lunedì 31 gennaio 2011

Igor Patruno: "Una lunga catena di menzogne"

Il giorno in cui Simonetta Cesaroni è stata uccisa, a Roma faceva caldo, un caldo umido e soffocante perché nella mattinata aveva piovuto. Il giorno in cui il Pubblico Ministero ha chiesto l’ergastolo per il presunto colpevole dell’omicidio era una giornata d’inverno e nel cielo sopra l’aula bunker di Rebibbia si addensavano cumuli di nubi oscure, pur senza provocare alcun evento meteorologico di rilievo.
Un delitto sospeso nella pioggia. Quando siamo usciti dall’aula insieme a Cristiana, la cronista de Il Messaggero, siamo stati colpiti da un’anziana signora, amica della famiglia Busco, venuta ad assistere al processo. L’abbiamo riconosciuta come una delle testi che hanno “confermato” l’alibi dell’imputato. Le tremavano le mani mentre si portava alle labbra.
Ergastolo è un termine che fa paura anche quando aspetti che venga pronunciato da quasi un anno, anche quando hai tante volte tentato di immaginare l’effetto che ti farà sentirlo pronunciare.
La ricostruzione di Ilaria Calò è stata lunga e meticolosa. Un ragionamento iniziato prima di Natale e finito giusto dopo la Befana. In mezzo ci sono state le “feste”, ma le parole rimaste sospese si sono come allungate da un anno all’altro.
Ho seguito il processo a questo ragazzo di periferia, ormai uomo fatto, con due figli ed una moglie, Roberta, molto combattiva ed ho capito che c’è una distanza enorme tra la verità processuale e quella, reale e cruda, delle ultime ore di vita di Simonetta.
La lista”, l’ultimo romanzo di Michael Connelly, inizia così:

“La polizia mente. Gli avvocati mentono. I testimoni mentono. Mentono le vittime. Un processo è una gara di menzogne. In aula lo sanno tutti; lo sa il giudice, lo sanno i giurati. Entrano in tribunale consapevoli che verranno raccontate loro solo bugie. Prendono posto al banco e accettano di ascoltarle”.

In effetti l’accusa di mentire in questo processo è circolata ovunque. Ilaria Calò, il pubblico ministero, ha accusato le due testimoni che hanno confermato l’alibi di Raniero Busco di non aver detto la verità, ha lasciato capire che gli amici di Raniero hanno “edulcorato” la verità sul rapporto tra i due fidanzati per non aggravarne la posizione, ha accusato Busco di aver mentito su tutto. È il suo mestiere quello di far sì che la verità processuale si trasformi in “pena” per il colpevole e lei lo ha fatto bene.
Anche l’avvocato Lucio Molinaro ha accusato l’imputato di aver mentito. Anzi addirittura di averlo “strumentalizzato” per allontanare da lui l’attenzione delle indagini.
Dopo la sua arringa finale mi sono avvicinato e gli ho chiesto:
"Davvero Raniero Busco le ha chiesto nel 1990 di essere patrocinato contro la Polizia di Stato per le intimidazioni ed i maltrattamenti ricevuti nel corso degli interrogatori?"
"Sì te lo confermo!" Mi ha risposto Molinaro sicuro.
"Quando è avvenuto?" Ho chiesto ancora.
"A settembre del 1990. Busco mi raccontò di essere stato intimidito. Gli avrebbero mostrato le foto del corpo martoriato di Simonetta e gli avrebbero chiesto di confessare. Non solo! Mi ha anche informato di essere stato colpito nelle parti intime durante l’interrogatorio".
"E lei che ha fatto?"
"Ho informato Catalani, il magistrato che per primo seguì il caso e parlato con il capo della Mobile e con il titolare dell'indagine dott. Del Greco e ho chiesto che episodi del genere non si ripetessero".
"Perché ha affermato di essersi poi sentito strumentalizzato?"
"Quando è venuto fuori nel 2005 il nome di Busco, quando la Procura ha acceso i riflettori su di lui individuandone il DNA sul reggiseno e sul corpetto di Simonetta, ho capito che si era trattato di un gesto strumentale. Busco ha chiesto il mio patrocinio per avvalersi del mio ruolo di avvocato della famiglia, della mia autorevolezza di avvocato della parte offesa".

Insomma Lucio Molinaro è convinto che Busco, preoccupato per uno sviluppo delle indagini nei suoi confronti lo avrebbe coinvolto per avvalersi della sua posizione. Insomma, avrebbe pensato: “se mi difende l'avvocato della famiglia Cesaroni, anche la Polizia e il magistrato si convinceranno che non posso essere io il colpevole, che la la famiglia non mi ritiene coinvolto..."
Subito dopo ho chiesto a Raniero:
"E' vero che nel 1990 hai chiesto il patrocinio di Molinaro a causa dei maltrattamenti ed intimidazioni ricevute nel corso degli interrogatori?"
"Ma quando mai – mi ha risposto – assolutamente no! Nemmeno mi ricordavo di averci mai parlato nel 1990 e nemmeno dopo".
"Quindi tu neghi di aver richiesto a Lucio Molinaro di intervenire?"
"Si, assolutamente... Non ho mai fatto all'avvocato una simile richiesta".
Qualche udienza prima Antonio Del Greco, primo responsabile delle indagini sull’omicidio di Simonetta, non solo aveva negato di aver “maltrattato” l’imputato, ma anche di avergli mostrato le foto del corpo scempiato per indurlo a confessare. Anzi secondo lui quelle foto la notte dell’8 agosto ancora non c’erano.
Del Greco si è molto risentito per le accuse di aver maltrattato Raniero ed ha anche chiesto al pubblico ministero di valutare la possibilità di procedere contro di lui per diffamazione.
Dopo la sentenza il papà di Donatella Villani, l’amica del cuore di Simonetta ha dichiarato a Maurizio Gallo de Il Tempo di averle viste anche lui quelle foto la mattina dell’8 agosto.
Insomma sembra che le foto ci fossero anche perché nella questura Centrale di Roma, dove tutti i testimoni vennero invitati ad andare a deporre e dove Raniero Busco venne portato nella notte dopo essere stato prelevato dal posto di lavoro, c’era un laboratorio fotografico in grado di sviluppare e stampare il poche ore.
Almeno sulle foto Raniero Busco non ha mentito. Le foto c’erano!
Ma il problema di questo processo è un altro. Chi ha mentito durante le testimonianze in aula? E perché lo ha fatto? Cattiva memoria dopo i venti anni trascorsi? Rimozione di ricordi sgradevoli e pesanti? Oppure malafade?

di Igor Patruno
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domenica 30 gennaio 2011

Il Tempo: "Ho visto le foto. Busco non mente"

l padre della migliore amica di Simonetta difende l'ex fidanzato della vittima. In aula si è detto che a Raniero non furono mostrate le immagini a poche ore dal delitto. Ma Giovanni Villani giura che alle 3.30 del mattino erano sul tavolo del dirigente della Mobile Cavaliere.

