domenica 29 gennaio 2012

La stanza sbagliata

Via Poma, terzo piano, interno 7. C’è un appartamento maledetto dove è stata ammazzata una bella ragazza. C’è un telefono macchiato di sangue e c’è una stanza con una scrivania e un computer.

Sono passati quasi 22 anni, c’è stato un processo, c’è stata una condanna, eppure qualcosa non torna! Anzi più di qualcosa! Quel telefono, ad esempio! Tutti sembrano essere convinti che fosse posizionato nella stanza con la scrivania e il computer. Ma non è così!

Molto probabilmente il telefono macchiato con il sangue di Simonetta Cesaroni, forse commisto a quello del suo assassino era in una stanza diversa. Se davvero così fosse, come vedremo più avanti, cambierebbe di molto il punto di vista sui fatti inerenti il delitto.

Ora però facciamo un passo indietro. È il 24/02/2010, si sta svolgendo il processo per l’omicidio di via Poma e sul banco dei testimoni siede l’ispettore Ciro Solimene. A lui il pubblico ministero Ilaria Calò ha chiesto di descrivere lo stato dei luoghi al momento del sopralluogo la notte del 7 agosto 1990. Come da copione si inizia con la stanza dove venne rinvenuto il corpo di Simonetta. Poi Ilaria Calò chiede:

"PM: proseguiamo con la descrizione dell'ufficio successivo, ovvero quello in cui lavorava la vittima. Prego."

Prima di riportare la risposta di Solimene occorre prestare attenzione al complesso delle fotografie disponibili, per comprendere come in effetti fosse facile equivocare fra una stanza e un’altra, anche disponendo di una planimetria.
Al netto delle fotografie riferite a locali accessori (corridoio, bagno, locale fotocopie) e di quelle chiaramente appartenenti alla stanza del delitto, restano in tutto 7 fotografie, in teoria riferibili ai 3 locali rimasti: l’ufficio della Faustini (quello dopo la stanza di Carboni), l’ufficio della Sibilia (quello dopo la Faustini), l’ufficio della Berrettini usato anche dalla Cesaroni (quello dopo la Sibilia). Tre uffici in fila dunque, come si può notare nella planimetria qui sotto.



Dopo la foto n. 28 (l’ultima delle 22 fotografie scattate nell’ufficio di Carboni) inizia la sequenza che riguarda gli altri uffici aiag, ed abbiamo:

  • la foto 29 della stanza n. 2 – Faustini – raffigurata nel suo insieme e di cui non seguono dettagli (questa stanza, presumibilmente scambiata per quella in cui lavorava Simonetta, sarà in seguito ripresa anche da un giornalista accompagnato dal poliziotto che si vede all’interno).

  • il gruppo di foto dal n. 30 al n. 34 chiaramente riferite alla stessa stanza (stesso pavimento e con dettagli sovrapponibili tra la foto in campo lungo – la 30 – e quelle di dettaglio 31, 32, 33 e 34) sono attendibilmente associabili alla stanza n. 3 per testimonianza della titolare Maria Luisa Sibilia). A lei furono in particolare mostrate le fotografie 31 e 32 che riconobbe come immagini del suo ufficio (il dettaglio del tagliacarte e della cintura).











Una ulteriore riprova che quella era la stanza n. 3 posta di fronte all’ingresso, si ha dal riflesso che compare sulla finestra, in cui sono visibili i contorni della porta di ingresso e della serratura (elaborazioni immagini a cura del dr. Fell).




  • la foto n. 35 del computer sicuramente non appartenente alla stanza n. 3, in quanto lo scorcio di finestra visibile nella fotografia non ha riscontri con la foto n. 30 ove si scorge la finestra della stanza 3. Ne consegue che quel computer staziona in un locale diverso, quello appunto in cui lavora Simonetta, la stanza n. 4.



