giovedì 22 novembre 2012

La sentenza di appello di via Poma

La sentenza di via Poma - Testo

Sono lieto di pubblicare il testo della sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Roma che ha assolto Raniero Busco dall'accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni.

La sentenza è magistrale per il modo con cui il giudice estensore dr. De Cataldo, ha affrontato il caso con metodo scientifico ed è da manuale la parte in cui egli spiega come il giudice si deve porre di fronte alla prova scientifica che sta soppiantando lo sciagurato sistema della prova indiziaria.

Una decisione che dovrebbe fare storia nel nostro sistema giudiziario perché è ora di finirla con la cialtroneria e trombonaggine di troppi periti pronti anche a fare carte false per accontentare chi li paga e la malafede di investigatori che lottano non per la verità per solo per salvare la faccia

Edoardo Mori

giovedì 18 ottobre 2012

Accanimento ingiustificato e spreco di soldi pubblici.

Si poteva finire qui.
Si poteva accogliere la sensata sentenza d'Appello e chiudere i conti con un passato confuso e oscuro.
Si poteva riconoscere che ci si può sbagliare e che non era il caso di insistere specando ulteriori risorse economiche pubbliche. In un momento veramente triste della nostra storia, dove molte persone sono costrette a rovistare nella spazzatura per tirare avanti e molte altre presto seguiranno lo stesso destino.

Ma invece si è deciso di insistere, per salvare la faccia, per giustificare quel passato investigativo lungo e molto molto costoso.

Così non mollano e ricorrono in Cassazione.

Per chi? Non certo per la giustizia, visto che di giustizia non si tratta.

Per noi cittadini? Non credo proprio visto che la quasi totalità di persone, giornalisti, criminologi, avvocati si era chiaramente espressa a favore dell'innocenza di Raniero Busco.

Per Simonetta? Nemmeno per lei o per suo padre, che avrebbero sicuramente voluto vedere in galera il vero responsabile della sua crudele morte.

Allora per chi?

Eppure una Perizia super-partes si era espressa con toni fortemente chiari e convinti.
Super-partes significa, lo ricordiamo, disposta da un giudice con periti da lui nominati  e non al servizio pregiudiziale dell'accusa o della difesa.

E quindi eccoci, siamo di nuovo qui a lottare, informare, urlare lo sdegno verso una vicenda giudiziaria assurda, ingiusta, incredibile.

Gabriella Schiavon

Leggere a proposito l'ottimo articolo de 'La Repubblica':
 Quegli errori giudiziari che costano come una manovra

martedì 24 luglio 2012

Le pulizie

E’ stato, quello delle pulizie, un argomento molto discusso dagli appassionati del caso e, naturalmente, anche dagli inquirenti.
E’ tuttavia evidente che nel caso degli inquirenti, l’interpretazione di quelle pulizie ha sofferto pesantemente del pregiudizio formatosi nelle indagini.

Nel 1990, il convincimento che l’assassino fosse Vanacore indusse a ritenere, almeno nel primo mese di indagini, che le pulizie fossero funzionali al proposito di occultare il cadavere.

Pensare il contrario, e cioè che le pulizie avessero lo scopo di cancellare le tracce di sangue lasciate dall’assassino, stonava con il fatto che il portiere non presentava segni visibili di ferite alle mani o alle braccia (è immaginabile che il suo corpo fu ispezionato).

Quando invece nel 2007 comincia a delinearsi l’ipotesi Busco, l’interpretazione delle pulizie muta radicalmente: non più il preludio allo spostamento del cadavere (incompatibile con i propositi di un esterno) ma la mera necessità di eliminare le tracce di una ferita subita, e poiché al nuovo sospetto non si può concedere il tempo per lavori troppo lunghi, pure si ridimensiona l’entità del sangue che fluisce all’esterno (emotorace). Indagati diversi, lettura dei fatti diversa.

Inutile dire che il postulato andrebbe invertito.

Tuttavia non è detto che anche spogliandoci di ogni idea preconcetta, sia possibile dirimere la disputa fra chi sostiene che le pulizie ebbero uno scopo piuttosto che un altro.
L’ipotesi del trasferimento del cadavere può certamente suggerire che si cominci a togliere una parte del sangue, ma non si capisce per quale ragione dovesse essere necessario far sparire anzitutto una parte dei vestiti, lasciando altri fagotti per un tornata successiva (scarpe, ombrellino e borsa, oltre al corpo).

D’altro canto, se è vero che la priorità dell’assassino era far sparire le macchie del proprio sangue, e quindi anche gli indumenti usati per assorbire tali macchie, come ha fatto l’assassino a scordarsi le vistose tracce di sangue sulla porta?

In entrambe le ipotesi le incongruenze possono essere corrette attraverso varie congetture (ad esempio, poiché le tracce di sangue sulla porta più vistose erano sul lato interno, potevano essere rimaste nascoste dopo l’apertura della porta), ma ciò non fa altro che confermare come sia difficile ricavare dalla scena del crimine una interpretazione precisa e univoca.

A meno che, nel leggere la scena del crimine, non sia sfuggito qualcosa.
Forse, come disse la De Luca a Volponi, bisogna guardare un po’ meglio.

Proviamo quindi a riguardare quelle immagini del corpo di Simonetta e del pavimento circostante, seppur nei limiti di immagini sgranate tratte da filmati televisivi. Intanto si scorge subito che le pulizie non riguardano l’immediato perimetro del corpo inerme della vittima. Le due pozze di sangue visibili all’altezza del bacino e della spalla, prodotte dalle ferite al pube, al torace e al collo, non sono contenute da segni di tamponatura con stracci o altro.

Lungo tutto il tronco e gli arti, non si apprezza alcun segno del passaggio di uno straccio, tanto che in alcuni punti sono visibili alcune macchioline di sangue completamente integre.
Ma allora dov’è che si è pulito?
L’agente della scientifica Ciro Solimene lo spiega in aula:

“poi sul pavimento, andando verso l'ingresso sono delle lievissime, lievissime diciamo tracce di sostanza presumibilmente ematica, ma proprio lievissima, proprio una velatura proprio ecco.” 

Queste velature sono visibili anche nelle fotografie e cominciano ad una certa distanza dal corpo, in direzione dell’ingresso.
Perché si è pulito in quel punto e non altrove?
Perché c’era del sangue in quella zona?

L’esame delle fotografie mostra anche un’altra cosa.
Mentre la scrivania di Carboni, pur ingombra di oggetti e di fascicoli, appare sostanzialmente “a riposo” nel senso che non mostra segni di un uso recente, e ciò in sintonia con l’assenza del responsabile fin dal venerdì precedente, sul tavolo posto subito a destra dell’ingresso, sembra scorgersi una qualche attività.

Si nota infatti un raccoglitore (di quelli con gli anelli) aperto come fosse stato usato da poco per ricercare delle pratiche, e poco a fianco, a bordo del lato lungo del tavolo, una pila di fogli in posizione adatta alla lettura. In breve una disposizione che suggerisce una attività interrotta (forse di due persone, una seduta che legge e l’altra in piedi che maneggia il raccoglitore) che non dovrebbe confacersi ad un ufficio il cui titolare è andato in ferie da alcuni giorni. In ogni caso, anche volendo trascurare il lieve indizio descritto, restano quelle tracce di pulizia a suggerire la possibilità che l’aggressione possa essere avvenuta a ridosso della porta d’ingresso e non in fondo alla stanza.

Senonchè si presenta una forte obiezione a questa tesi: con assoluta certezza Simonetta fu accoltellata nella zona anteriore della stanza, a ridosso della scrivania di Carboni.
A provarlo le pozze di sangue perfettamente adiacenti alle colature provenienti dal pube e dalla zona alta del torace. In altre parole, le stilettate furono inferte nell’esatto punto in cui il corpo è stato rinvenuto.
Allora come si spiegano le velature di sangue che precedono il corpo in direzione della porta?

Soltanto pensando ad altre ferite precedentemente inflitte a Simonetta o subite dall’assassino e che causano la fuoriuscita di sangue.
Sangue che deve essere e che verrà rimosso.

Accadimenti che suggeriscono una buona spiegazione per quelle pulizie cosiddette “parziali”, e che invece meglio sarebbe chiamare “circoscritte”.

Intorno a questa sequenza “in due tempi” dell’aggressione, si dipana forse la spiegazione di altri misteri. Se, infatti, fu l’assassino il primo a ferirsi e perdere sangue, è presumibile che l’arma d’offesa fosse in mano alla vittima, come del resto ha ipotizzato il PM nel processo di 1^ grado (Carella, invece, sosteneva essere l’assassino ad impugnare il tagliacarte per indurre la vittima a spogliarsi). Quindi Simonetta che per dissuadere l’uomo dai suoi propositi, lo minaccia con un tagliacarte (trovato casualmente su un tavolo o una scrivania) e infine, messa alle strette e senza via di fuga (l’uomo si trova fra lei e la porta), lo colpisce ferendolo.