Hanno detto che è un bugiardo. Che ha mentito sull'alibi, che ha cercato di depistare le indagini. Hanno sostenuto che aveva dichiarato il falso quando in aula riferì che la notte del delitto lo schiaffeggiarono e gli misero sotto gli occhi le foto del cadavere di Simonetta: non potevano essere già state sviluppate quelle atroci immagini del corpo martoriato, crivellato da trenta coltellate. Dalla scoperta del delitto erano passate solo poche ore. Quindi, quella di Busco era una menzogna. Una delle tante che aveva messo in circolazione per garantirsi l'impunità, per non pagare le sue colpe. Ma c'è un testimone che giura di aver visto quegli scatti raccapriccianti alle tre del mattino dell'8 agosto, quindi tre ore e mezzo prima che Raniero venisse interrogato. È il padre di Donatella Villani, la migliore amica della vittima, quella a cui Simona indirizzò una delle lettere messe agli atti del processo. «Erano all'incirca le due e mezzo del mattino, squillò il telefono e una voce maschile dall'altra parte della cornetta disse: "Sono il dirigente della Squadra Mobile Nicola Cavaliere. Ho bisogno di parlare con sua figlia. Me la può portare in Questura?" - racconta Giovanni Villani, 69 anni, un negozio di frutta a Morena - Cavaliere non mi disse che cosa era successo. Verso le 3 e 20 arrivammo a San Vitale. Donatella entrò nell'ufficio di Cavaliere e io andai nella sala d'attesa. Qui vidi Raniero Busco seduto, la testa poggiata sulle braccia, che piangeva a dirotto. "Che è successo?", gli chiesi.
"Hanno ammazzato Simonetta", replicò lui. Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Per quello che ho potuto osservare, non aveva graffi, ferite e nemmeno cerotti sulla mani e sulle braccia». Villani, che nel suo quartiere tutti chiamano Giovannone per la stazza non certo efebica, a questo punto esce dalla stanza, lasciando Busco a singhiozzare in solitudine, bussa alla porta di Cavaliere ed entra. «Anche mia figlia stava piangendo. Aveva saputo. Io ero in piedi e, sul tavolo del dirigente vidi una quindicina di foto del corpo di Simonetta. Ricordo che c'erano un sacco di buchi, di ferite, e poco sangue. Donatella non poteva scorgerle da seduta perché Cavaliere sul tavolo aveva alcune cartelle e forse la borsetta della vittima, se ricordo bene». Ma perché il signor Villani queste cose non le ha dette prima, perché non si è presentato in aula in questi ultimi undici mesi? «Ho seguito il processo in tv e non ho mai saputo del particolare delle foto - spiega lui - Quando mi hanno detto che in televisione si era messa in dubbio l'amicizia di mia figlia per Simonetta mi sono arrabbiato, mi è tornata in mente quella notte e oggi ho deciso di parlare».
Sì, perché Giovannone ha visto crescere tutti e due, Raniero e Simona. «Era una comitiva di ragazzi acqua e sapone e Simonetta veniva spesso a mangiare da noi - riferisce - Spesso si toglieva le scarpe, era un suo vizio. Quando si metteva seduta, se le toglieva. Comunque le due ragazze erano amiche per la pelle. E nessuno può insinuare il contrario. Ancora oggi Donatella, che ormai ha 41 anni e due figli, piange ogni volta che si accenna alla sua amica uccisa e spesso va a pregare sulla sua tomba a Genzano. E lei capisce che sentir dire che ha tradito l'amicizia di Simonetta mi fa imbufalire. Solo un depravato - conclude Villani - può aver fatto una cosa del genere. E Busco non è un depravato. Io posso gridare al mondo che Raniero è innocente. Ma mi piange il cuore perché l'assassino di quella poveretta resterà impunito».

Maurizio Gallo

sabato 29 gennaio 2011

Carmelo Lavorino: "Dubbi sulla condanna di Busco"

Ma la condanna in primo grado a Raniero Busco per l'omicidio di Simonetta Cesaroni non convince tutti.

Perché condannare Busco "Busco doveva essere condannato per la troppa forza tecnica
dell'accusa, per la logica dell'invincibilità accusatoria", cerca di spiegare Carmelo Lavorino,
criminologo.
"Busco è stato condannato anche per l'inconsistenza della strategia difensiva - ha aggiunto
Lavorino- perché Roma doveva chiudere il caso via Poma".
Il caso non è chiuso E tuttavia, "la sentenza di condanna a 24 anni per Busco non risolve il caso di via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni", riconosce Lavorino, che sul delitto di via Poma ha scritto un libro.
"Busco - afferma - avrebbe dovuto chiedere diverse perizie, fra cui l'ora della morte di Simonetta, se trattasi di assassino mancino, l'analisi del dna sul corpetto e sulla porta, l'analisi totale sulla fotografia del capezzolo col morso asserito e della propria dentatura.
Avrebbe dovuto fare invalidare il ritrovamento del corpetto e del reggiseno, rimasti incustoditi per oltre 15 anni. Avrebbe dovuto produrre un'analisi criminale a 360 gradi ed andare a guardare laddove io ho guardato, a cominciare dall'Aiag", l'azienda dove Simonetta lavorava.

E poi, chiedersi "perché tutti hanno fatto a gara a dimenticare Simonetta", indagare su "comportamenti stranissimi, tagliacarte che prima scompaiono e poi vengono miracolosamente lavati e messi a posto, strane telefonate che non si ha certezza che siano state effettuate, quando e da chi".
E " … Busco non avrebbe dovuto accodarsi ai sospetti verso Pietrino Vanacore ipotizzando che 'qualcosa sa ..."". "Mi auguro - conclude il criminologo - che il processo d'appello risolva il caso di Via Poma in tutti i suoi come, quando, in che modo, come, dove, per chi, perché, cosa e chi".

