martedì 10 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - prima parte

ANALISI CRITICA DELLE MOTIVAZIONI
DELLA SENTENZA A CARICO DI RANIERO BUSCO

Sono bastate tre righe, subito alla seconda pagina delle motivazioni di condanna di Raniero Busco, per cogliere il tenore complessivo del giudizio di 1° grado espresso dalla Corte di Assise di Roma:

"Simonetta aveva insistito con Volponi che non era necessario che anch’egli si recasse quel pomeriggio in via Poma, ma che sarebbe stato sufficiente che ella gli telefonasse verso le 18-18:30….per riferirgli a che punto era con l’inserimento della contabilità"

Dunque, secondo la Corte, fu Simonetta da sola a decidere il suo destino il mattino del 7 agosto, quando, risoluta, dissuase il suo datore di lavoro dal recarsi anch’esso in via Poma, ove evidentemente la giovane si era programmata un incontro intimo da consumare con il fidanzato.

Parole nette, definitive, che paiono un fatto acclarato che non ammette repliche.

Sembrano parole udite dalla viva voce di Simonetta
Ma non è così.
Sono tratte da un libro scritto dal testimone più controverso di questo processo: Salvatore Volponi.

L’uomo che per sua stessa ammissione nutriva con quelle rivelazioni solo ed esclusivamente scopi commerciali, in ciò sospinto dal suo editore, desideroso di infarcire il racconto di scenari cupi e misteriosi adatti al grande pubblico.

Una rivelazione che al processo si è tradotta in una testimonianza che le parti (anche la difesa) hanno accettato senza obiettare alcunché.
Il Giudice si è affrettato ad usarle, insinuando con questa citazione che Simonetta volesse assicurarsi campo libero per ricevere l’amato Raniero sul luogo di lavoro.

Eppure gli atti offrivano molti spunti per diffidare delle dichiarazioni di Volponi e non solo perché maturate nell’ambiguità del racconto consegnato alle stampe nel 2004, e neppure per le note discrepanze testimoniali che ne minano la credibilità (dichiarazioni processuali di De Luca, Vanacore e Menicocci sulla frequentazione di Via Poma negata da Volponi).

Le evidenze più forti erano nelle carte dell’inchiesta del 1990, ove Volponi forni numerose deposizioni, addirittura confortate da estesi memorandum da lui stesso redatti.

In nessuno di questi atti che coprono i primi mesi di indagine sul delitto, Volponi riferisce o anche soltanto allude, ad una situazione nella quale Simonetta insiste per rimanere da sola al lavoro.
Ciononostante il racconto dei fatti comincia facendo dire a Simonetta ciò che in realtà ha detto Volponi, non davanti ad un poliziotto od un giudice, ma innanzi al suo editore.

L’estensore prosegue la narrazione dei fatti occorsi il 7 agosto 1990.
Lo fa in modo molto sommario, e quando riferisce delle ricerche della sorella cade in una sorprendente imprecisione.
Afferma infatti (pag. 2) che Volponi ignora il numero di telefono dell’ufficio di via Poma cosiccome l’indirizzo, senonchè in aula (12.11.2010) e nelle stesse dichiarazioni del 1990 (14.8.1990) il datore di lavoro di Simonetta ha affermato di avere quel numero e anche di aver telefonato invano, come pure ricorda Paola Cesaroni (8-8-1990: 'Volponi a questo punto attacca il telefono e, mentre io leggo i numeri di telefono di via Poma, il primo corrispondeva ad un numero scritto sul blocco delle tele­fonate'). Da questo fatto scaturì la nota osservazione (all’epoca dei fatti e anche in aula) circa il fatto che telefonando alla SIP si sarebbe ottenuto facilmente l’indirizzo.
Non è un errore che incida in modo significativo nella vicenda e tantomeno nel Giudizio, tuttavia sorprende la vistosa lacuna della Corte.
Ce ne saranno altre.

Dopo la descrizione dei fatti principali occorsi il 7 agosto, il giudice di 1° grado fornisce un ampio resoconto dei procedimenti giudiziari occorsi nel 1990 a carico di Pietrino Vanacore e a partire dal 1991 a carico di Federico Valle e nuovamente di Vanacore, questa volta per favoreggiamento.
L’esposizione si avvale di un ampio stralcio delle imputazioni nei confronti di Vanacore, formulate nei due procedimenti dal giudice Catalani, nonché della conclusiva sentenza del GUP con la decisione di non luogo a procedere.