La vista del sangue e forse il dolore stesso, pare una causa molto più scatenante una reazione feroce, di quanto possa esserlo il semplice diniego ad un approccio sessuale.

Il sangue che chiama altro sangue.
Una reazione subitanea e violentissima, usando il braccio e la mano sfuggite alla ferita, che colpisce alla tempia destra Simonetta, che cade in una zona fra la porta d’ingresso e la scrivania.
Forse è qui che l’assassino sale a cavalcioni della vittima, le stringe il collo (ecchimosi), le fa sbattere la testa sul pavimento fino ad ucciderla.
Forse è in questa azione che il fermaglio si rompe in tre pezzi (questa circostanza del fermacapelli è forse l’indizio più evidente che la vittima è stata spogliata dopo essere uccisa, essendo improbabile che dopo essersi liberata di pantaloni e mutandine, ancora conservasse il mollettone per capelli).

Sul pavimento il corpo esamine di Simonetta, e il sangue dell’assassino che ancora sgorga dalla ferita. Per un attimo l’assassino deve pensare a se stesso, deve tamponare la ferita, e forse fa uso del giubbino di Simonetta, quello con le righine blu.
Non è dato sapere, e non serve sapere, se in seguito l’assassino sia prima corso in bagno a pulirsi e fasciarsi la ferita, a telefonare o altro ancora, o abbia da subito deciso di infierire ulteriormente sul corpo della vittima.

Certo è che quando decide di farlo, Simonetta deve già essere morta, altrimenti non si spiegherebbe che le suppellettili vicino al corpo (armadio sedie e scrivania) non fossero imbrattate di sangue come accadrebbe se nelle vicinanze fosse trafitto un corpo ancora in vita e con pressione sanguigna normale.

La donna che ha mostrato disprezzo per le sue attenzioni e che, persino, ha osato trafiggere il suo corpo, merita il medesimo trattamento non una, non dieci, ma 29 volte tanto.
Con la stessa arma che la donna ha usato contro di lui e che ora giace in terra, a portata di mano. Nel compiere il massacro l’odio si tramuta in piacere e svela la natura malata dell’individuo.

Prima di agire, il corpo viene spostato, forse anche girato o ruotato. Trascinato per i piedi più vicino al muro, denudato quanto basta perchè lo strazio sia completo. Il sangue della vittima defluisce lentamente, ma di questo l’assassino non si cura. Deve pulire l’altro sangue, il suo.

Deve scomparire qualsiasi straccio o indumento entrato in contatto con quel sangue. Corpetto e reggiseno possono essere risparmiati. Ecco dunque che la scena del crimine sembra parlare in modo più chiaro.
L’assassino è un uomo a cui Simonetta non avrebbe mai concesso nulla.
Uno a cui decide, e questa la scelta fatale, di opporre persino un’arma, pur di non farsi toccare.

Se la dinamica è questa, e vi sono buoni elementi per pensarlo, è anche possibile che l’assassino, nel decidere di denudare il corpo di Simonetta, abbia anche voluto guastarne l’immagine, come a dire che lei si era offerta senza ritegno, e quindi andava punita.
In un certo senso, ci è riuscito.

 Bruno Arnolfo

mercoledì 6 giugno 2012

L'odio errante serpeggia su Facebook

C'è gente che pretende di farsi gioco delle regole di convivenza democratica, che fa l'apologia della giustizia fai da te, che propone di fucilare i giudici, che offende chi la pensa diversamente; ed è questo il fatto grave, a prescindere dall'aver insultato un uomo riconosciuto innocente, dobbiamo far sì che diventi una questione che riguarda tutta la gente per bene.







Igor Patruno

mercoledì 30 maggio 2012

Delitto di Via Poma - Un'altra botta alla giustizia

Questo processo aggiunge un ulteriore tassello probatorio al devastante quadro della situazione del processo penale in Italia, in mano ad ignoranti ed incapaci.

La storia è nota e non sto a ripeterla. Le prime indagini del 1990 non portavano a nessuno risultato ed è rimarchevole solo per capire la facilità con cui i PM mettono in carcere sospettati innocenti; uno finisce in carcere perché ha sui pantaloni macchie di sangue delle proprie emorroidi, un altro rischia di finirci per le accuse di un informatore mitomane.

Sulla base dei nuovi entusiasmi per la prova scientifica, dal 2004 entrano in scena il RIS di Parma con il loro dirigente. È ormai ampiamente dimostrato che i PM hanno una fiducia fideistica nei laboratori della polizia e dei carabinieri, anche se, in tutti i casi importanti, essi hanno dimostrato di non avere una adeguata preparazione scientifica e indipedenza dai PM..
Vengono riesaminati indumenti e macchie e i consulenti del PM trovano che su di un indumento vi sono tracce di DNA riferibili al fidanzato della vittima, Raniero Busco.
Su di un capezzolo della vittima erano state rivenute dal perito settore delle escoriazioni ed il PM nomina una squadra di periti i quali concludono, come si aspettava il PM, che le escoriazioni erano sicuramente dovute ad un morso e che i segni corrispondevano ai denti del fidanzato.

Non si riusciva però a individuare un movente e quindi l’accusa ne ipotizzava uno qualsiasi; come dire “se lui l’ha ammazzata, come io so per certo, un movente doveva avercelo per forza”!
Non si riusciva a far quadrare le particolarità del caso, indicanti piuttosto un omicidio da raptus ricollegabile ad un tentativo di violenza sessuale, che non un fidanzato … e quindi si ignora questo aspetto! Mentre la logica, fin da Sherlock Holmes, dice che quando si ricostruisce un quadro probatorio tutti i tasselli del puzzle, aventi un peso probatorio, devono combaciare, i PM italiani seguono la regola che i tasselli non combacianti con le loro modeste idee, vanno ignorati! Logica rudimentale di chi è ancora attaccato all’idea che il sospettato deve essere incarcerato e maltrattato sperando che confessi.

Sulla base di questi elementi si giungeva al processo di primo grado in cui, nonostante serie consulenze che confutavano quelle del PM, il fidanzato veniva condannato a 24 anni con la stessa “leggerezza dell’essere” con cui si distribuiscono bruscolini. La giustizia neppure si lasciava cogliere dal dubbio che le consulenze dell’accusa potessero essere di parte o sommarie. Non disponeva nessuna perizia non di parte, ma però perdeva giorni e giorni a sentire i testimoni su circostanze del tutto trascurabili e irrilevanti, percepite dieci anni prima!!

Ora, forse sfugge ai più che mentre il perito nominato dal giudice deve giurare di adempiere fedelmente al proprio compito, il consulente del PM o della difesa non giura un bel nulla e quindi può sparare tutte le fesserie che vuole per accontentare chi lo ha incaricato.

È quindi già una cosa assurda che il nostro sistema consenta al GIP di rinviare a giudizio un imputato solo sulla base di una consulenza del PM contestata dalla difesa, ma è cosa che grida vendetta vedere che un Collegio accetta supinamente la consulenza del PM: questa, se non accettata della difesa, non ha alcun valore probatorio, neppure se firmata da generali o professori, e ha il valore della carta straccia.

Si giungeva così al processo di appello in Corte d’Assise in cui un Collegio all’altezza dei suoi compiti e del suo stipendio, nominava doverosamente dei periti di ufficio; e non si rivolgeva ai soliti palloni che imperversano in TV, ma nominava quanto di meglio abbiano ora in Italia. Primo fra tutti il dr. Corrado Cipolla D’Abruzzo che di morti ammazzati ne ha sezionati a migliaia.

La perizia ha portato alla luce un quadro desolante circa la superficialità con cui sono stati svolti in passato gli accertamenti scientifici.
L’Autopsia:
- L’ora della morte è stata stabilita senza fare accertamenti sulla temperatura corporea (il perito però accertò che il cadavere era freddo!), sull’andamento della temperatura ambientale e relative conseguenze sulla rigidità cadaverica; ci si è basati praticamente sul contenuto gastrico senza sapere quando la vittima aveva mangiato e che cosa aveva mangiato; nessuna indagine né sul cibo ingerito né su eventuali sostanze tossiche o stupefacenti fu eseguito. Quindi il momento della morte venne fissato con una precisione non consentita dai fatti e indirizzò il controllo degli alibi in una direzione sbagliata.
- Il perito rilevò e fotografò una escoriazione sul capezzolo con crosticina siero- ematica. La presenza della crosticina poteva far supporre che l’escoriazione fosse precedente alle lesioni mortali. Purtroppo la crosticina non venne prelevata e non venne compiuto alcun esame per stabilire se essa era anteriore o contemporanea alla morte. Esame che sarebbe stato doveroso.

