venerdì 3 giugno 2011

Analisi delle motivazioni - quinta parte

Il movente


Nel tentativo di replicare alle argomentazioni difensive sull’assenza di un movente plausibile in capo a Raniero Busco, il Giudice si produce in una lunga dissertazione attinente il precario rapporto fra i due fidanzati, cercando nelle suggestioni che evocano le lettere scritte da Simonetta gli spunti più proficui alla rappresentazione dell’imputato nella forma più sgradevole possibile.

Non è infatti nelle intenzioni del Giudice descrivere un delitto che matura in un contesto preciso di causa-effetto, ove il movente rappresenta appunto il collante di questo binomio (es: la gelosia scatenata da un tradimento). Viceversa egli intende alludere ad un movente “latente” e non “diretto” dove è la personalità dell’assassino, la sua natura natura greve e insofferente alle pretese affettive della vittima, a prevalere su qualsivoglia movente.

Il coronamento di questa tesi si esprime in questo passaggio:
“Ebbene, ancorché si assuma da parte della difesa che non sia stato individuato alcun movente, lo spaccato dell’infelice rapporto che emerge dalle lettere della ragazza, (non smentito ma minimizzato dai testi), è compatibile con la presenza di BUSCO in via Poma quel pomeriggio”.

Questa incredibile sintesi dove le proposizioni non sono affatto consequenziali, svela, al di là della incoerenza logica (dire che l’infelice rapporto è compatibile con la presenza in via Poma è meno sensato di dire l’esatto contrario) l’intenzione di affrancarsi da ogni movente tradizionale, per cui Busco stava là perché l’occasione della solitudine di Simonetta (appresa al telefono) gli offriva la possibilità di una fugace sveltina da consumare a tutti i costi.

In pratica si vuole sostenere che il contrasto fra la natura sentimentale ma passiva di Simonetta e quella primitiva e prevaricante di Raniero, sia di per sé sufficiente a creare le premesse di un esito fatale.

Una tesi sicuramente poco plausibile, non solo perché la personalità che si vorrebbe imputare all’assassino non corrisponde alla descrizione che gli amici e i colleghi di lavoro fanno dell’imputato. Ma anche perché la storia di Raniero Busco, di genitore e marito, visibile e certa, indica un uomo completamente diverso da quello descritto nelle motivazioni della sentenza.

Allora vien da chiedersi per quale ragione la Corte, pur disponendo del movente fornito dal pubblico ministero, non ha voluto servirsene.

Nella requisitoria della dottoressa Calò, un tentativo di indicare un movente era stato fatto, e per quanto la rappresentazione in aula sia stata piuttosto confusa, il 7 agosto 1990 viene descritto come il giorno del chiarimento, voluto principalmente da Simonetta (a questo scopo avrebbe respinto le insidie di Volponi per poter restare sola) e che sfocia infine in un litigio.

Un movente dunque che affonda le radici nelle dinamiche del 7 agosto e non solamente nell’astratta tesi di una rapporto impossibile che “non poteva che finire così”.

Ebbene, le ragioni per cui la Corte non ha seguito le tesi del PM, sono due:
  1. l’impossibilità totale di provare quali fossero i contenuti del supposto chiarimento e, soprattutto, la gravità che ad essi occorrerebbe imputare (né la pillola né le imminenti vacanze separate offrono un chiaro motivo per un “summit urgente”)
  2. la difficoltà che si avrebbe a comprimere nel medesimo contesto la discussione con litigio e il rapporto sessuale consenziente.
Conscio di queste difficoltà il Giudice ha preferito “liberarsi” degli astratti e indimostrabili teoremi del PM, pretendendo quindi che il contrasto fra la natura sentimentale ma passiva di Simonetta e quella primitiva e prevaricante di Raniero, sia di per sé sufficiente a creare le premesse di un esito fatale.

La Corte non si sottrae soltanto all’indicazione di un movente secondo i canoni tradizionali, ma sfugge anche ad ogni altra spiegazione della dinamica del delitto, in ciò rivelando una condotta elusiva e, in tutta franchezza, inaccettabile.

Si guardi a come descrive il momento cruciale:
“La Corte ritiene che sia di tutta evidenza che durante i preliminari di un approccio consensuale consenziente, la ragazza, ad un certo punto, per i motivi riconducibili allo stato di tensione esistente fra i due, inaspettatamente si è rifiutata di proseguire il rapporto. Il rifiuto probabilmente accompagnato da parole sferzanti ha indotto l’assassino, come reazione, ad infliggerle un terribile morso al capezzolo. La reazione della ragazza, anche solo verbale, (deve supporre che sia solo verbale, perché se fosse diversamente ci sarebbero i segni di difesa n.d.a.) a tale gesto, ha provocato l’ulteriore incremento della spinta aggressiva per cui il BUSCO l’ha dapprima atterrata e tramortita con un potente schiaffone all’emivolto e poi, scatenatasi ormai la violenza, colto da un’irrefrenabile furia omicida, le ha inferto 29 coltellate mentre la ragazza già si trovava stesa a terra supina e senza che potesse opporre una sia pur minima resistenza dato che il BUSCO si era posizionato a cavalcioni sopra di lei, come attestato dalle evidenti tumefazioni rilevabili sul bacino della giovane".