E' "del tutto assurda" per lo scrittore Alberto Bevilacqua.
Il noto giallista ragiona: "Quella casa di via Poma è maledetta. Due anni prima in quel palazzo ci fu un altro delitto di una donna. Io lo feci notare. Nessuno mi ha mai dato retta". Una considerazione che Bevilacqua fa alla luce anche delle vicende precedenti la condanna di ieri. "Dimentichiamo - riflette - che c'è stato anche il suicidio del portiere Vanacore? Ma insomma, un uomo si toglierebbe la vita - se realmente se l'è tolta ma questo non lo posso sapere - perché un fidanzato ha ucciso la fidanzata? Non sta né in cielo né in terra".
Lo scrittore non si stanca di ripetere che siamo davanti ad una condanna "assurda. Avrei quasi preferito l'ergastolo. Sarebbe stata una condanna assurda anche questa ma forse più accettabile - dice - Che senso ha la gradualità della colpa quando non c'è certezza di nulla in questo processo. Non e' chiaro il retroscena, non è chiaro nulla. E' in gioco la coscienza e c'è una vita distrutta".

Dal blog Detcrime
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venerdì 28 gennaio 2011

Francesco Bruno su Il Tempo: "L'omicida è libero ed è citato nelle indagini"

«È una condanna che mi lascia molto perplesso»

Il criminologo Francesco Bruno non ha mai creduto alla figura di Raniero Busco come mostro di via Poma. «Non mi sembra sia stata fatta giustizia in questo processo»
Perché? «Le ragioni risiedono nel fatto che a considerare bene gli elementi a carico di Busco, sono indizi che non dimostrano che lui abbia ucciso Simonetta, né che sia mai stato in quell'ufficio il 7 agosto del '90. Dimostrano solo che aveva delle relazioni intime con lei».

Analizziamo le prove. Sono tre. Partiamo dal morso sul seno di Simonetta. «Il morso riprende il calco dei denti di Busco in modo compatibile. Ma secondo lei un uomo e una donna che fanno l'amore non lo fanno con passione? Che ci sia un morso è normale ed è normale che sia stato Busco a darglielo. Ma non è detto che lo abbia inflitto la sera dell'omicidio. Il seno femminile o è un "oggetto" da mordere o da colpire col coltello, non tutte e due le cose assieme». E la saliva di Busco sul corpetto di Simonetta? «Non è stata trovata una prova inequivocabile. Ammesso però che fosse saliva di Busco, un killer non lo immagino con la bava alla bocca. Il dna della saliva, comunque, è "compatibile" che è una parola non utilizzabile sul piano penale». E il sangue di Busco sulla porta dell'ufficio? «Resta il discorso della "compatibilità": non è una prova».

Perché, allora, la Corte lo condanna a 24 anni? «Aspettiamo le motivazioni, ma il ragionamento della Corte mi pare incerto. È stata disegnata una brutta pagina della storia della Giustizia italiana». Ha senso, invece, una condanna a 20 anni di distanza? «I debiti con la giustizia bisogna pagarli, se si è colpevoli. Certo è che dopo tutti questi anni bisognerebbe tenere conto di quanto la persona in questione è cambiata. È stata emessa una sentenza come se vent'anni non fossero mai passati».

L'assassino è ancora in giro? «Dorme sonni tranquilli perché molti testimoni sono morti o sono stati intimiditi». Quindi, è vivo? «È vivo, forte e potente. Il suo è stato un delitto perfetto: perché non solo non è stato preso, ma paga un altro al posto suo». Mi scusi, perché dice che è potente? «Perché in tutti questi anni ha tenuto in scacco le forze dell'ordine, investigatori e magistrati. Non so chi sia il killer, ma immagino che il suo nome sia nelle carte processuali». Può darci un profilo? «È una persona insospettabile, si interessa alla ragazza e tenta di stuprarla ma poi non ce la fa fisicamente e la uccide per penetrarla col coltello. È una persona anziana. Non è Busco».

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La quadratura del cerchio. Dubbi e perplessità sulla sentenza per l'omicidio di Simonetta Cesaroni


Si è concluso il processo di primo grado sul delitto di Via Poma con una condanna a 24 anni che riguarda l'unico imputato, l'allora fidanzato della vittima Simonetta Cesaroni.
Una condanna che soddisferà qualcuno (la madre e la sorella della vittima si sono dette soddisfatte) ma che certo non risolve i tanti dubbi, né dipana le troppe ombre che avvolgono questo caso da venti anni.
'Luoghi comuni' dicono le parti civili, ma si tratta degli stessi luoghi comuni verso cui erano state indirizzate le indagini nei mesi successivi al delitto e a cui la famiglia Cesaroni e il loro avvocato parevano allora credere fermamente.

Visto che nessun risultato concreto uscì da quelle indagini, fu una fortuna insperata trovare il dna del fidanzato sugli indumenti intimi della vittima.
E forse intorno a questo risultato si è cercato di costruire un castello accusatorio decisamente un pò forzato.
Per celebrare finalmente un processo? Per mettere a tacere tante voci scomode? Per proteggere indagati rispettabili?
Forse, molto più semplicemente, si è trovato un colpevole possibile (chi meglio dell'ex fidanzato può essere accusato del delitto?), un agnello sacrificale da dare in pasto all'opinione pubblica, funzionale a mettere la parola fine ad un'inchiesta lunga e scomoda.

Sono troppi i tasselli che non si incastrano, troppi dubbi rimasti senza risposta:
- il suicidio di Petrino Vanacore (l'ex portiere della scala B di via Poma)
- la ritrosia di Salvatore Volponi, l'ex datore di lavoro della ragazza) a deporre in aula (rimandi reiterati).
- chi ha pulito sommariamente le tracce di sangue intorno alla vittima e perchè
- la mancata corrispondenza tra il contenuto gastrico (ora della morte entro le 17.00) e le telefonate intercorse tra Simonetta e una dipendente AIAG che terminano alle 17.45 (a cui si deve aggiungere il tempo necessario a commettere l'omicidio)
- le telefonate arrivate in serata a casa dell'allora presidente AIAG e prima della scoperta 'ufficiale' dell'omicidio
- le macchie di sangue di gruppo A (Busco e la vittima sono entrambi gruppo 0) repertate su porta e telefono del luogo del delitto
- il motivo per cui Raniero Busco 'avendo la piena disponibilità sessuale'(la definizione è della criminologa Roberta Bruzzone) di Simonetta avrebbe dovuto attraversare tutta Roma per avere un rapporto pomeridiano extra rischiando di essere visto dai portieri o da altri
- la mancata ricostruzione cronologica degli spostamenti dell'imputato

Tutti questi elementi (insieme a molti altri) portano lontano anni luce da Raniero Busco.