L’esame del DNA
- La grande scoperta dei periti del PM nel 2010 fu che sul corpetto e reggiseno della vittima vi era il DNA del fidanzato. Un perito competente, oppure non di parte, avrebbe anche scritto quali erano le problematiche connesse ad un accertamento sul DNA dopo dieci anni e sui pericoli di inquinamento dei capi di vestiario. Invece la consulenza non spiegò che tutti gli abiti della vittima erano stati gettati in un unico sacco e che quindi era impossibile dire da dove venissero le tracce di DNA del fidanzato, che certamente frequentava la casa e il letto della vittima. Eppure nel 2010 i problemi di inquinamento del DNA erano ben noti anche ai profani: persino io ne avevo scritto già nel 2009.
- I periti odierni hanno stabilito invece che macchie di sangue rinvenute in più punti della scena del delitto appartengono a un maschio sconosciuto, fatto sfuggito ai precedenti consulenti del PM. Tutto è possibile, anche che uno dei poliziotti intervenuti subito dopo l’omicidio avesse le emorroidi come uno dei primi sospettati, ma non è concepibile che si indaghi su una circostanza non decisiva (la presenza del fidanzato) e si trascurino delle macchie di sangue.

La perizia odontoiatrica
Il poderoso collegio di consulenti messo assieme dall’accusa, basandosi non su calchi, ma solo su foto elaborate al computer, ha raggiunto la certezza che l’escoriazione sul capezzolo era stata provocata da un morso e che il morso era sicuramente stato prodotto dai denti del fidanzato!
Orbene, i periti di ufficio hanno dimostrato:
- che non può esistere un morso che preme un capezzolo e che incide solo la parte superiore, a meno di ritenere che l’autore del morso avesse la mascella senza denti oppure che avesse i denti superiori come quelli di un criceto;
- che un morso in quella posizione avrebbe comportato per l’assassino una posizione da contorsionista;
- che chili di dottrina medico legale e persino testi ufficiali della giustizia degli Stati Uniti, affermano che è impossibile ricavare prove certe comparando i segni di un morso con l’arcata dentaria di una persona (salvo forse il caso che abbia morsicato un pezzo di stucco da impronte!).
Quindi conclusioni sconclusionate che consentono legittimamente di chiedersi se questi periti, senz’altro ottimi esperti di otturazioni e dentiere, avessero mai letto un articolo di dottrina sul problema oppure, se li avevano letti, perché non li hanno citati. Ma questo è l’andazzo delle consulenze in Italia in cui si confondono le esigenze della giustizia con quelle dell'accusa.

In conclusione un processo basato su forzature e che non avrebbe dovuto superare neppure il vaglio del GIP.

Altro punto dolente della giustizia in Italia è che giudici e PM che fanno figure da cioccolatai non ammettono mai di avere sbagliato; se un perito gli distrugge l’accusa, è il perito, oppure sono i loro colleghi a non capire, ed essi insistono a dire di aver capito tutto, protestano in televisione, fanno ricorsi ridicoli in cassazione, insistono a sostenere l’insostenibile, tormentano con processi e spese persone che, in base alla prove reali, neppure avrebbero potuto essere indagate.

Quel che peggio è che i procuratori generali che dovrebbero gestire l'accusa in appello e che sono lì per tutelare i diritti dei cittadini, imputato compreso, hanno talmente paura delle critiche che nel 99% dei casi sono proni a sostenere l'appello del PM trombato in primo grado, anche contro l'evidenza delle cose. Ma come? Essi sono più anziani, più esperti, più maturi, più pagati di uno sbarbatello di PM ed hanno paura di dire che questo ha sbagliato tutto? Come è possibile che si preferisca insistere a sostenere un'accusa sballata contro una persona che si sa destinata ad essere assolta, invece di andare a cercare il vero colpevole? Totò avrebbe detto "siamo uomini o caporali?". Nel nostro sistema il procuratore generale può anche togliere le indagini ad un PM che faccia cavolate, ma nessuno ha mai avuto questo coraggio (è anche vero che il CSM ha subito censurato chi ci ha provato, in base al principio che un magistrato se è indipendente, ha il diritto di fare tutte le cazzate che vuole e di non pagare mai i danni).

Non dico che tutti gli assolti siano innocenti, ma se non vengano condannati è solo perché il PM non ha saputo condurre le indagini e farsi aiutare e consigliare da consulenti di rango; ma come può chiedere consiglio chi ritiene di essere infallibile e di capire tutto anche senza le prove, come un "mago di Napoli"?

Altro grave problema è quello della parte civile che in un paese civile non dovrebbe poter avere ingresso nel processo penale. La parte civile è il soggetto danneggiato da un reato, che nel processo penale chiede vendetta o soldi, o entrambe le cose, e che per tale motivo spende decine di migliaia di euro in avvocati e consulenti; soldi che non recupererà quasi mai perché anche l’imputato spende tutti si suoi soldi per difendersi!

Ma con quale diritto e con quale coraggio un parente di un morto può perseguitare un imputato solo perché il PM gli assicura che è lui il colpevole? Prima si deve accertare se una persona è colpevole e dopo si potrà discutere del danno da risarcire. Invece il nostro sistema è tale per cui la parte civile può avere tutto l’interesse a cercare di far condannare un innocente ricco piuttosto che il vero colpevole povero! E l’imputato si deve così difendere su due fronti, con buona pace del principio che lottare in due contro uno è sempre una cosa scorretta.
Sempre mi sorprende, infine, quanti pochi avvocati della parte civile abbiano la sensibilità di dire ai loro mandanti “guardate che le prove del PM stanno crollando, qui corriamo il rischio di far condannare un innocente e di non far scoprire il vero colpevole, meglio attendere l’esito del processo”.

(26 aprile 2012)

Sento ora che la Corte di Assise di Appello ha assolto il Busco. Ho scritto il mio articolo prima della sentenza perché il risultato del processo era, per un esperto, ovvio prima che cominciasse. Ma possibile che nessuno risponda almeno di danno erariale per tutti i soldi buttati per fare un processo inutile, salvo che per cercare di far salvare la faccia a qualcuno?

(27 aprile 2012)

Edoardo Mori

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martedì 15 maggio 2012

Esce oggi la nuova edizione di:


Editore Ponte Sisto
Via Poma La ragazza con l’ombrellino rosa
Autore I. Patruno
Pagine 304
ISBN 9788895884493


"C’è una foto che è diventata un’icona. Ritrae una ragazza
giovane, seduta su un telo da mare chiaro. Indossa un costume
intero, bianco candido, molto sgambato. È distesa, le braccia
allungate poggiano entrambe sul telo a sorreggere il busto in
avanti. Accanto, ben ripiegati, degli short di jeans ed una
maglietta. Nascosti alla vista dal taglio dell’inquadratura (si
notano però in un’altra foto scattata poco dopo) stanno un paio
di sandali infradito allineati l’uno accanto all’altro. I capelli neri
e lunghi sono molto mossi, le sopracciglia ben delineate, il naso
pronunciato, gli occhi castani. Chissà in quanti devono averle
detto che assomiglia alla cantante Marcella Bella. Le labbra
chiuse mostrano un sorriso vago. Lo sguardo è spavaldo, quasi
di sfida. Gli occhi, pur socchiusi per la luce solare, riflettono
l’ansia di vivere di chi ha vent’anni. Attorno una spiaggia di
sabbia chiara. Sullo sfondo onde bianche di spuma, immobilizzate
nell’istante precedente al frangersi sulla battigia. Mare di
onde veloci agitate dal vento del nord."

venerdì 27 aprile 2012

ASSOLTO

La Pima Corte di assise di appello di Roma alla pubblica udienza del 27 aprile 2012 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente sentenza:

Visto l'articolo 605 c.p.p.
in riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Roma in data 26/1/2011, appellata dai difensori dell'imputato, ASSOLVE Busco Raniero dal reato ascrittogli PER NON AVER COMMESSO IL FATTO: fissa in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione.


martedì 24 aprile 2012

Clamorosa intervista di Raffaella Fanelli all'avv. Molinaro

Da 'OGGI' una clamorosa intervista di Raffaella Fanelli all'avv. Molinario, ex avvocato della famiglia Cesaroni: "Prima si trova l'imputato, poi si costruiscono le prove"

link all'articolo

lunedì 23 aprile 2012

Dichiarazione di Raniero Busco

Voglio riafermare che volevo bene a Simonetta. Naturalmente non posso sapere come si sarebbe conclusa la nostra storia ma non avrei mai pensato di fare del male alla mia compagna e inorridisco al solo pensiero che qualcuno possa pensare che io abbia provocato la morte di Simonetta. Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho sentito quando e' morto mio padre. E quando sono stato condannato in primo grado. Non tanto per la condanna in se, anche se è mostruosa, ma quanto per il fatto che i giudici mi abiano ritenuto capace di un delitto così incredibile. Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza.

mercoledì 18 aprile 2012

Il mollettone

Alla storia del mollettone non crede nessuno.
Eppure quel piccolo oggetto, scartato e accantonato frettolosamente, potrebbe giustificare, da solo, i segni trovati sul seno di Simonetta e quel graffio alla base del collo.


La logica ha fatto da padrona durante il processo di primo grado (le famose "deduzioni logiche") ma una delle cose logiche, in grado di essere dimostrata, è stata trascurata.
"Forse è un morso" aveva detto il prof. Carelle Prada.
"Non è assolutamente un morso" ha affermato, quasi un mese fa, il prof. Cipolla D'Abruzzo, non un morso umano almeno! (un criceto?)