Riassumendo si può affermare quanto segue:
La stanza in cui risiede il telefono macchiato di sangue, diversamente da come si è sostenuto finora, non coincide con il luogo in cui è ubicato il computer in uso a Simonetta.

Ed ora la risposta di Ciro Solimene all’invito del PM di descrivere l’ufficio in cui lavorava la vittima

DICH. SOLIMENE: allora, l'ufficio sì. Praticamente... allora questo ufficio... vediamo un po'... allora in questo ufficio si osserva a distanza dalla parete destra una scrivania su cui poggiano carte varie, una sedia girevole e un tavolinetto su cui poggiano alcune carte, un tavolinetto vicino alla scrivania, alcune carte, una spillatrice e un tagliacarte metallico della lunghezza di centimetri 24, il cui manico è arrotondato con... e la con punta acuminata. Sulla spalliera della sedia girevole, poggia una cintura in tessuto color carne, presumibilmente io ho scritto, poi non so, da donna, presumibilmente.
PM: sì, sì.
DICH. SOLIMENE: a distanza dalla parete sinistra vi è una scrivania... una scrivania sulla quale poggiano pratiche varie, carte varie, eccetera e un telefono con citofono, il quale presenta la cornetta... la cornetta e su alcuni tasti, delle lievissime tracce rossastre, presumibilmente di sostanza ematica.

Secondo Solimene, e il PM conferma con il “si, si”, le due scrivanie sono parte dello stesso ambiente (giusto!) e quella in cui c’è il telefono con le tracce ematiche sarebbe la scrivania di Simonetta (sbagliato!)
L’equivoco si completa con la successiva richiesta del PM riguardo al computer.

PM: sì. Ecco passiamo poi ad esaminare il computer, che era sempre nella stanza in cui lavorava la vittima.

E evidente che il PM presuppone con quel “era sempre nella stanza” che la scrivania precedentemente descritta sia nella stessa stanza in cui stazione il computer, cosa non vera.

Un errore certamente non dovuto ad una momentanea distrazione. Infatti viene commesso anche da Cavallone, il procuratore da cui la dott. Calò ha ereditato l’inchiesta.
Ecco cosa dice il 20.10.2008 in sede di richiesta di riapertura delle indagini nei confronti di Vanacore Pietrino:


Prima ancora Pietro Catalani, il Pm che condusse l' inchiesta iniziale e che sulla questione scrivanie e telefono, così riferì in una nota al procuratore generale del 11.11.1992:



Forse l'origine dell'errore è ancora precedente, quando si confonde la stessa stanza (dove viene rinvenuta la cintura) con quella del computer. Il documento è un' informativa dell'ispettore Gobbi del 22-08-1990:



E’ stato accertato con sicurezza che l’ufficio di Simonetta era posto a sinistra della porta di ingresso. L’ufficio “di fronte” è quello della Sibilia, quello descritto in precedenza da Solimene e sappiamo che il telefono stava nella stanza di fronte all’ingresso (della Sibilia) assolutamente priva di computer.

Dunque abbiamo i titolari delle due inchieste che, seppur con sfumature diverse, affermano entrambi che la scrivania ove si trovava il telefono sporco di sangue, era occupata da Simonetta Cesaroni.
In apparenza, l’errore parrebbe privo di effetti pratici per i fini d’indagine. Infatti, non avendo ricavato dal contenuto di quella scrivania (le carte e gli oggetti che si trovano sul ripiano) elementi utili all’inchiesta, poco cambia se la scrivania non era quella della vittima, ma di un’altra impiegata.
A meno che…..
A meno che non vi sia una delle rimanenti impiegate degli ostelli a cui attribuire l’utilizzo della scrivania.
Ed è questa la sorprendente scoperta che si è fatta analizzando le fotografie e le testimonianze disponibili: nessuna delle impiegate che lavoravano in via Poma poteva occupare quella scrivania, essendo stata individuata per ciascuna di loro (in base a testimonianze ed altre evidenze) la propria postazione. Vedasi in proposito la ricostruzione che si propone nella planimetria precedente.