La PM Ilaria Calò, decisa e convincente, ha minimizzato queste 'mine vaganti', cercando di ricondurle ad eventi scollegati e indipendenti dall'omicidio. Le ha definite "catene causali che si snodano in parallelo".
Ma, sebbene abbia convinto la Giuria e i Giudici, non ha convinto molti di noi e molti tra gli opinionisti (criminologi, scrittori, giornalisti) che hanno seguito il processo.

Ma veniamo al "dispositivo" della sentenza. Per le motivazioni occorrerà attendere un po'.
Raniero Busco dovrà risarcire con una provvisionale immediatamente esecutiva (che non attenderà quindi gli esiti dei successivi gradi di giudizio) 100mila euro a Paola Cesaroni, 50mila alla mamma di Simonetta, quindi dovrà farsi carico delle spese legali di parte civile per un totale di 28mila euro, infine 5mila per il Comune di Roma.

Si sta costituendo su Facebook un gruppo di sostegno economico alla famiglia Busco, che cerca sostenitori fra tutti coloro che sono convinti che questa sentenza è una prova iniqua della Giustizia Italiana.

Povera Simonetta! Morta ammazzata venti anni fa, rimasta senza pace e forse senza verità.

Gabriella Schiavon

Il Tempo: "La ghigliottina per Raniero Busco"

Nel processo per il delitto di via Poma serviva un colpevole. E l'ex di Simonetta Cesarone è il capro espiatorio.

Non c’è bisogno di essere un esperto detective o un insigne studioso di procedura penale per capire una cosa lampante: hanno condannato Raniero Busco al di qua di ogni ragionevole dubbio. Se si può condannare un uomo per una sommatoria di indizi a dir poco inconsistenti, che ho visto smontare per l’ennesima volta a «Porta a porta» dal legale di Busco, Paolo Loria, c’è del marcio in Italia. Non solo. Qui c’è di mezzo una dimensione statolatrica alquanto inquietante: è stata accolta l’aggravante della crudeltà del delitto, dunque Busco diventa oggetto di «attenzioni» particolari. Se passerà in giudicato la sentenza, gli sarà tolta la patria potestà; interdizione a vita dagli uffici pubblici, per citare due operazioni di massima attenzione nei confronti di quest’uomo.

Lo Stato avrà un colpevole su misura e sulla vita di Busco penderà la «summa injuria". Loria - ripeto -ha smontato la ben nota prova del Dna, a partire da un nodo inoppugnabile: non esiste un Dna "compatibile" con un altro. O è quello o non lo è. Ma riflettiamo su tre variabili in gioco: a) se è passata l’aggravante della crudeltà, perché non è stato comminato l’ergastolo a Busco? Evidentemente, la via mediana, già di per sé inaccettabile, poteva essere una decisione adatta a trovare un colpevole, potendo poi appellarsi a qualcosa di inaccettabile: cosa? b) Parole dell’avvocato Massimo Lauro, che assiste la sorella della vittima: «Almeno, in teoria adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». La semantica è fondamentale: esiste un colpevole «in teoria»? Allora si sapeva già fin dall’inizio che si sarebbe trattato di una condanna ad uso e consumo della famiglia di Simonetta e dei media. Inquietante.

Le parole sono importanti. Quando si dice così, si nega lo statuto della vita umana e della sua dignità: il capro espiatorio è pronto, di altro non vogliamo discorrere. Infatti, Lauro, a «Porta a porta», ha replicato a Loria: «Compatibilità o identità del Dna, si tratta di semantica. La sostanza è un’altra». No, qui la semantica c’entra, eccome. Con una semantica precisa si salva una vita, con lo scarabocchio ideologico, si azzera un mondo, fatto di relazioni e speranze. A nessuno interessa ciò? C) Andrea Magnanelli, il legale rappresentante del Comune di Roma: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Infatti, il nodo è proprio questo: chiudere ad ogni costo con il delitto di Simonetta Cesaroni. Chiudere. Ad ogni costo. È un metodo antico: hai bisogno di un colpevole, chiunque può diventarlo. Chiunque sia parte di quello scenario e di quell’ambiente.

Prima attacchi Busco sull’alibi, poi lo pieghi su indizi risibili, infine stravolgi perfino le pratiche documentali sul Dna, con esibizioni di «compatibilità» non accettabili in un dibattimento. Il combinato disposto della ricerca della rassicurazione della famiglia Cesaroni e della società - abbiamo il colpevole! - ha prodotto un monstrum penale e giuridico. La verità in assoluto è cosa che riguarda le facoltà divine. Solo Dio conosce la verità. Ma il dibattimento serve a far emergere quelle prove necessarie a produrre una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Che non è «la» verità. Certo è qualcosa che ti tiene al di qua della linea di Dio. Solo chi si sente Dio condanna con un carico di fragili indizi. «Fiat justitia, pereat mundus», ripeteva Kant in ogni occasione ai giustizialisti del suo tempo. Ce l’aveva con gli inventori della ghigliottina. Chiaro il messaggio? Così cadono le teste. Degli innocenti.

Raffaele Iannuzzi

giovedì 27 gennaio 2011

Il Tempo: "condannato e non colpevole"

Via Poma, 24 anni a Raniero Busco. Un processo con la prova dell’assurdo. Dopo vent’anni per i giudici è lui l’assassino della Cesaroni.

Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni fa la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che ieri, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione.

Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ieri ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione».

Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo.

Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta.

Maurizio Gallo

Carmelo Lavorino commenta la sentenza

CARMELO LAVORINO intervistato da RADIO CITTA' RADIO IES su youtube

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Raffaella Fanelli: "Mio marito è innocente e quella perizia è stata interpretata"

«Ora Simonetta può riposare in pace. E può riposare in pace anche Pietrino Vanacore… è stata fatta giustizia, no? Dopo 20 anni hanno trovato finalmente l’assassino, certo, bravi... bravi…». Roberta Milletarì, la moglie di Raniero Busco è arrabbiata, delusa, ferita. La incontriamo a poche ore dalla sentenza che ha condannato l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni a 24 anni di reclusione.