Forse hanno ragione tutti e due.
Quel curioso e innocuo oggetto, con cui le ragazze si tenevano e si tengono ancor oggi i capelli e dall'impressionante somiglianza alle arcate dentarie dell'essere umano, può aver dato il via all'incubo di Raniero Busco. Al contrario, se preso nella giusta considerazione, avrebbe potuto aiutare a trovare il bandolo della matassa.
In aula, il prof.Cipolla D'Abruzzo, ha detto che quelle lesioni, al seno e al collo, sono state prodotte nello stesso momento ed ha anche onestamente ammesso di non sapere come e da cosa fossero state inferte.
Una cosa, in particolare, lo ha fatto impazzire: la crosticina siero-ematica riscontrata sulle escoriazioni, sia sul seno che sul collo. Per far si che la crosticina si formasse ci sono voluti alcuni minuti o anche di più e questo significa, a rigor di logica (di nuovo la logica), che le coltellate sono state inferte dopo quel lasso di tempo.
Questa teoria aprirebbe scenari inquietanti. Infatti significherebbe che, dopo il colpo che ha tramortito Simonetta, facendola cadere, l'assassino si è fermato per un tempo non definito, ha riflettuto, forse ha chiesto aiuto e solo in seguito sono state inferte le stilettate, non di impeto ma lucidamente.
Quel piccolo oggetto sarebbe stato in grado di dare qualche certezza in più rispetto al marasma di ipotesi fatte e non riscontrate.
Dunque: Simonetta ha il mollettone fra i capelli; le escoriazioni sul seno indicano che lei fosse seminuda (almeno nella parte superiore del corpo); era sicuramente in piedi e non supina, per il semplice motivo che il mollettone è stato ritrovato sul pavimento, aperto in due, rotto... e si è potuto rompere solo se la ragazza, in seguito al violento colpo al viso, lo avesse perso e ci fosse caduta sopra ferendosi, contemporaneamente, al seno e al collo per l'azione dei "denti" di quella "bocca" non umana. A questo punto l'assassino ha creduto di averla uccisa, è stato preso dal panico e, solo in seguito, ha pensato bene di "finire il lavoro", aiutato oppure no.
Le crosticine siero-ematiche hanno avuto, in quell'intervallo, il tempo di formarsi.

Con un semplice calcolo, si sarebbe potuto stabilire il tempo trascorso tra il determinarsi delle escoriazioni e i colpi di tagliacarte. Ma chi avrebbe avuto motivo di comportarsi in quel modo? Non certo il fidanzato che, logicamente (ancora!), dopo lo schiaffone e credendola morta, sarebbe sicuramente fuggito a gambe levate. Nessuno legato affettivamente a Simonetta, avrebbe potuto pensare di infliggere, freddamente e con inaudita barbarie, delle coltellate post mortem!

E' stata l'opera di uno psicopatico? E' stato depistaggio? Questo avrebbero dovuto cercare di capirlo coloro che, in questi lunghissimi anni, si sono alternati nella conduzione delle indagini.

Nunzia Palladino

La superperizia - versione integrale

Riportiamo qui i link al documento integrale della Superperizia, pubblicati sul sito 'Il Punto Cronaca'


Parte1
Parte2
Parte3
Parte4
Parte5

martedì 10 aprile 2012

Il giallo del campione biologico di Busco.

Durante le verifiche sulla documentazione relativa ai campioni biologici comparativi
delle tracce su corpetto e reggiseno, i periti nominati dai Giudici della Corte
d'Appello hanno ritenuto importante segnalare un'anomalia.

Esaminando il campione 38B relativo al file "004_rep_38_3301_00_RG_RM.fsa" segnalato
appartenente a Busco Raniero, si accorgono che risultava in corso di analisi (ettroforesi capillare) in data 16/11/2004. I files furono analizzati dai periti con l'ausilio del software GeneMapper versione 3.2.1.

Le analisi dei cinque campioni prelevati a Raniero Busco sono documentate con queste date:

- primo prelievo data 6/12/2004 ed è giunto ai laboratori dei RIS di Parma il 3/1/2005
- secondo 16/2/2005
- terzo 5/5/2005
- quarto 20/6/2005
- quinto 2/12/2005

Quindi l'analisi risulterebbe ANTECEDENTE alla data del primo campione disponibile di
Raniero Busco. Cosa ovviamente impossibile. Non si può utilizzare un campione per un'analisi prima di averlo ricevuto.

In aula, il 27 marzo scorso, riformulata l'anomalia dal Pubblico Ministero, il maggiore Pizzamiglio (consulente in primo e secondo grado dell'accusa), ha fornito una spiegazione.
Ha sostenuto che la documentazione riportava una data sbagliata (in realtà lui sostiene che la data corretta sia il 21/5) a causa di un baco informatico della versione 3.2.1 del software.
E che la casa produttrice aveva rilasciato la versione successiva certificata e priva di bachi (versione ID X) con la quale, lui sosiene, si visualizza la data corretta.

Auspichiamo che venga fatta luce su questa questione che, se confermata, aprirebbe nuovi e inquitanti scenari sulla vicenda.

Gabriella Schiavon

giovedì 22 marzo 2012

La maxiperizia - 5) tracce su corpetto e reggiseno

Le analisi riguardano alcuni campioni prelevati dagli indumenti intimi.
Su tutti la componente maggioritaria coincide con la vittima Simonetta Cesaroni.

Per la componente minoritaria su alcuni campioni c'è una riferibilià all'imputato (del resto mai negata dalla difesa) ma in alcuni casi "sono presenti alleli non riconducibili nè alla vittima nè all'imputato".

In alcuni casi "è impossibile stabilire se tali ultimi prodotti siano attribuibili ad una commistione di substrati biologici riconducibili ad almeno altri due soggetti ovvero ad artefatti di polimerizzazione".

In un caso (campione 7) invece, sempre per la componente minoritaria "vi sono alleli attribuibili ad almeno altri due soggetti di sesso maschile... La valutazione del colleggio peritale tiene conto della complessità dei dati ottenuti ed identifica quindi con certezza la presenza di almeno tre soggetti maschili"

Infine per tutti i campioni presi in esame "non è possibile stabilire l'origine tissutale dei medesimi ed il momento della loro deposizione sugli indumenti".

La maxiperizia - 4) il sangue di gruppo A sulla porta

Questo il commento sulle varie conclusioni delle perizie riguardanti il sangue repertato sul lato interno della porta:

"La prima di queste è la più semplice e logica: i dati molecolari appartengono ad un unico soggetto di sesso maschile, di gruppo sanguigno A e di genotipo 1.1/4 al locus DQalfa (e quindi certamente non l'imputato)...
La seconda conclusione è invece un'ipotesi che prevede la presenza di una commistione tra il sangue della vittima ed il materiale biologicodi un maschio di gruppo sanguigno A ed omozigote (1.1/1.1) al locus DQalfa (e quindi certamente non l'imputato)...
Non meritevoli di concreta considerazione le altre possibili ipotesi avanzate"

Importanti le considerazioni sui diversi e distinti reperti del lato interno porta e maniglia:

"Circa le modalità di repertazione delle tracce presenti su questo lato della porta, gli elementi a disposizione dimostrano che i prelievi sono stati eseguiti in maniera separata dalla porta (reperti '12c' e 12e') e dalla maniglia (reperto '12d'), così come risulta dall'elenco dei reperti consegnati ai periti Fiori/Pascali/Destro-Bisol.
La medesima distinzione relativamente alla localizzazione dei prelievi emerge anche dalla successiva perizia di Lago e Garofano (1998) dove venne tentata l'analisi da due minuti residui derivanti dalle precedenti analisi condotte dalla Polizia Scientifica. Tali campioni erano infatti relativi a distinti prelievi eseguiti sulla PORTA (reperto 'A porta') e, rispettivamente, sulla MANIGLIA (reperto 'B maniglia')...
Sulla base di tali elementi, quindi, appare infondata l'ipotesi dei CCTT del PM che prevedono che, a seguito delle unificazione su un'unica garza dei vari imbrattamenti (pag.158), sia stata inavvertitamente formata una commistione di materiale biologico tale da originare i risultati gruppi sanguigni e genetici ottenuti dai periti".