Ma allora chi occupava quella scrivania?
In via ipotetica si potrebbe pensare ad un uso, per cosi dire di appoggio, da parte della Sibilia, dimorante nella stessa stanza.
In tal caso, però, avremmo una disposizione di oggetti che suggeriscono un utilizzo a mo’ di deposito.
Al contrario abbiamo un telefono, un timbro, un barattolo con matite e oggettistica da ufficio, un posacenere con all'interno un mozzicone di sigaretta, pratiche ordinate sul lati. Il tutto disposto a raggiera rispetto alla sedia di un potenziale utilizzatore che si accomoda sul lato opposto.
Insomma, una postazione “viva” ed operante.
E allora vien da domandarsi se ci fosse qualche altra persona che poteva, anche solo saltuariamente recarsi in quegli uffici. Magari personale della sede nazionale o ex colleghi che ancora facevano visita agli uffici di via Poma.

Nulla al riguardo si è ricavato dalle carte, vecchie e nuove, dell’inchiesta sul delitto di via Poma. Anche le deposizioni processuali non offrono riscontri degni di nota.
E del resto la cosa non deve stupire. Avendo sempre ritenuto che quella fosse la scrivania di Simonetta, non vi era alcun motivo di porsi altre domande.
Le poche informazioni reperibili dalle carte provengono da domande fatte con altri scopi e che incidentalmente forniscono qualche spunto.
Si veda ad esempio uno scorcio di una deposizione della Faustini del 1996:

“Sapevo che Menicocci avrebbe dovuto istruire la Cesaroni inizialmente per renderla edotta dei meccanismi di inserimento delle varie voci di contabilità per consentire poi alla ragazza di proseguire il lavoro da sola. Devo anche aggiungere che oltre a Menicocci vi erano altri dipendenti della sede nazionale che erano a conoscenza dello stesso tipo di meccanismo ma non so se questa attività di istruzione fu svolta anche da qualche altro.”

Una indicazione, seppur sommaria, di altra gente che avrebbe potuto “dare una mano”
Non si è chiesto prima, ma si può chiedere ora.

Riempire quella scrivania non è, per chi indaga, un proposito fine a se stesso.
Su quella scrivania è passato l’assassino che ha lasciato il sangue (suo o di Simonetta o di entrambi) sul telefono, e ancora bisogna capire quale motivo poteva avere per sostare in quella stanza, quando la vittima stava in quella di Carboni, munita di telefono, e precedentemente nel suo ufficio sulla parte opposta, anch’essa con telefono (Simonetta lo usò per chiamare la Berrettini).

La questione non è affatto trascurabile e potrebbe persino dirimere fra due ipotesi opposte: quella del territoriale rispetto a quella di un esterno.
Infatti, se si pensa ad un esterno, e quindi a Raniero Busco, l’esigenza di telefonare sarebbe stata soddisfatta in uno dei due ambienti che egli aveva frequentato, entrambi muniti di telefono. Perché cercare altrove?
Ma se al contrario si pensa ad un territoriale, e quindi a persona che conosceva bene quelle stanze, l’ufficio della Sibilia poteva essergli così famigliare da indurlo istintivamente a farne uso, forse anche per sistemare il famoso tagliacarte.

Se non fosse stato per la sua imperizia di lasciare tracce di sangue sull’apparecchio telefonico, e per il fatale ricordo di Maria Luisa Sibilia sul tagliacarte che la mattina aveva cercato e non trovato, mai nessuno avrebbe pensato al suo ingresso in quella stanza che non c’entrava nulla.
Ma l’assassino di via Poma ha avuto una incredibile fortuna: tutti coloro che hanno indagato sul caso si sono confusi con le fotografie, assumendo che la scrivania col telefono sporco di sangue fosse quella usata da Simonetta.
Una scrivania quindi che non offriva alcun indizio.

Fino ad oggi.

Bruno Arnolfo

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