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mercoledì 26 gennaio 2011

Igor Patruno: "24 anni a Raniero Busco"

Quando, poco dopo le 16.00, il presidente della terza corte d’Assise di Roma, Evelina Canale, ha letto la sentenza emessa nei confronti di Raniero Busco, accusato di aver ucciso il 7 agosto 1990 la sua fidanzata Simonetta Cesaroni, io ero tra i colleghi giornalisti che da quasi un anno stanno seguendo il processo.
Quello che è accaduto subito dopo la condanna a 24 anni è difficile da sintetizzare in poche battute. L’imputato è stato colto da malore e accompagnato nel bar dell’aula bunker di Rebibbia dal fratello e dalla moglie, l’unico posto dove potersi sedere senza subire l’assalto dei cronisti; gli amici della famiglia Busco presenti tra il pubblico si sono messi ad esternare un dolore sordo gridando sommessamente; i giornalisti hanno circondato letteralmente sia l’avvocato Paolo Loria, patrocinante dell’imputato, sia l’avvocato Lucio Molinaro, rappresentante della madre di Simonetta; fotografi e video operatori si sono precipitati davanti l’accesso al bar sperando di poter cogliere pezzetti di dolore per il telegiornale della sera. Scene già viste altrove. Ma ogni volta scene laceranti per chi le osserva in disparte, senza lasciarsi trascinare nel gorgo della notizia da confezionare inglobando insieme malessere e soddisfazione, disperazione e voglia di giustizia.
Tutte le sentenze devono essere rispettate. Lo richiede il principio fondamentale su cui si basa la convivenza civile. Ma la colpevolezza definitiva può essere acclarata e sostenuta soltanto dopo il terzo grado di giudizio. Si tratta di una prerogativa che tutela qualsiasi cittadino di fronte alla comunità. Detto questo però, devo confessare che la sentenza di condanna non mi ha convinto per niente. D’altra parte nemmeno la giuria popolare deve essersi convinta completamente, altrimenti non avrebbe dato le attenuanti generiche. Di fronte ad un omicidio come quello di Simonetta Cesaroni, di fronte ad un imputato finito sotto processo venti anni dopo i fatti, non avrebbero dovuto esserci mezze misure: o l’ergastolo, o l’assoluzione. Tutto il resto appare non adeguato!
L’ultima udienza del processo era iniziata poco dopo le 9.30 con le repliche del pubblico ministero, delle parti civili e della difesa. Nell'aula bunker c’erano sin dalle 8.30 decine di cronisti, di fotografi, di operatori. Ognuno per fare al meglio il suo lavoro. Ma quando stai vicinissimo all'oggetto delle riprese - come è capitato a me - ed hai modo di vedere come ogni scatto, ogni accendersi di lucetta rossa indicante videocamere in funzione provoca un sussulto, un incupimento del volto, uno smarrimento, allora è diverso. Allora capisci che vuol dire "violenza mediatica". Prima dell’inizio parlo con i colleghi, sono divisi tra quelli che "sperano" in una assoluzione, ma temono una condanna, tra quelli che sono certi della condanna e quelli che sono convinti dell'assoluzione. Gli ultimi sono pochissimi. Quando ci si avvicina ad un bivio inevitabile, ovvero al momento della sentenza, chiunque avverte l'incertezza che pesa su ciò che accadrà.
Poi è entrata la corte. Tutti in piedi e l’udienza ha avuto inizio.
Il PM ha svolto la sua replica con il sottofondo continuo delle “mitragliate” degli apparecchi fotografici.

Ilaria Calò è meticolosa e puntigliosa. Mette poca enfasi nel suo modo di esporre i ragionamenti, ma non concede nulla alla difesa. “Ha detto l’avvocato Loria che il tassello della porta sarebbe stato conservato male, che sarebbe rimasto a lungo negli scantinati della Questura Centrale. Non è vero! Il tassello è rimasto conservato presso l'istituto di Medicina Legale. Analogamente la difesa ha messo in dubbio l’attendibilità delle tracce biologiche rinvenute sul corpetto e sul reggiseno. Non è vero! I reperti sono stati conservati correttamente. Prima essiccati al sole e poi riposti in una busta, quindi analizzati per la prima volta nel 2007 dal Ris di Parma. La difesa ha parlato di reperti inquinati a causa della lunga permanenza nella stessa busta. I periti del pubblico ministero hanno dimostrato che il DNA non può migrare, quindi non ci può essere stata nessuna contaminazione. Ma l’aspetto più importante che la difesa non ha sottolineato è l’assenza di tracce biologiche di terzi".
“Ha detto la difesa – ha continuato la Calò – che solo tre delle diciannove tracce rinvenute sul corpetto sono riferibili con certezza all’imputato. Ebbene i periti del pubblico ministero non hanno mai parlato di 19 tracce, ma hanno spiegato di aver effettuato 19 prelievi... le tracce non sono state contate..."

Poi il PM ritorna sulla compatibilità "morso" - "dentatura". Ovviamente senza mettere minimamente in discussione che le discontinuazioni presenti sul capezzolo sinistro di Simonetta Cesaroni siano la conseguenza di un morso. La difesa non aveva mancato di chiedersi se potessero essere state causate da un altro tipo di azione. Ad esempio un “pizzicotto”. Ilaria Calò sembra non dare alcun peso ai dubbi che pure Carella Prada, il medico legale, aveva espresso nel passato e prende in considerazione soltanto la relazione di Carella Prada e di altri periti stilata diciannove anni dopo l’omicidio. Il PM definisce le controdeduzioni della difesa “elementi fuorvianti” e punta tutta la ricostruzione sulla contestualitàdegli eventi, morso compreso, che definisce una "certezza".
Dice: "Tutte le lesioni sono state prodotte in un breve lasso di tempo”. La lesione sul seno reca una crosticina sieroematica che dimostra la contestualità del morso all’omicidio. Ovvero l'inizio della fase di cicatrizzazione sarebbe iniziato "in limite vitae". Il ragionamento del PM è stato molto lineare. “La lesione da taglio sulla clavicola presenta la medesima crosticina sieroematica e poiché non vi è alcun dubbio tra la contemporaneità del taglio sulla spalla con le ferite inferte con il “tagliacarte”, allora anche il morso, con la medesima crosticina della lesione, non può che essere contestuale".
"L'imputato ha sempre – ha continuato la Calò – ha sempre negato di aver dato un morso a Simonetta... E' pacifico che non vi sono stati altri approcci sessuali dopo il sabato 4 agosto. Il lunedì i due si sono incontrati ma non hanno avuto alcun rapporto sessuale. Quindi il morso non può essere stato dato prima di quel pomeriggio..."
Poi passa ad analizzare uno dei passaggi più delicati di tutto il processo. Ammette che il prelievo sulla porta era stato analizzato e repertato come gruppo A (Raniero Busco è di gruppo 0). Però precisa che quel prelievo era stato effettuato con una procedura che oggi viene considerata sbagliata e non sarebbe mai stata messa in pratica. Infatti, utilizzando una garza sterile era stato raccolto sia il materiale ematico sulla porta che sulla maniglia. L'errore è consistito nel mischiare il materiale. Infatti come è intuibile la maniglia è un luogo altamente inquinato in quanto può essere stata utilizzata da svariati soggetti estranei all’omicidio per accedere nella stanza. Quindi a detta del PM quel prelievo è privo di significato...
Nella parte finale la Calò ritorna sull'assioma fondamentale utilizzato dall'accusa. Ovvero: "Se l'unico DNA rinvenuto sulla scena del crimine è quello di Busco, se nessun’altra traccia biologica riferibile a terzi (ovvero ad un soggetto diverso dalla vittima e dall’imputato) è stata repertata sulla scena del crimine, allora vuol dire che quel giorno lui è stato là, quindi Raniero Busco è il colpevole”.
E la giuria popolare ha creduto che possa essere andata proprio così!