Conclusioni:

"L'imbrattamento ematico è attribuibile ad un soggetto maschile di gruppo sanguigno A e di genotipo 1.1/4 quindi certamente non all'imputato Busco Raniero"

La maxiperizia - 3) Lesione sul seno sinistro (ex 'morso')

Dopo aver letto e vagliato tutte le considerazioni medico legali dell'epoca in cui il 'morso' appare come una "possibile ipotesi e nulla più", considerando i pareri dei consulenti dell'accusa:

"propongono una ricostruzione che ci appare inverosimile: "La persona che , con ogni verosimiglianza, si trovava a cavalcioni del corpo della Cesaroni, stante quest'ultimo supino sul pavimento l'uno di fronte all'altro, e con la testa leggermente ruotataverso destra su di un piano sagittale, ha inferto con energia una morso sul capezzolo sinistro della Cesaroni lasciandovi delle lesioni cutaneee provocate dai suoi denti" Sennonchè i denti che accreditano i Consulenti sarebbero quelli dell'arcata inferiore dell'autore. Ma ciò appare fisicamente impossibile ad un essere umano... bisognerebbe accreditare a costui capacità contorsionistiche del tutto particolari, in quanto il capo avrebbe dovuto letteralmente ruotare alla sua destra fino quasi a capovolgersi sul collo"


Poi:

"Tutte le spiegazioni lette e direttamente ascoltate per accreditare l'azione di un morso non convincono, anche perchè cozzano regolarmente contro la scarna ma precisa ed univoca descrizione del CTU il quale così si esprime: "l'impianto del capezzolo di sinistra, nel suo versante supero-mediale, appare interessato rispettivamente da 2 discontinuazioni tuttaffatto superficiali, contigue, linearmente disposte in continuità". Dunque anche a cercare, si parla di due piccole escoriazioni contigue e nulla più... Una conclusione del genere non è accettabile e la Letteratura scientifica è concorde, specialmente quella più moderna a partire dal 2005".

Per concludere:

"Infine, ci si potrebbe chiedere: ma se non è un morso, cosa potrebbe essere?... Potrebbe essere di tutto, visto che le piccole escoriazioni non figurate possono essere prodotte da un'infinità di cose per cui anche un'unghiatura per una strizzata al capezzolo tra pollice e indice, agendo sulla cute la sola unghia del pollice... E più in generale potrebbe trattarsi anche di escoriazioni causate da un'oggetto appuntito, magari lo stesso che ebbe a produrre l'escoriazione lineare alla base anteriore destra del collo».

La maxiperizia - 2) causa e mezzi che produssero la morte

"La causa della morte della giovane è del tutto scontata e senza il minimo dubbio va riferita allo shock emorragico".

Dopo un'analisi delle ferite, considerazioni sulla probabile arma del delitto:

"Concludendo, è possibile che si sia trattato di un tagliacarte da scrivania, oggetto acuminato, dai margini sufficientemente acuti ma non taglienti e facce ordinatamente piatte, con lame poco robuste, generalmente lunghe non meno di 10-12 cm e larghe circa 1 cm".

La maxiperizia - 1) Orario della morte

Innanzi tutto occorre evidenziare una cosa ovvia ma importante: i periti Corrado Cipolla d'Abruzzo, Paolo Fattorini, Carlo Previderè che hanno redatto la perizia sono stati nominati dai Giudici della Corte d'Appello. Quindi non sono periti dell'accusa o della difesa, ma super partes.

Orario della morte

Queste a grandi linee le considerazioni dei periti:

- una lunga trattazione su fenomeni mortali e post-mortali
- dai dati meteorologi del 7 agosto 1990
- analisi del contenuto gastrico considerato inattendibile ai fini della datazione della morte
- attendibilità delle dichiarazioni sulle telefonate pomeridiane che vedrebbero Simonetta ancora viva dopo le 17.45
- ulteriore lasso temporale per l'intera dinamica omicidiaria

concludono:

"A questo punto l'orario della morte si collocherebbe tra le 18 e le 19 circa di quel 7 agosto 1990.
Se appena un poco prima, se poco dopo, non si può precisarlo ove si ragioni in base alle comuni conoscenze scientifiche, oltretutto rapportate a quei pochi dai medico legali disponibili."

lunedì 19 marzo 2012

Le tracce di sangue di gruppo A

Ci sono ancora tanti dettagli che proprio non tornano in questa vicenda di via Poma e nella relativa condanna in primo grado di Raniero Busco.
Uno in particolare ha fatto la differenza tra un verdetto di innocenza o di colpevolezza: l'annulamento come prova delle tracce di sangue di gruppo A trovate sulla scena del crimine (ricordiamo che sia la vittima che Busco hanno sangue di gruppo 0).

Partiamo dalla fine, da come tali tracce siano state minimizzate e ridotte al nulla nelle motivazioni della sentenza di primo grado:

"Circa quest'ultima traccia, la presenza di materiale maschile potrebbe ricondursi ad una sovrapposizione di fluidi biologici sangue/sudore, legata alla stessa azione tamponante esercitata per il prelevamento delle diverse striature ematiche, in un'area della porta contigua alla maniglia, il ché avrebbe comportato l'asportazione di tracce biologiche pregresse, indipendenti dall'omicidio... Ciò detto, a parere della Corte, le tracce ematiche di gruppo A sulla parte interna della porta e sulla tastiera del telefono devono ritenersi ininfluenti rispetto al compendio probatorio acquisito. Ed in particolare, sia per la traccia interna sulla porta (prelevata unendo insieme la traccia presente sulla porta e quella presente sulla maniglia), sia per la traccia sulla tastiera del telefono, non possono escludersi, ma anzi devono ritenersi probabili, fenomeni di contaminazione, trattandosi di oggetti naturalmente destinati ad essere toccati da altre persone".

Dunque 2 concetti smontano la traccia di sangue di gruppo A:
Punto 1: una possibile contaminazione con tracce pregresse su maniglia e tastiera per via del fatto che sono oggetti di uso comune
Punto 2: il fatto che il sangue sulla porta e sulla maniglia era stato unito e repertato in un'unica tamponatura e quindi, per il Punto 1, contaminato e inutilizzabile.

Partiamo dal punto2, presupposto del teorema che annullerebbe la validità della prova.
Perizie alla mano, non risulta vero.
E questo fatto è facile da dimostrare, tanto facile che è quasi incredibile di come sia potuto arrivare sin lì.

Queste le foto della tracce di sangue di gruppo A, tanto per rendersi conto di cosa stiamo parlando:



Ora partiamo a ritroso, perchè se la sentenza contiene questo teorema, è successo perchè qualcuno durante il dibattimento lo ha sostenuto.

La Pm Ilaria Calò, durante la requisitoria dice:

'Il campione di sangue, in effetti molto copioso sul lato interno, fu repertato con un unico pezzettino di cotone garza, sia sulla maniglia che sulla porta, il che ha contaminato l'analisi, perchè la maniglia è un oggetto che evidentemente viene toccato da tutti e quindi, a differenza della porta, recava tutte le tracce delle precedenti contaminazioni, quindi mischiare il reperto porta con il reperto maniglia ha sostanzialmente alterato gli esiti dell'analisi.'

Ma da chi viene sostenuta ancora prima questa questa tesi?

Leggiamo la deposizione del Maresciallo Ordinario Flora De Angelis (Polizia Giudiziaria del Tribunale di Roma) nell'udienza del 7 maggio 2010:
'Allora, quello rilevato all'interno era un campione falsato, dal fatto che all'epoca il prelievo venne fatto con un tassello imbevuto di acqua distillata e praticamente venne preso sia quello sulla porta che sulla maniglia, per cui non era più possibile... era alterato, era contaminato, non ...'


Leggiamo poi cosa dice in proposito il maggiore Pizzamiglio:
"Per quello che siamo riusciti a costruire con il Pubblico Ministero verosimilmente questo tamponcino è stato usato per pulire, vedete, tutte queste strisciate che ci sono sulla porta... quindi è molto verosimile supporre che questo tamponcino sia stato usato per pulire tutta quella superficie"


Verosimile?
Ora verifichiamo direttamente sulle perizie.

Dopo una prima perizia dei CCTT Pollo Poesio-Dallapiccola (1-10-1990) in cui si sostiene genericamente che la traccia è stata sottoposta ad analisi per il sistema sanguigno AB0 e ha dato esito positivo per il gruppo A (di cui documentiamo le conclusioni)


ne arriva un'altra sottoscritta dai CCTT Fiori-Pascali-Destro Bisol (3-4-1991) in cui si descrivono i reperti:


REPERTI DISTINTI (porta e maniglia) DUNQUE.
Queste le conclusioni di questa perizia:



Ma non è finita qui. Dopo un'altra perizia dei CCTT Fiori-Pascali-Cortese (28-4-1992) (di cui documentiamo le conclusioni)

e dei CCTT Dallapiccola-Spinella (1-6-1992) (di cui documentiamo le conclusioni)


nel 1999 una nuova perizia a firma Garofano-Lago ci descrive nuovamente i reperti da analizzare:



ANCORA UNA CONFERMA DI REPERTI DISTINTI (porta e maniglia).

Queste le conclusioni di quella perizia:



Nascono tante domande a fronte di queste conclusioni:
- è ancora disponibile il dna estratto da queste analisi? E' stato mai comparato poi con qualche dna di sospettati/indagati?
- perchè Garofano, perito dell'accusa e presente in aula, non ha parlato di questa sua analisi del 1999?
- e come mai non si è sentito in dovere di segnalare che i reperti erano distinti, nè in aula nè successivamente in una delle tante trasmissioni televisive che l'ha visto ospite o conduttore?

