di controllare se per caso il lamierino non fosse stato tagliato con quelle forbici. Se mi chiedete perché, la risposta è semplice: perché né gli investigatori né i giudici sapevano che uno strumento che lavora su di un metallo vi lascia delle tracce che consentono di identificare lo strumento. Sono i cosiddetti toolmarks, già noti alcuni secoli fa! E quando alla fine hanno preso in mano i reperti, hanno talmente pasticciato da pregiudicarne il possibile valore probatorio futuro.
Ora gli apprendisti stregoni hanno scoperto il DNA e credono di poter risolvere facilmente ogni caso con esso. Sembra che ormai investigatori e giudici abbiano rinunziato ad usare logica ed intelligenza e pensino di avere in mano uno strumento perfetto che li esime dal pensare.
Purtroppo il DNA è uno strumento eccezionale di indagine, ma soggetto anch’esso ad errori i quali possono essere evitati (salvo un margine statisticamente inevitabile del 1-2%) solo se si seguono metodiche con regole ferree, a partire dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile.
È appena il caso di ricordare, a questo proposito, il caso di Cogne in cui si sono susseguiti oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto e dopo che per la casa si erano aggirati branchi di persone; meno male che in quel caso la prova del DNA non serviva.
La situazione è la stessa che in passato si è verificata per le impronte digitali e per i residui di sparo. Gli inconsulti e ascientifici entusiasmi iniziali hanno dovuto calar le ali di fronte alla constatazione che permaneva un margine di errore fonte di innumerevoli errori giuridiziari.
Proprio per le impronte digitali il prof. Itiel Dror dell’Università di Southampton ha fatto un bello scherzo a sei esperti di vari paesi (compresi Inghilterra ed USA) ed ha sottoposto loro otto diverse impronte latenti rilevate sul luogo di delitti e sei impronte prelevate a otto diversi sospetti, rispetto alle quali i periti, senza che lo ricordassero, si erano già espressi. In sei casi su 48 i periti diedero una risposta diversa da quella su cui avevano già giurato in tribunale e solo due esperti non deviarono in nessun caso dalle affermazioni già fatte! Nel 2002 negli Usa si sono accertati quasi 2000 casi di identificazioni erronee. Se questo è il margine di errore su di un accertamento considerato fra i più consolidati ed affidabile, da lasciar fare a qualunque tecnico in grado di ingrandire una foto, su cui molti enti, come lo stesso U.S. Department of Justice, giurano che il margine di errore è eguale a zero, si immagini quale è il margine di errore per i residui di sparo e il DNA che invece richiedono incontestabilmente vaste capacità nell’operare scientificamente.
Il DNA è in grado di far individuare una persona da infinitesime parti dei suoi tessuti corporei. Una traccia di liquido organico (saliva, sperma, sangue, orina, sudore), una squama di forfora, un pelo, vengono trattati con l’enzima polimerase in modo che frammenti del DNA si ricompongano nella dovuta sequenza; ripetendo la procedura molte volte, si riproduce il fenomeno ottenendo un numero sempre maggiore di campioni di DNA, in modo esponenziale; questo procedimento viene detto “reazione a catena della polimerase, PCR, ed è in grado in tre ore di ricreare 100 miliardi di molecole di DNA identiche; con un nuovo metodo dell’Università del Michingan questo procedimento si conclude in soli 40 minuti. Però il risultato non è un codice numerico come il codice fiscale, idoneo, se sufficientemente lungo, a distinguere ogni cittadino, ma solamente l’immagine di una elettroforesi che presente un certo schema; se almeno 13 punti di questo schema coincidono con lo schema estratto dal campione di DNA da confrontare, si afferma che vi è coincidenza con una probabilità di un errore su di un miliardo.

Nella pratica però si è visto, facendo una ricerca in un database del DNA dell’Arizona con 65.000 campioni, che con nove punti si trovavano bene 122 corrispondenze, con dieci punti 20, con 11 e con 12 punti una corrispondenza; altro che un errore su un miliardo!