Ora si noti la disinvoltura del passaggio in cui dopo lo schiaffone, sembra materializzarsi nelle mani dell’aggressore anche l’arma bianca usata per colpire e straziare Simonetta.

Può forse pensarsi che la coppia fosse avvezza, durante i rapporti sessuali, a tenersi un tagliacarte a portata di mano per ogni eventualità?

Il Pubblico Ministero aveva ipotizzato che il tagliacarte fosse stato inizialmente impugnato da Simonetta per difendersi, per poi esserle sottratto con il seguito che sappiamo.

Perché il Giudice non fa sua questa ipotesi che, tra l’altro, fu anche indicata da Carella Prada?

Perché fornendo troppi dettagli si rischiava di evidenziare l’assoluta inverosimiglianza dell’intera costruzione accusatoria che nella dinamica conseguente ad un rapporto consensuale, ha il suo limite più forte.

Sono tantissimi i particolari non riferiti.

Nulla si dice del tagliacarte, del simulato furto, delle chiavi sparite, della porta socchiusa, dei testimoni che si contraddicono (Volponi e De Luca, Caracciolo e Baldi, Caracciolo e Macinati).

A volte il desiderio di celare scomode evidenze rasenta il grottesco, come nel caso del “testimone di fiducia” Salvatore Volponi.

Anziché cogliere nella nota esclamazione “bastardo”, il carattere ambiguo che tutti hanno sottolineato, il Giudice lo inserisce in coda alla narrazione sulla sofferenza di Simonetta opposta alla brutale indifferenza del fidanzato, cosicche il “bastardo” diviene un aggettivo da appioppare a Raniero Busco.

Tanta mediocrità e scorrettezza e visibile a tutti leggendo con attenzione l’intiera 115.

A fianco della discussione sul movente il Giudice riprende inoltre alcuni passaggi delle perizie per rimarcare nuovamente il carattere passionale del delitto nel quadro di un rapporto sessuale fra fidanzati finito malamente.

Alcuni di questi passaggi meritano tuttavia una particolare attenzione perché vi si scorge una certa malizia nell’orientare l’opinione del Pubblico Ministero verso conclusioni per nulla scontate, specie quando si allude ad una azione repentina in cui anche i fendenti portati con l’arma bianca, sarebbero avvenuti in tempi ravvicinati.

Quello che segue è il passaggio più eloquente:
“In concreto, ritengo verosimile si sia trattato di un unico mezzo, dotato di punta e bitagliente, anche se non particolarmente affilato quale, ad esempio, un tagliacarte, e che le ferite siano state prodotte in un breve/brevissimo arco di tempo. La loro produzione in un breve/brevissimo arco di tempo può risultare compatibile con una unica azione lesiva condotta in due momenti, il primo a carico del volto, del torace e dell’addome, il secondo a carico della regione genitale, sempre comunque in un arco temporale molto ristretto".

Si noti come il perito ripete ossessivamente che l’azione delittuosa si è svolta in tempi ristretti. In realtà la deduzione è del tutto arbitraria essendo completamente assenti in perizia indicazioni di tipo scientifico che possano far propendere per un’azione repentina. Ciononostante si afferma ostinati che i tempi furono brevi.

Con quale scopo?

Quello già accennato in un capitolo precedente, e cioè lo scopo di evocare unicamente una motivazione di tipo passionale (che si concilia con l’imputato), in cui l’overkilling esige che tutto si compia in tempi brevi, e non si scorga, al contrario, la motivazione sessuale di un uomo deviato e respinto.

L’analisi sulle motivazioni si conclude qui. Non vengono trattate, quindi, le parti in cui il Giudice si riferisce alle altre analisi scientifiche, avendole lui stesso ritenute inconcludenti.

Pure non si accenna alle osservazioni sulla “doppia catena causale” – il rinvenimento del cadavere da parte di Vanacore – su cui, a parere del Giudice, non sarebbe stata raggiunta la prova certa. Non avendo di che confutare, ci si astiene da commenti.

Per ogni approfondimento relativo all’interpretazione degli eventi cosiddetti “paralleli”, si rimanda a quanto già riferito nella “ricostruzione del delitto”.


Bruno Arnolfo

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