Domande che nessuno fa e a cui nessuno risponderà mai.
Così torniamo, impotenti e rassegnati, a leggere quelle righe della sentenza di primo grado:


Ed ecco come succede che un fatto NON VERO, ripetuto tante volte, diventati una VERITA'.


Passiamo ora al punto 1: una possibile contaminazione con tracce pregresse su maniglia e tastiera per via del fatto che sono oggetti di uso comune.

Questa la conlusione da parte del perito L. Garofano in relazione alla possibile contaminazione dei reperti:
"In tale quadro non può comunque escludersi che la limitatissima componente maschile rinvenuta su questo materiale possa ricondursi a tracce pregresse, già presenti sulla porta, ovvero una possibile contaminazione nel corso dei prelievi"

Leggiamo cosa dice a riguardo anche il Maggiore Pizzamiglio in uno stralcio dal senso un pò confuso:


E' difficile contestare un'opinione resa da periti così autorevoli, ma non è forse vero che questo dubbio sulla contaminazione con tracce pregresse è applicabile a qualsiasi caso di omicidio?

E poi bisognerebbe chiarire se i risultati delle analisi effettuate con il sistema di rilevazione AB0, con cui è stato rilevato sangue di gruppo A, funziona solo per il sangue o anche per il sudore.
Quando si legge sulla perizia 'sangue gruppo A' perchè dovrebbero riferirsi a tracce di sudore?

Viceversa il fatto davvero decisivo che ci fa credere alla validità di queste prove è che (come è stato riconosciuto dalla stessa accusa) anche su un telefono dell'ufficio vengono rinvenute tracce di sangue di gruppo A. Telefono che durante questi anni SPARISCE (ce lo conferma la stessa PM Ilaria Calò) e quindi non è più utilizzabile per le analisi più avanzate.

Pur riconoscendone la validità, l'accusa ribadisce il concetto usato per la maniglia: sul telefono erano state trovate tracce di sangue di tipo A, ma anche per il telefono vale il discorso che si tratta di un oggetto di uso comune e viene manipolato da un elevato numero di persone, per cui anche questi esiti delle analisi si possono considerare nulli.


In più di un'occasione si attesta la tesi accusatoria argomentando con un secco: "L'unico DNA presente sulla scena dell'omicidio appartiene all'imputato (reggiseno e corpetto)".

Perchè non si prende in considerazione anche questa prova macroscopica?

Secondo la ricostruzione dell'accusa, prima del ritrovamento del cadavere, in quell'appartamento entrarono solo 3 persone: la vittima, Raniero Busco e Petrino Vanacore. Tutti e 3 soggetti con gruppo sanguigno 0.

Di chi era allora il sangue di gruppo A maschile?


Gabriella Schiavon

venerdì 9 marzo 2012

Tracce di assassino

Sarebbe bello scoprire, come d’incanto, che vi è una traccia, una traccia di sangue, un profilo
genetico quasi completo, che conduce all’assassino.
Sembra impossibile... eppure ...

La storia comincia il 27 agosto 1990.
Mirco Vanacore, ultimogenito di Pietrino, è a Roma da alcuni giorni. Ha raggiunto il fratello Mario
e la matrigna in via Poma, nella casa dei portieri. Serve unità nella famiglia sconvolta dal sospetto
che il padre rinchiuso nel carcere di Regina Celi, possa essere l’assassino di Simonetta Cesaroni.
C’è anche chi sospetta che loro stessi siano in qualche modo coinvolti nel delitto, o anche soltanto
consapevoli delle colpe del padre.
Mirco sicuramente non lo crede.
Spostandosi in ascensore sulla scala B nota su di un vetro interno due piccole macchie rossastre,
tutt’altro che invisibili, entrambe con uno sbaffo laterale.
Sembra decisamente sangue, e in quel palazzo è avvenuto un fatto di sangue.
Mirco avvisa immediatamente la matrigna che non esita – si noti, non esita – a chiamare l’avvocato De Vita, il difensore del marito, che a sua volta non esita ad informare la Questura.
Gli agenti si precipitano sul posto. Arriva anche Catalani.

Rimuovono il vetro ed ispezionano il vano ascensore fino al piano interrato, dove scorgono degli
stracci e altre tracce sul muro, sempre rossastre, sempre meritevoli di essere asportate.
Se quello fosse sangue, si avrebbe un indizio in più che l’assassino conosce molto bene i luoghi,
tanto da usare l’ascensore per portarsi in cantina, forse per servirsi di un luogo protetto dove
organizzare al meglio... “la fuga col fagotto”.
Si scopre lo stesso giorno che le cantine sono comunicanti fra scala B e scala F, che forse ci sono
percorsi alternativi all’uscita dalla porta della scala B.

Gli inquirenti, però, hanno un solo territoriale in mente, Pietrino Vanacore, e non si curano di
considerare la collaborazione dei famigliari nel rinvenimento delle tracce in ascensore, come un
elemento a favore della loro buona fede e quindi anche dell’indiziato.

Catalani ha fretta di avere risultati certi.
Il 3.9.90 incarica i prof. Arturo Pollo Poesio e Bruno Dallapiccola di analizzare i reperti sequestrati
nell’ascensore ma anche altre tracce fra cui quella di sangue sulla porta della stanza del delitto.
Catalani precisa:
L’esame deve comprendere anche la caratterizzazione molecolare (analisi DNA), a condizione che detto esame sia ripetibile per ogni singolo reperto

Il giudice non vuole rischiare di sprecare inutilmente e irrimediabilmente delle tracce organiche.
Deve tener conto che in quegli anni sono in via di perfezionamento le tecniche di analisi del DNA e
non si può escludere che li a poco siano possibili esami sempre più discriminanti.

Il 12.9.90, appena 9 giorni dopo l’incarico, i due consulenti forniscono per iscritto una prima
valutazione dei reperti.
Il sangue sulla porta sul lato interno è di gruppo A (saranno i primi a dirlo) ma, aggiungono i periti, non può procedersi oltre per non compromettere la ripetibilità dell’analisi, come aveva raccomandato il giudice.
E ora il vetro.
Le due tracce che per primo vide Mirco Vanacore sono di sangue umano e sono contrassegnate con i numeri 1 (quella nella parte inferiore del vetro) e 2 (quella superiore).




Tuttavia soltanto sulla n 2 vengono eseguite analisi di tipizzazione. Diranno in seguito i periti che sulla traccia n. 1 non era stata eseguita l’analisi del DNA (presumibilmente per non esaurire il campione).
Il ragionevole proposito di conservare campioni per future analisi, come richiesto da Catalani, e
la ovvia (ma ahimè sbagliata) deduzione che la traccia n. 1 provenisse dal medesimo soggetto,
conduce alla fatale decisione di preservare il contenuto di sangue della traccia n. 1.
Avessero saputo!

L’1.10.90 giunge la relazione conclusiva in cui si legge:
La goccia di sangue prelevata dal vetro dell’ascensore (sappiamo essere la traccia n. 2) dopo raschiamento con bisturi (l’asportazione è dunque totale).....tale procedura ha permesso di recuperare 125 ng di DNA."
Più avanti:
Il DNA estratto dal sangue della vittima e dalla traccia prelevata dal vetro dell’ascensore è stato analizzato per 7 polimorfismi ad elevato PIC (polymorphism information content) cioè un alto grado di variabilità interindividuale nella popolazione generale. Come tali sono particolarmente idonei alla caratterizzazione genotipica individuale
Infine i periti concludono:
La probabilità congiunta di aploidentità, cioè la probabilità che i due campioni appartengano ad una stesso soggetto, sulla base delle analisi effettuate è risultata di 99.53%"

Sperava altro Catalani.
Sperava che l’indicazione di un aggressore che si era ferito, tratto da quelle prime informazioni sul sangue della porta, fossero ribadite, e con maggior dettaglio, da analoghe risultanze sul vetro.
Invece no, era sangue della vittima, indiscutibilmente.
Catalani tenta ancora con altri consulenti di rinnovare le analisi del sangue sulla porta – incarico a
Fiori, Pascali e Destro-Bisol del 30.10.90 – raggiungendo risultati più dettagliati, ma non risolutivi.
Esplora ipotesi di commistione con il sangue di Simonetta, inseguendo nuovi sospettati – Federico Valle, senza successo.
Il vetro, che ora contiene una sola traccia – la n. 1 – (la n. 2 è stata completamente abrasa) e che gli inquirenti ritengono (erroneamente) appartenere della vittima, viene momentaneamente archiviato.

