martedì 10 gennaio 2012

Testimoni fortunati

Nelle vicende della vita si è sempre testimoni di qualcosa, per avervi preso parte o avervi assistito, e quando il “fatto” di cui siamo testimoni diviene per qualche ragione materia di indagine, si è pure costretti a rendere testimonianza, influendo in questo modo sull’esito delle indagini.
Una descrizione sommaria del concetto di “rimanere coinvolti” che a ben vedere non è propriamente realistica.
Nel vissuto reale il “rimanere coinvolti” assume un significato più malizioso, tanto che ci si ritiene coinvolti soltanto quando non si può evitare di esserlo.
Per dire, in un incidente stradale può capitare che ci è impossibile negare di aver visto il sinistro (altri testimoni ci hanno segnalati, vi sono telecamere che provano la nostra presenza, abbiamo prestato soccorso ecc. ecc..), ma può anche succedere che nulla possa provare che noi abbiamo visto, lasciando aperta la possibilità di sottrarsi dal rendere testimonianza.
Nel primo caso si è “sfortunati” in quanto comunque costretti a riferire i fatti di cui si è testimoni, fosse anche falsamente.
Nel secondo caso si è invece “fortunati” in quanto la decisione di astenersi dal raccontare i fatti pur conoscendoli, non può essere scoperta (o quantomeno è assai difficile che lo sia), per cui ci si può tranquillamente mischiare con coloro che effettivamente nulla sanno. Un ottimo beneficio per chi fosse coinvolto in modo troppo diretto.

Il delitto di via Poma non fa eccezione.

Sappiamo quali sono i testimoni sfortunati. Essenzialmente tre, ognuno dei quali sapeva da prima, e non poteva negarlo, che Simonetta avrebbe lavorato in via Poma il pomeriggio del 7 agosto.
Dalla lista vanno esclusi i famigliari di Simonetta di cui non è di alcuna utilità saperli più o meno informati (tra l’altro la madre ricordava soltanto che l’indirizzo aveva un nome corto).

Salvatore Volponi è il primo.
E’ l’unico datore di lavoro rimasto (Bizzochi è in ferie) e non può quindi ignorare cosa faccia la sua dipendente quel giorno.
Paola Cesaroni lo costringe pure ad avviare le ricerche, a dire di eventuali accordi con Simonetta, a negare di conoscere l’indirizzo esatto, ad essere subito preda degli inquirenti.
Salvatore Volponi può aver mentito sui fatti che racconta, ma non può astenersi dal parlare di quei fatti.

Pietrino Vanacore è il secondo
Testimone da due mesi degli ingressi di Simonetta nel palazzo in orari e giorni prestabiliti difficilmente può ignorare che la vittima sarebbe stata lì quel pomeriggio. In ogni caso gli inquirenti pensano subito a lui e lo accusano di omicidio.
E’ costretto più di chiunque altro a raccontare i fatti.

Luigina Berrettini è la terza.
E’ lei che prepara il lavoro a Simonetta e non può quindi ignorare che il pomeriggio sarebbe venuta in ufficio.
E’ pure costretta a riferire di quella telefonata ricevuta da Simonetta, avendone già parlato con la Baldi nel pomeriggio quando si informa dei codici da inserire.
Come per Volponi e Vanacore ha molte cose da dire e, forse, molte ragioni per mentire.

Tutti gli altri non sono testimoni, se non per qualifica giuridica ottenuta al processo, non avendo essi cognizione del fatto che Simonetta stava in via Poma quel pomeriggio.
A meno che, ovviamente, non si tratti di un “testimone fortunato” uno che ha potuto nascondersi fra tutti quelli che non sanno, proprio perché nessuno sapeva che egli o ella era informato della presenza di Simonetta in via Poma il 7 agosto 90.

Fra i testimoni sfortunati, che mentono o dicono il vero di ciò che raccontano, e i potenziali testimoni fortunati che sicuramente mentono non raccontando ciò che sanno, vi è una terza categoria a cui appartiene un solo soggetto: l’assassino.
Costui è una sorta di testimone fortunato, il più fortunato di tutti.

E allora vien da chiedersi se uno così fortunato poteva cavarsela senza l’aiuto di un testimone altrettanto fortunato.

Bruno Arnolfo

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