Igor Patruno
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venerdì 21 gennaio 2011

Il Tempo: "Né prove né movente Assolvete Raniero Busco"

Via Poma: la difesa dell'ex fidanzato di Simonetta tenta di demolire punto per punto il castello accusatorio.

Busco è «l'imputato residuale». In un processo per esclusione è rimasto l'unico, possibile colpevole. «Non è stato A, non è stato B né C e, allora, non può essere che D».
Lo fece capire anche il pm Roberto Cavallone, titolare della nuova fase dell'inchiesta sul delitto di via Poma, parlando a un giornalista, quando disse: «Abbiamo bussato a tante porte, se ne è aperta solo una».
Ma così «si capovolge la logica investigativa. La regola, infatti, è che si fanno le indagini, si verificano gli indizi, si cercano le fonti di prova e si individua il probabile colpevole. Qui, invece, ci si convince di aver trovato il colpevole e poi si vanno a cercare le prove». È un attacco diretto alla tesi del pm, un affondo alle pietre angolari del castello accusatorio quello che l'avvocato Paolo Loria, legale di Raniero Busco, sferra nella penultima udienza del processo cominciato a febbraio nell'aula-bunker di Rebibbia. Il penalista esamina uno per uno gli elementi citati dal pubblico ministero Ilaria Calò. E li confuta. Parte dai metodi d'indagine, passa per l'orario della morte, attraversa lo spinoso campo delle perizie tecniche e finisce con l'assenza di un movente. Per dare un volto all'assassino di Simonetta, spiega Loria, si è indagato sul portiere Pietrino Vanacore, sul nipote di un inquilino, Federico Valle, su una persona che portava fiori sulla tomba della vittima, su un uomo detenuto in Croazia e si è seguita la pista (poi rivelatasi inesistente) del Videotel. «Ci sono molte analogie tra il caso Valle e il caso Busco - sottolinea il legale - Anche per Valle il movente era evanescente. Il ragazzo avrebbe provato rancore per una presunta giovane amante del padre che lui, chissà perché, aveva individuato in Simonetta. Una prova scientifica, la cicatrice sul braccio, che per la difesa era una smagliatura sulla pelle», diventa segno di una ferita causa delle tracce di sangue sulla porta della stanza del delitto. Infine, «la traccia, sempre sulla porta, individuata come appartenente al Valle in quanto gruppo «A Dq Alfa 1.1». La stessa traccia di sangue che oggi serve per incriminare Busco».

E veniamo all'ora della morte. L'ultima telefonata fra Berrettini e Simonetta è delle 17.45 e dura una decina di minuti. Quindi arriviamo alle 18. Ma il medico legale Carella Prada, in base ai residui di cibo trovati nello stomaco della vittima, anticipa l'orario fra le 16 e le 17. A questo punto, delle due l'una: o Berrettini ha mentito (e perché?), oppure c'era un'altra donna che le ha risposto in via Poma. Ma questo esclude Busco, poiché certo non avrebbe portato con sé una donna dovendo incontrare la fidanzata. Poi ci sono le contraddizioni di Salvatore Volponi, datore di lavoro della Cesaroni. Anche in questo caso, le possibilità sono due: Volponi sapeva che cosa era accaduto o sapeva che Simonetta andava consapevolmente ad un incontro che poteva finire tragicamente. Un altro elemento dell'accusa è il «carattere violento» dell'imputato. Loria analizza le dichiarazioni dei testi, i «precedenti» di Busco (lite con la cognata e lite di condominio), descritto come un «soggetto assolutamente tranquillo, pacifico, con il quale non si è mai avuta una discussione». E ancora: Busco è un bugiardo? Ha mentito sull'alibi? Ha cercato di costruirsene uno, fallendo nel tentativo? «Lo scaltro Busco, il colpevole, colui che mente, depista, manipola gli amici fino a far loro dimenticare la povera vittima, loro amica, pur di favorirlo, alla prima domanda sull'alibi, la prima che conosciamo, dice di essere stato con Palombi. Piuttosto sciocco!». D'altra parte, l'alibi non risulta dai verbali del '90 e, quando glielo chiedono nel 2004, Busco non è categorico e dice «se non ricordo male, verso le 16 ero con Palombi...».

Anche i presunti depistaggi sono un'«ipotesi un po' fuori le righe». Per quanto riguarda il «rapporto burrascoso» tra i due fidanzati, tutti i testi, anche l'amica del cuore della vittima, Donatella Villani, parlano di una «relazione normale». Tutti «soggiogati dalla personalità di Busco?», si chiede retoricamente l'avvocato. Loria passa al setaccio pure le prove scientifiche. Il materiale genetico sul corpetto e sul reggiseno di Simonetta (solo tre tracce su 19 attribuite all'imputato) non è certo che sia saliva e gli indumenti sono stati conservati per tre lustri nella stessa busta aperta, a contatto fra loro. Non è improbabile, poi, che quel materiale sia stato «depositato» da Busco la sera precedente al delitto, quando la coppia si è incontrata e che la biancheria non sia stata lavata. E il sangue sulla porta dell'ufficio Aiag? I consulenti, ricorda Loria, affermano nelle conclusioni che non si può «confermare né scartare il profilo genetico della persona sospetta, perché l'analisi è considerata non concludente». Sul presunto morso al capezzolo sinistro della vittima, infine, il penalista ricorda come il medico-legale Carella Prada scrisse nell'autopsia: «Sembra di poter denunciare l'azione di un morso». E vent'anni dopo, in udienza, ribadì: «Non mi sono mai sognato di dire che fosse un morso».