Passano 14 anni.
Un nuovo giudice sta esaminando con rinnovata passione le carte dell’inchiesta.
Si chiama Roberto Cavallone.
Parla con Claudio Cesaroni, pranza con lui, un anno prima che il papà di Simonetta torni da sua figlia.
Ma le carte sembrano dire tutto e niente e anche le perizie, ripetute più volte, criticate e
contraddette, fan venir voglia di ricominciare dall’inizio, di fare “tabula rasa”.
Ci si affida principalmente alla scienza che, si dice, ha fatto passi da gigante.
Si riprendono i vecchi reperti e se ne trovano di nuovi mai esaminati prima (corpetto e reggiseno).
Si decide di riesaminare anche il vetro.
Le analisi vengono affidate ad un collegio di periti: Garofano, Pizzamiglio, Moriani.
La traccia n. 2 non c’è più, constatano i periti, documentandolo con una fotografia.
La traccia n. 1 c’è ancora, parziale dicono i periti, ma dalla foto pare integra o comunque del tutto
somigliante a come era nel 1990.


Una prima relazione riepilogativa delle vecchie analisi sentenzia:

"Traccia n. 2 (vetro ascensore) gruppo sanguigno di fenotipo 0 e DNA di genotipo HLA DQ Alfa 4.4 oltre ad altri marcatori genetici che coincidono con quelli della vittima. "

Sarebbe stato meglio, per chiarezza, specificare anche la percentuale del 99,53%, ad evitare che qualcuno poi si confonda.
Magari un giornalista disattento, oppure un blogger, oppure... un Giudice.

Leggiamo le conclusioni contenute nelle Motivazioni della sentenza di corte d’assise di condanna di Raniero Busco:
Le tracce di sangue presenti sul vetro dell’ascensore erano risultate essere effettivamente sangue appartenente al gruppo 0, corrispondente tanto a quello della vittima che a quello del Busco, e tipizzato con il genotipo Delta Q Alfa 4.4, anch’esso comune alla vittima e all’imputato."

E’ una deduzione completamente sbagliata delle conclusioni peritali del 1990. Oltretutto riferendo il solo dato parziale, il giudice allude ad una possibilità inesistente e cioè che il sangue possa appartenere allo stesso Raniero Busco.
Il sangue è indiscutibilmente della vittima!
Questo è il dato processuale, mai contestato e quindi assolutamente fuori discussione.

Cosa può aver indotto il giudice a travisare le risultanze peritali del 1990 e perché non fa cenno in
sentenza alle analisi sul vetro fatte dai RIS?
La perizia condotta da Garofano Pizzamiglio e Moriani e cioè quella in cui si narra abbondantemente degli esami su corpetto e reggiseno, dedica un breve spazio al vetro dell’ascensore, e neanche si cura di specificare che si tratta della traccia di sangue n. 1, quella che stava 30 cm. sotto la traccia di sangue n. 2 identificata nel 90 come appartenente a Simonetta Cesaroni.

I periti liquidano la traccia in quattro righe:
un profilo genetico maschile ignoto e quindi non corrispondente ad alcuno degli individui oggetto della presente consulenza (forse la lista dei 31 nda) è invece emerso dalle tracce residue di natura ematica, ancora presenti sul vetro dell’ascensore."

L’informazione cruciale di un profilo genetico maschile rinvenuto sul medesimo reperto (vetro) in cui si è accertata la compresenza del sangue della vittima, viene sepolto fra migliaia di pagine che trattano di tutt’altro, con la sola notazione che il profilo non corrisponde a quello degli indagati.

Il 7 luglio 2010 durante l’udienza che si occupa per la prima volta delle prove scientifiche e la volta del maggiore Pizzamiglio.
Arriva il momento di parlare del reperto “vetro ascensore” di quelle due tracce di cui ne è rimasta una sola analizzabile.
.. qui sui due ….due diversi punti, già analizzati dai precedenti reperti (intende
ovviamente “periti” n.d.a.) diciamo che nella zona contrassegnata dal numero 2, era stato
completamente asportato tutto, quindi abbiamo provato in vario modo ma non siamo riusciti ad ottenere materiale genetico, invece da quella piccola striscettina di sangue, che in gran parte era gia stata portata via (questo non risulta affatto n.d.a.), abbiamo ottenuto un profilo sempre anche qui del Dna umano.
Anche in questo caso ce ne era molto di meno, abbiamo ottenuto un profilo quasi completo, che ci portavano a un altro soggetto di sesso maschile ignoto, diverso da quello del tavolinetto."

Ed ecco le deduzioni del maggiore:
"A questo punto è nata una prima esigenza investigativa soprattutto per quel che riguardava il vetro sul ... il sangue sul vetro dell’ascensore, che sebbene fosse stato trovato qualche settimana dopo il rinvenime... il rinvenimento del cadavere, quindi non era contestuale quel ... quel ... quel rinvenimento appunto del ... della vittima."

Eppure definire 'non contestuale' una traccia di sangue adiacente ad un'altra traccia di sangue di Simonetta pare alquanto azzardato.

Sembra quasi che Pizzamiglio voglia dare ad intendere che poiché le tracce sono state scoperte
dopo il delitto e appartengono a soggetto ignoto, possano essere estranee all’omicidio di Simonetta.

Argomentazione che crollerebbe miseramente se solo si accennasse al fatto delle analisi del 90
sulla traccia n. 2.

Ma a Pizzamiglio non viene in mente, per cui prosegue raccontando dei tentativi infruttuosi di associare quella traccia ad alcuni dei sospettati e poi ad altri ancora che nel corso di diciotto mesi gli vengono sottoposti.
In un batter d’occhio si ritrova a parlare dei calzini e abbandona l’argomento vetro.
Per una buona ora si parla degli esami sugli indumenti della vittima, di alleli e loci che promettono bene.
Segue una pausa e alla ripresa Pizzamiglio inizia con un riassunto che lo porta a dire:
...la maggior parte delle tracce ematiche rinvenute sul luogo del reato erano riferibili alla
vittima, compresa quella sul vetro dell’ascensore...
Era ora.

Finalmente Pizzamiglio accenna al sangue di Simonetta che si trovava sul vetro, la traccia n. 2, ma come prima aveva parlato della traccia 1 ignorando la 2, ora parla della traccia 2 ignorando la 1.
Sembra quasi non si voglia far capire.

Pizzamiglio non dice altro sul tema e nessuno degli avvocati compreso Loria richiede chiarimenti.

Il reperto “vetro ascensore” torna in archivio, forse per sempre.
La traccia di sangue che ha condotto al profilo genetico di un uomo diverso da quelli confrontati
dai RIS (e sarebbe bene avere contezza precisa a quali e quanti profili fu fatto il confronto), di un
uomo che quasi sicuramente stava trasportando i vestiti imbrattati del sangue di Simonetta – traccia 2 – e del suo sangue – traccia 1 – rimane ignorata da tutti, e forse continuerà ad essere ignorata malgrado questo articolo.

Bruno Arnolfo

domenica 29 gennaio 2012

La stanza sbagliata

Via Poma, terzo piano, interno 7. C’è un appartamento maledetto dove è stata ammazzata una bella ragazza. C’è un telefono macchiato di sangue e c’è una stanza con una scrivania e un computer.

Sono passati quasi 22 anni, c’è stato un processo, c’è stata una condanna, eppure qualcosa non torna! Anzi più di qualcosa! Quel telefono, ad esempio! Tutti sembrano essere convinti che fosse posizionato nella stanza con la scrivania e il computer. Ma non è così!

Molto probabilmente il telefono macchiato con il sangue di Simonetta Cesaroni, forse commisto a quello del suo assassino era in una stanza diversa. Se davvero così fosse, come vedremo più avanti, cambierebbe di molto il punto di vista sui fatti inerenti il delitto.

Ora però facciamo un passo indietro. È il 24/02/2010, si sta svolgendo il processo per l’omicidio di via Poma e sul banco dei testimoni siede l’ispettore Ciro Solimene. A lui il pubblico ministero Ilaria Calò ha chiesto di descrivere lo stato dei luoghi al momento del sopralluogo la notte del 7 agosto 1990. Come da copione si inizia con la stanza dove venne rinvenuto il corpo di Simonetta. Poi Ilaria Calò chiede:

"PM: proseguiamo con la descrizione dell'ufficio successivo, ovvero quello in cui lavorava la vittima. Prego."

Prima di riportare la risposta di Solimene occorre prestare attenzione al complesso delle fotografie disponibili, per comprendere come in effetti fosse facile equivocare fra una stanza e un’altra, anche disponendo di una planimetria.
Al netto delle fotografie riferite a locali accessori (corridoio, bagno, locale fotocopie) e di quelle chiaramente appartenenti alla stanza del delitto, restano in tutto 7 fotografie, in teoria riferibili ai 3 locali rimasti: l’ufficio della Faustini (quello dopo la stanza di Carboni), l’ufficio della Sibilia (quello dopo la Faustini), l’ufficio della Berrettini usato anche dalla Cesaroni (quello dopo la Sibilia). Tre uffici in fila dunque, come si può notare nella planimetria qui sotto.



Dopo la foto n. 28 (l’ultima delle 22 fotografie scattate nell’ufficio di Carboni) inizia la sequenza che riguarda gli altri uffici aiag, ed abbiamo:

  • la foto 29 della stanza n. 2 – Faustini – raffigurata nel suo insieme e di cui non seguono dettagli (questa stanza, presumibilmente scambiata per quella in cui lavorava Simonetta, sarà in seguito ripresa anche da un giornalista accompagnato dal poliziotto che si vede all’interno).