Il problema del DNA come prova nel processo penale è però ben più complicato e non si limita solo al problema di ricollegare un certo DNA ad un dato individuo. Ogni persona disperde in continuazione una tale quantità di materiale organico proprio (la polvere di una casa è costituita per la maggior parte di cellule umane) o altrui (catturato con gli abiti e le scarpe) che è impresa improba distinguere il DNA utile da quello estraneo ed evitare che il DNA utile venga da esso contaminato. In Australia è successo che in ben tre casi di omicidio si erano trovate le stesse tracce di DNA; erano convinti di aver trovato un serial killer, fino a che non hanno scoperto che il DNA era quello dell’esperto della polizia che faceva le analisi senza le debite cautele.
Il problema è così complesso ed importante che le metodiche e i protocolli di ricerca e prelievo dei reperti, della loro conservazione, della loro manipolazione, dovrebbero essere fissate normativamente, così da poter garantire la genuinità della prova. Ogni azione, dalla ricerca all’analisi, è in sostanza una operazione irripetibile, secondo la distinzione del codice di procedura penale e il fatto di ignorare questo dato elementare comporta che la prova con il DNA diventi aleatoria.
Non parlo ovviamente dei casi in cui vi è da identificare una quantità rilevante di materia organica (sangue, sperma) in cui la contaminazione viene facilmente rilevata, ma di tutti quei casi in cui la traccia utile è minima. Tra l’altro quanto più la traccia è modesta, tanto più cresce la difficoltà di separare due DNA che si trovino ad essere esaminati assieme.

Vediamo un esempio pratico di come dovrebbero funzionare le cose. Si abbia una stanza in cui è avvenuto un omicidio. In essa vi sono tracce di DNA del morto, dell’assassino (a meno che non fosse ben imballato in una tuta di plastica!) e di tutti coloro che hanno frequentato la stanza prima dell’omicidio, senza limiti di tempo, ovviamente in relazione al tipo di pulizia in uso. Chi scopre l’omicidio porta il suo DNA nella stanza e altrettanto fanno tutti coloro che lo seguono. In genere l’esperienza ci dice che prima dell’arrivo della squadra scientifica, entreranno nella stanza almeno una decina di persone che spargono il proprio DNA e portano in giro con le scarpe quello che già vi trovano. In Italia manca un preciso protocollo di intervento e sopralluogo da parte della polizia il quale consenta poi al giudice di controllare che non vi siano stati comportamenti scorretti.
Quando arriva la squadra scientifica, con il minor numero di persone possibile, questa deve essere rivestita con apposita tuta, perfettamente pulita, con cuffia e con guanti e che copra anche le scarpe; non guasta una mascherina davanti alla bocca perché uno starnuto o uno spruzzo di saliva possono inquinare l’ambiente. Già in questa fase bisogna protocollare i nomi di tutti coloro che sono intervenuti ed intervengono perché poi si possa escludere il loro DNA dalle ricerche.
Inizia quindi la ricerca dei reperti (intendesi con tale termine cose più o meno grandi che possono essere il supporto di parti anche infinitesimali di DNA) con vari metodi (vista, aspirapolvere, nastro adesivo, luce fluorescente, laser, ecc.). Nel momento in cui un reperto deve essere prelevato, non si possono usare i guanti che si indossano perché già inquinati, ma si usano nuovi guanti oppure un attrezzo ben pulito. E questo va usato una sola volta oppure accuratamente pulito dopo ogni uso perché altrimenti si corre il rischio di trasportare DNA del primo reperto sul reperto successivo. Nell’ambiente si deve procedere senza calpestare le zone non ancora controllate perché con i piedi si possono trasportare tracce da un punto all’altro. Ovviamente ogni prelievo va prima accuratamente fotografato.
Il reperto trovato deve essere immediatamente sistemato in un contenitore stagno portato sul luogo ben chiuso e perfettamente pulito e il contenitore va immediatamente sigillato e munito di scritte di identificazione. Da quel momento il contenitore può essere aperto solo dal perito incaricato dal giudice e che deve operare anch’egli in modo da evitare nel modo più assoluto la contaminazione. Egli inoltre deve protocollare ogni apertura e richiusura del contenitore con indicazione delle cautele adottate e delle persone partecipanti.
In genere, se non si filma tutto, è necessario procedere alla redazione di un verbale in cui siano descritte tutte le operazioni compiute, nella loro sequenza temporale, con indicazione di tutte le persone intervenute e di ciò che hanno fatto. È sempre necessario che l’investigatore possa dimostrare di aver fatto tutto secondo le regole perché se solo al dibattimento, a seguito di contestazioni, dichiara di averle seguite, vi è il fondato sospetto che lo faccia solo per coprire suoi errori.
Se non si seguono queste regole, la prova del DNA può diventare priva di ogni valore processuale perché non prova più nulla. Come per le impronte digitali, una traccia di DNA dimostra che prima di una certa data una persona è venuta in contatto con un oggetto o un ambiente, ma non lo ricollega direttamente al delitto. Il significato probatorio può derivare dal punto di rinvenimento, ma allora l’investigatore deve essere in grado di provare che la traccia ha potuto trovarsi in quel punto solo in relazione al delitto e non perché, ad esempio, ce l’ha trasportata un maldestro operatore.