In più, basandosi sulle misurazioni, non è possibile che a procurare quella ferita siano stati i denti dell'imputato. L'arringa è agli sgoccioli. Loria affronta il tema del movente, che l'accusa non ha spiegato bene - dice - e che è fondato anch'esso su un'ipotesi residuale. In realtà, Busco non aveva motivo di attraversare mezza città per chiarirsi, fare sesso o uccidere Simonetta in un ufficio di cui molti avevano la chiave. Lei, inoltre, non poteva pensare di essere incinta per un piccolo ritardo e, quindi, questo non poteva essere motivo di lite. E, per concludere, se era abitualmente così violento, come sostiene l'accusa, per quale motivo Simonetta si arrabbia, si ribella e afferra il tagliacarte quando lui la morde al seno? «Busco è nelle vostre mani - conclude Loria rivolto ai giudici - Dategli dignità e restituitelo alla famiglia. Perché è innocente». Mercoledì il verdetto.

Maurizio Gallo

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venerdì 14 gennaio 2011

Raffaella Fanelli per Panorama: "Busco: non ho ucciso io Simonetta Cesaroni"

«Morire… ecco come mi sento. Mi sento morire».Raniero Busco non dice altro. La gambe tremano come la sua voce, ha 39 di febbre, per questo in aula non si è presentato. Non ha sentito quella richiesta arrivata dal pm Ilaria Calò al termine della sua lunga requisitoria. Per il rappresentante della pubblica accusa non ci sono dubbi: sarebbe stato Raniero Busco, il 7 agosto 1990, ad uccidere con 29 colpi di tagliacarte Simonetta Cesaroninegli uffici romani degli Ostelli della gioventù. E per questo ha chiesto una condanna al carcere a vita. «Nessun dubbio sulla responsabilità di Busco – ha detto il pm Ilaria Calò – nessun dubbio sull’esistenza dell’aggravante della crudeltà». Ergastolo. «Lo sapevo, l’avvocato Loria mi aveva preparato, mi aveva detto che sarebbe stata questa l’unica richiesta possibile… eppure mi sento impazzire, tutto è un incubo. Tutto». La voce soffocata dalle lacrime, dalla disperazione. «Vorrei che riuscissero a leggere nel mio cuore, nella mia mente, vorrei che riuscissero a vedere la mia innocenza, a capire chi sono. Tutto questo è una pazzia». La richiesta del carcere a vita per Raniero Busco, per quanto scontata, non appare certo la soluzione di questo orribile delitto, la sensazione è che ci sia ancora qualcosa rimasto in sospeso.

«Come si fa a chiedere l’ergastolo senza un movente?» Roberta Milletarì, la moglie di Raniero, pretende di capire. «Ho seguito tutte le udienze, ho ascoltato in silenzio e scritto sul mio diario tutte le domande che avrei voluto fare e che sono ancora in queste pagine, senza una risposta». Sono gli appunti di una donna che ha visto la sua vita fatta a pezzi e il suo uomo cadere lentamente «è fragile come non lo è mai stato. Non dorme, non sorride più. Per questo nonostante l’influenza e la febbre non ha chiesto la sospensione dell’udienza. Perché vuole che tutto finisca al più presto. Perché vuole tornare quello di prima. Vogliamo che ci venga restituita la nostra vita, la nostra quotidianità. Ma entrambi sappiamo che non sarà più come prima. Quello che stiamo subendo è impossibile da capire e sarà difficile da dimenticare».

Raniero Busco fu il primo ad essere sospettato vent’anni fa e venne scagionato per un alibi non trascritto ma che allora venne giudicato inattaccabile. Che fine hanno fatto le indagini condotte negli ultimi vent’anni? Dimenticate, come quella relazione di servizio che descrisse la scena del crimine. La camera in cui si verificò l’omicidio, stando a quelle pagine redatte la notte del 7 agosto del 1990, venne ripulita accuratamente. Almeno tre litri di sangue, disse l’autopsia, furono raccolti ed eliminati. Sparirono anche i vestiti di Simonetta Cesaroni. Il motivo, spiegarono gli investigatori, poteva essere uno solo: l’assassino aveva intenzione di far sparire il cadavere dall’ufficio degli Ostelli della Gioventù. Voleva allontanare le indagini e i sospetti da via Poma. Una preoccupazione che poteva avere solo chi abitava o lavorava in quel palazzo. Un condominio-alveare, a pochi passi da piazza Mazzini, con tre cortili interni, decine di garage e sottoscala, e un centinaio di appartamenti. Un labirinto dove l’assassino ha saputo muoversi senza farsi notare. Eppure contro Raniero Busco ci sono le prove scientifiche. Quelle sventolate da pm e periti della procura. «C’è una traccia biologica di Raniero Busco ritrovata sugli indumenti di Simonetta Cesaroni», ricorda Paolo Loria, legale dell’imputato, «ma i due erano fidanzati, e si erano visti anche la sera prima». Ci sarebbe il segno di un morso sul seno sinistro della vittima, lasciato in concomitanza con l’omicidio: «Intanto i nostri periti hanno dimostrato che potrebbe non trattarsi di un morso». Per questo la difesa di Raniero Busco ha chiesto e ottenuto di far acquisire agli atti il testo di un’intervista rilasciata nel novembre del 2004 da Ozrem Carella Prada, il medico legale che nel 1990 eseguì l’autopsia sul corpo di Simonetta, e oggi consulente dell’accusa.

Nell’articolo, alla domanda «Si è parlato anche di un morso sul seno sinistro di Simonetta», Carella Prada risponde: «fu una mia interpretazione, nulla di certo, in realtà potrebbe essersi trattato solo di un pizzico dato con le mani anche perché si sarebbero potuti eseguire i rilievi morfologici per identificare la dentatura di chi lo aveva lasciato ma ciò non fu possibile». Dimenticate anche queste dichiarazioni, come tutto il resto. Come le accuse mosse per vent’anni a un portiere che avrebbe scelto di suicidarsi tre giorni prima di testimoniare. «Nessuno si chiede, continua Loria, cosa ci faceva Pietrino Vanacore alle 8.30, all’ora di cena, al terzo piano di via Poma. Con un palazzo vuoto e un solo inquilino, Cesare Valle, al quinto piano. Perché passa davanti a quella porta aperta, perché entra in quell’appartamento, perché fa quelle telefonate… Dall’ascensore quella porta non è visibile, né aperta né chiusa, quindi Vanacore ci va a piedi, nonostante il mal di schiena, sotto terapia per un’artrosi… E fa tre piani a piedi per vedere che cosa? Fa la ronda sulle scale?». Nella sua arringa difensiva Paolo Loria darà le sue risposte a queste domande. Ma i dubbi resteranno, comunque. A partire dal movente.
Raffaella Fanelli
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venerdì 7 gennaio 2011