  • il gruppo di foto dal n. 30 al n. 34 chiaramente riferite alla stessa stanza (stesso pavimento e con dettagli sovrapponibili tra la foto in campo lungo – la 30 – e quelle di dettaglio 31, 32, 33 e 34) sono attendibilmente associabili alla stanza n. 3 per testimonianza della titolare Maria Luisa Sibilia). A lei furono in particolare mostrate le fotografie 31 e 32 che riconobbe come immagini del suo ufficio (il dettaglio del tagliacarte e della cintura).











Una ulteriore riprova che quella era la stanza n. 3 posta di fronte all’ingresso, si ha dal riflesso che compare sulla finestra, in cui sono visibili i contorni della porta di ingresso e della serratura (elaborazioni immagini a cura del dr. Fell).




  • la foto n. 35 del computer sicuramente non appartenente alla stanza n. 3, in quanto lo scorcio di finestra visibile nella fotografia non ha riscontri con la foto n. 30 ove si scorge la finestra della stanza 3. Ne consegue che quel computer staziona in un locale diverso, quello appunto in cui lavora Simonetta, la stanza n. 4.



Riassumendo si può affermare quanto segue:
La stanza in cui risiede il telefono macchiato di sangue, diversamente da come si è sostenuto finora, non coincide con il luogo in cui è ubicato il computer in uso a Simonetta.

Ed ora la risposta di Ciro Solimene all’invito del PM di descrivere l’ufficio in cui lavorava la vittima

DICH. SOLIMENE: allora, l'ufficio sì. Praticamente... allora questo ufficio... vediamo un po'... allora in questo ufficio si osserva a distanza dalla parete destra una scrivania su cui poggiano carte varie, una sedia girevole e un tavolinetto su cui poggiano alcune carte, un tavolinetto vicino alla scrivania, alcune carte, una spillatrice e un tagliacarte metallico della lunghezza di centimetri 24, il cui manico è arrotondato con... e la con punta acuminata. Sulla spalliera della sedia girevole, poggia una cintura in tessuto color carne, presumibilmente io ho scritto, poi non so, da donna, presumibilmente.
PM: sì, sì.
DICH. SOLIMENE: a distanza dalla parete sinistra vi è una scrivania... una scrivania sulla quale poggiano pratiche varie, carte varie, eccetera e un telefono con citofono, il quale presenta la cornetta... la cornetta e su alcuni tasti, delle lievissime tracce rossastre, presumibilmente di sostanza ematica.

Secondo Solimene, e il PM conferma con il “si, si”, le due scrivanie sono parte dello stesso ambiente (giusto!) e quella in cui c’è il telefono con le tracce ematiche sarebbe la scrivania di Simonetta (sbagliato!)
L’equivoco si completa con la successiva richiesta del PM riguardo al computer.

PM: sì. Ecco passiamo poi ad esaminare il computer, che era sempre nella stanza in cui lavorava la vittima.

E evidente che il PM presuppone con quel “era sempre nella stanza” che la scrivania precedentemente descritta sia nella stessa stanza in cui stazione il computer, cosa non vera.

Un errore certamente non dovuto ad una momentanea distrazione. Infatti viene commesso anche da Cavallone, il procuratore da cui la dott. Calò ha ereditato l’inchiesta.
Ecco cosa dice il 20.10.2008 in sede di richiesta di riapertura delle indagini nei confronti di Vanacore Pietrino:


Prima ancora Pietro Catalani, il Pm che condusse l' inchiesta iniziale e che sulla questione scrivanie e telefono, così riferì in una nota al procuratore generale del 11.11.1992:



Forse l'origine dell'errore è ancora precedente, quando si confonde la stessa stanza (dove viene rinvenuta la cintura) con quella del computer. Il documento è un' informativa dell'ispettore Gobbi del 22-08-1990:



E’ stato accertato con sicurezza che l’ufficio di Simonetta era posto a sinistra della porta di ingresso. L’ufficio “di fronte” è quello della Sibilia, quello descritto in precedenza da Solimene e sappiamo che il telefono stava nella stanza di fronte all’ingresso (della Sibilia) assolutamente priva di computer.

Dunque abbiamo i titolari delle due inchieste che, seppur con sfumature diverse, affermano entrambi che la scrivania ove si trovava il telefono sporco di sangue, era occupata da Simonetta Cesaroni.
In apparenza, l’errore parrebbe privo di effetti pratici per i fini d’indagine. Infatti, non avendo ricavato dal contenuto di quella scrivania (le carte e gli oggetti che si trovano sul ripiano) elementi utili all’inchiesta, poco cambia se la scrivania non era quella della vittima, ma di un’altra impiegata.
A meno che…..
A meno che non vi sia una delle rimanenti impiegate degli ostelli a cui attribuire l’utilizzo della scrivania.
Ed è questa la sorprendente scoperta che si è fatta analizzando le fotografie e le testimonianze disponibili: nessuna delle impiegate che lavoravano in via Poma poteva occupare quella scrivania, essendo stata individuata per ciascuna di loro (in base a testimonianze ed altre evidenze) la propria postazione. Vedasi in proposito la ricostruzione che si propone nella planimetria precedente.

Ma allora chi occupava quella scrivania?
In via ipotetica si potrebbe pensare ad un uso, per cosi dire di appoggio, da parte della Sibilia, dimorante nella stessa stanza.
In tal caso, però, avremmo una disposizione di oggetti che suggeriscono un utilizzo a mo’ di deposito.
Al contrario abbiamo un telefono, un timbro, un barattolo con matite e oggettistica da ufficio, un posacenere con all'interno un mozzicone di sigaretta, pratiche ordinate sul lati. Il tutto disposto a raggiera rispetto alla sedia di un potenziale utilizzatore che si accomoda sul lato opposto.
Insomma, una postazione “viva” ed operante.
E allora vien da domandarsi se ci fosse qualche altra persona che poteva, anche solo saltuariamente recarsi in quegli uffici. Magari personale della sede nazionale o ex colleghi che ancora facevano visita agli uffici di via Poma.

Nulla al riguardo si è ricavato dalle carte, vecchie e nuove, dell’inchiesta sul delitto di via Poma. Anche le deposizioni processuali non offrono riscontri degni di nota.
E del resto la cosa non deve stupire. Avendo sempre ritenuto che quella fosse la scrivania di Simonetta, non vi era alcun motivo di porsi altre domande.
Le poche informazioni reperibili dalle carte provengono da domande fatte con altri scopi e che incidentalmente forniscono qualche spunto.
Si veda ad esempio uno scorcio di una deposizione della Faustini del 1996:

“Sapevo che Menicocci avrebbe dovuto istruire la Cesaroni inizialmente per renderla edotta dei meccanismi di inserimento delle varie voci di contabilità per consentire poi alla ragazza di proseguire il lavoro da sola. Devo anche aggiungere che oltre a Menicocci vi erano altri dipendenti della sede nazionale che erano a conoscenza dello stesso tipo di meccanismo ma non so se questa attività di istruzione fu svolta anche da qualche altro.”

Una indicazione, seppur sommaria, di altra gente che avrebbe potuto “dare una mano”
Non si è chiesto prima, ma si può chiedere ora.

Riempire quella scrivania non è, per chi indaga, un proposito fine a se stesso.
Su quella scrivania è passato l’assassino che ha lasciato il sangue (suo o di Simonetta o di entrambi) sul telefono, e ancora bisogna capire quale motivo poteva avere per sostare in quella stanza, quando la vittima stava in quella di Carboni, munita di telefono, e precedentemente nel suo ufficio sulla parte opposta, anch’essa con telefono (Simonetta lo usò per chiamare la Berrettini).

La questione non è affatto trascurabile e potrebbe persino dirimere fra due ipotesi opposte: quella del territoriale rispetto a quella di un esterno.
Infatti, se si pensa ad un esterno, e quindi a Raniero Busco, l’esigenza di telefonare sarebbe stata soddisfatta in uno dei due ambienti che egli aveva frequentato, entrambi muniti di telefono. Perché cercare altrove?
Ma se al contrario si pensa ad un territoriale, e quindi a persona che conosceva bene quelle stanze, l’ufficio della Sibilia poteva essergli così famigliare da indurlo istintivamente a farne uso, forse anche per sistemare il famoso tagliacarte.

Se non fosse stato per la sua imperizia di lasciare tracce di sangue sull’apparecchio telefonico, e per il fatale ricordo di Maria Luisa Sibilia sul tagliacarte che la mattina aveva cercato e non trovato, mai nessuno avrebbe pensato al suo ingresso in quella stanza che non c’entrava nulla.
Ma l’assassino di via Poma ha avuto una incredibile fortuna: tutti coloro che hanno indagato sul caso si sono confusi con le fotografie, assumendo che la scrivania col telefono sporco di sangue fosse quella usata da Simonetta.
Una scrivania quindi che non offriva alcun indizio.

Fino ad oggi.

Bruno Arnolfo