Un esempio eclatante dei problemi che presenta l’elevatissimo pericolo di inquinamento del reperto lo si è avuto il Germania proprio il 29 marzo 2009. Da due anni la polizia tedesca rinveniva sulla scena di gravi delitti, tra cui anche l’omicidio di un poliziotto, lo stesso DNA di una persona di sesso femminile; alla fine si aveva il quadro di una specie di serial femminile detto "Phantom vom Heilbronn" che girava per la Germania commettendo delitti gravi (ovviamente la ricerca del DNA viene fatta in casi di un certo rilievo). Già le erano stati attribuiti 40 casi con la conseguenza che non era stata svolta alcuna altra indagine per accertarne gli autori, perché la prova del DNA veniva considerata sufficiente. Poi per caso si è fatta la penosa scoperta che i bastoncini di ovatta usati per il prelievo del DNA e forniti da un’unica ditta, erano stati tutti contaminati del DNA di una operaia della ditta!
Viene quindi da rabbrividire quando si vede un filmato (come è accaduto per il processo di Perugia), prodotto a dimostrazione delle cautele usate, in cui i poliziotti raccolgono un reperto decisivo con i guanti! I guanti, dopo due secondi che si usano per ricercare qualche cosa sono già inquinati, e un reperto importante NON va toccato con i guanti, ma va raccolto con una pinzetta da usare una sola volta.
Il problema dell’inquinamento da DNA non è ancora stato risolto e quindi la cauteala non sarà mai troppa.
Voi pensate che in genere le indagini vengano svolte con questa capacità e accuratezza, come richiesto dalle corti degli Stati Uniti? Che gli operanti siano in grado di provare tutto ciò che davvero hanno fatto? Io personalmente, e per la mia esperienza di 25 anni di giudice istruttore, ho i miei fondati dubbi!

Edoardo Mori

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martedì 5 aprile 2011

Fumus probatorio

Come antipasto di trattazioni più articolate che eventualmente si faranno a seguito della pubblicazione delle motivazioni della condanna subita da Raniero Busco, conviene dar conto, sia pure in modo schematico, di alcune risultanze processuali inerenti la cosiddetta prova del DNA.

Fatto
Vengono rinvenute tracce biologiche appartenenti a Raniero Busco su due indumenti che la vittima indossava il giorno del delitto.

Considerazione
Poiché Raniero Busco è il fidanzato della vittima ed è frequentemente in intimità con Simonetta (se fosse estraneo a Simonetta, la presenza del DNA sarebbe ovviamente risolutiva come è stato nel caso del filippino per il delitto dell’Olgiata), è indispensabile provare la contestualità all’evento criminoso. Diversamente le risultanze scientifiche, sono del tutto inutili e non costituiscono prova.
E’ dunque necessario provare due cose:
  1. che gli indumenti erano puliti prima di essere indossati e quindi che furono precedentemente lavati
  2. che il lavaggio è idoneo a cancellare ogni residuo biologico giacente sull’indumento.

Riguardo al punto 1) è appena il caso di dire che a distanza di 17 anni dal delitto era impossibile acquisire con sicurezza questo elemento ed infatti al processo si è potuto solamente stabilire che Simonetta era solita cambiarsi di frequente e che la madre eseguiva frequenti lavaggi. Nulla di più.
Riguardo invece al punto 2) l’unico modo per accertare l’efficacia di un lavaggio era quella di simulare su indumenti della medesima fattura un imbrattamento di tracce organiche di diversa natura (es: saliva e sudore) e di eseguire poi dei lavaggi con le due usuali modalità casalinghe: a mano e in lavatrice.

E’ stato fatto l’esperimento e l’esito è stato sorprendente!

Il sudore viene cancellato in ogni caso. La saliva scompare dopo il lavaggio in lavatrice, ma resiste al lavaggio a mano.

Dalla deposizione della madre di Simonetta Cesaroni:

AVV. LORIA: allora la biancheria intima lei la lavava a mano con il detersivo neutro.
DICH. DI GIAMBATTISTA: sì sì, detersivo, sapone, anche il sapone perché io uso molto il sapone, il sapone da bucato.

Le tracce organiche appartenenti a Raniero Busco potevano quindi risalire a mesi prima e aver resistito a numerosi lavaggi.

E’ la stroncatura definitiva di qualsiasi pretesa di utilizzare l’esame del DNA per sostenere l’accusa a Raniero Busco.

All’accusa serve altro: un morso e un dentista.

Bruno Arnolfo