Francesco Bruno: "Busco è innocente"

Via Poma, il killer in ufficio

Per il pm Ilaria Calò, che davanti alla terza Corte di assise di Roma ha chiesto l'ergastolo per Raniero Busco, l'assassino di Simonetta Cesaroni ha finalmente un volto e un nome. Si potrebbe così finalmente mettere la parola fine al mistero di via Poma, che dal 1990 sembra destinato a non trovare soluzione.
Francesco Bruno, titolare della cattedra di Scienze psichiatriche a La Sapienza, non è sorpreso da questa rischiesta, ma non crede che la pista sia quella giusta. «Vista la ricostruzione del pm, chiedere l'ergastolo era doveroso, ma non ci sono prove per sostenere un'accusa che richiede necessariamente il massimo dela pena».
«BUSCO NON C'ENTRA». Secondo Bruno l'ex fidanzato è però innocente: «La mia ricostruzione non prevede proprio la figura di Busco. Detto questo voglio analizzare in base all'oggettività quanto è emerso nel processo e ciò mi convince ancora di più che Busco non c'entri nulla» è la conclusione del criminologo, ritenuto tra i più quotati in ambito nazionale nello scavare nella mente di assassini e serial killer e nell'analizzare i delitti. «Non c'è prova che il ragazzo sia stato in ufficio quella sera. È emerso solo l'indizio che Raniero amoreggiava con Simonetta, ma questo si sapeva già. Ossia che avevano rapporti erotici, tutto normale, tra fidanzati... Che poi lo facessero in spiaggia, in casa o altrove...non ha importanza». Del resto lo stesso Busco ha sempre sostenuto con forza la sua innocenza.

Bruno: «Non ci sono prove, il processo è stato strumentale»

Il pm ritiene che Busco abbia avuto un approccio con Simonetta negli uffici dell'Aiag e che la situazione sia precipitata per un litigio. Ma questa tesi non convince il criminologo. «Non c'è proprio prova che Busco sia stato nell'ufficio. E dirò di più, manca anche una motivazione omicidiaria. Non è Busco l'omicida. Il principale testimone è stato ucciso anche se questa verità verrà fuori tra qualche anno proprio per avere la certezza che tutto rimansse in silenzio».

ASSASSINO IN LIBERTÀ. L'assassino, secondo Bruno, sarebbe quindi ancora vivo e forte, e avrebbe anche eliminato la testimonianza di Vanacore, uccidendolo: «Non ho mai creduto al suicidio del portiere. L'omicida va cercato in campo Aiag. Chi ha ucciso non voleva che il cadavere fosse trovato là. Bisogna guardare la realtà, senza fare troppi voli... La stanza era stata ripulita alla perfezione. Ecco perché la testimonianza di Vanacore non si doveva fare. Una morte che pesa nel processo e che peserà nella sentenza».
Insomma, per il criminologo il caso Busco sarebbe assimilabile a quello di Salvatore Volponi, l'ex datore di Simonetta Cesaroni. «Volponi è stato solo un uomo che si è fatto travolgere da questa vicenda, non c'entra nulla neanche lui».

PROCESSO DA RIAPRIRE. Un processo, quello di via Poma, che Bruno non esita a definire, quasi provocatoriamente, «strumentale e utile», perché è servito «a riaprire una vecchia vicenda in un'aula di giustizia seria. A prescindere per Busco e, purtroppo, peggio ancora per il portiere, è stato utile per fare ulteriore chiarezza anche verso il grande pubblico». La caccia all'assasino deve ancora continuare? Secondo il criminologo non ci sono dubbi: «Sì, anche se è difficile dimostrarlo, non ci sono le prove, ma il nome dell'assassino è là, nelle carte».

Adelaide Pierucci per Lettera43.it
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sabato 1 gennaio 2011

La scala di Pretty in odontoiatria forense


<. Le caratteristiche dentali e il tipo di segni che Busco avrebbe lasciato nell’atto di addentare per mordere sono stati analizzati secondo le procedure suggerite dall’American Board of Forensic Odontology, l’organo che certifica gli odontoiatri forensi negli Usa. Mi preme evidenziare come i colleghi Pretty e Bowers hanno dimostrato di recente che l’analisi di un morso umano può portare a pareri tecnici discordanti quando il grado di soggettività del perito sia preponderante e i dati a disposizione ricavati da rilievi tecnici siano insufficienti per quantità o qualità.>

La scala di Pretty è uno strumento finalizzato a definire la significatività di una reale o presunta lesione da morso.

Tale scala è suddivisa in 4 punti che mostrano altrettanti segni derivati da un morso.

Nelle foto 1 e 2 si ha una bassa significatività forense in quanto non è pesente la seconda arcata dentale e le ferite offrono elementi di per sè insufficenti per poter affermare con sicurezza la natura di questa lesione.

Nelle foto 3 e 4 si ha una alta significatività forense per la presenza di entrambe i segni delle arcate, visibili e riconoscibili anche ad occhi non esperti ( si pensi al segno "dell'orologio" che si faceva da bambini).

Il dott. Pretty, interpellato dal dott. Nuzzolese Emilio con il quale collabora ad alcuni lavori, ha visto le foto del seno di Simonetta Cesaroni e ha definito i 2 segni lasciati sul capezzolo della ragazza di bassa significatività, attribuendo la lesione al punto 2 della scala da lui stesso ideata e utilizzata in odontoiatria forense per la classificazione di lesioni da morso. Come ribadito dallo stesso dott. Nuzzolese nel corso della XV udienza del processo contro Raniero Busco per il delitto di via Poma, questi dati incerti e ipotizzabili creano delle false diagnosi essendo suscettibili a considerazioni, interpretazioni e conclusioni soggettive e non oggettive.

Si pensi solo che il Pm Roberto Cavallone, nel dare il mandato ai periti dell'accusa di effettuare una perizia in merito alla valutazione di compatibilità riguardo la lesione con la dentatura di Raniero, disse di "mostrare una particolare attenzione all'arcata inferiore di Busco". Così è stato fatto. E così si è conclusa anche l'attribuzione di compatibilità tra la ferita e la dentatura dell'imputato."Al di là di ogni ragionevole dubbio"...