A pag. 9 il giudice di 1° grado inaugura la trattazione della nuova inchiesta saltando a piè pari ogni aspetto inerente le vicende che hanno caratterizzato il caso con abbondanza di dettagli tecnici e riscontri testimoniali, mostrando fin da subito di voler centralizzare ogni discorso sulle risultanze scientifiche, a dispetto persino di evidenze ricavabili dall’ultima inchiesta.


Scompaiono di scena i testimoni e i fatti dai quali poteva dedursi un contesto che conduceva ad ipotesi prossime all’ambiente lavorativo, o comunque di un assassino che aveva una marcata confidenza con i luoghi. In una parola, l’ipotesi del cosiddetto territoriale.

Si evita di parlare di tesi alternative per evitare di contraddirle.

Con abbondanza di riferimenti alle perizie e alle trascrizioni dei verbali d’udienza, il giudicante illustra l’indagine scientifica condotta sugli indumenti della vittima, mostrando in dettaglio le campionature eseguite su corpetto e reggiseno alla ricerca di tracce biologiche di un soggetto diverso da Sinonetta Cesaroni.
L’illustrazione prosegue fino a pag. 39 con fugaci interventi dell’estensore a confutazione delle obiezioni difensive che sommariamente possono così enumerarsi:
  1. obiezioni di carattere procedurale circa la maldestra conservazione dei reperti e la possibilità di una contaminazione fra di essi o con agenti esterni
  2. obiezioni riguardo all’impossibilità di determinare la natura biologica delle tracce (saliva, sudore, muco ecc…
  3. impossibilità di provare la con testualità delle tracce biologiche al delitto non potendosi dimostrare che gli indumenti erano stati lavati prima di essere indossati, circostanza che peraltro impone un lavaggio in lavatrice e non a mano come era usale per la madre per quel tipo di indumenti(le tracce di saliva resistono al lavaggio a mano)
  4. indimostrabilità, relativamente al corpetto, della contaminazione salivare contestuale al morso, per la circostanza che l’indumento non era verosimilmente indossato.
Qui occorre prestare la massima attenzione, altrimenti si rischia di essere traviati dall’astuta condotta del giudicante nel contrastare le tesi difensive.
Occorre infatti precisare che le prime due obiezioni difensive sopra annotate, non possono inficiare la validità della prova scientifica nel suo complesso, se non su un piano meramente formale e metodologico.
Forse non era neanche il caso di esporre siffatte obiezioni.
Sta di fatto che la Corte si avventerà con dovizia e abbondanza di argomentazioni proprio sulle prime due obiezioni della difesa.
Prima di esaminare in dettaglio i 4 punti occorre dar conto di un’altra argomentazione di carattere generale, usata dal Giudice a corredo dell’affermata contestualità delle tracce biologiche all’aggressione.

Si tratta della “topografia” delle tracce appartenenti a Raniero Busco visionate mediante apposizione su manichino dei due indumenti, laddove si evidenzia una marcata prevalenza dei campioni biologici in corrispondenza dei seni, con prevalenza su quello sinistro, e progressiva scomparsa di tracce man mano che ci si allontana dai medesimi.

Riferisce la Corte:

“Si rileva tuttavia che un elemento fortemente indiziante del rilascio di tracce biologiche proprio in occasione dell’omicidio è rappresentato dal fatto che tali tracce sono particolarmente evidenti nell’area del reggiseno e del corpetto corrispondente ai seni della ragazza e più marcatamente al seno sinistro…”.

Una affermazione grottesca!
Non si capisce infatti quale rilevanza possa avere la citata prevalenza di tracce di saliva in corrispondenza dei seni, posto che nessuno contesta che l’imputato ebbe in precedenza contatti intimi con la fidanzata, durante i quali Raniero Busco, al pari di qualsiasi uomo del pianeta, ebbe a preferire le effusioni sui seni piuttosto che in uno sparuto angolo del tronco femminile.

E se anche si dovesse accertare che vi era più saliva sul seno sinistro rispetto a quello destro , vorrà dire che Raniero Busco, al pari di metà della popolazione mondiale maschile, predilige inclinarsi sulla destra, piuttosto che sulla sinistra.



Torniamo ora ai punti contestati dalla difesa.

Nella prima di queste obiezioni viene rilevata la scorretta modalità di custodia dei reperti.
Cogliendo la sostanziale irrilevanza sul piano probatorio di siffatte obiezioni, il Giudice di 1^ grado si prodiga in estese controdeduzioni confortate della consueta giurisprudenza concorde nel definire la mancanza di sigilli un elemento di per se non idoneo a invalidare l’uso di reperti a fini processuali.
Si parla molto di una cosa che conta poco

Nella seconda obiezione la difesa apre una disputa sulla natura delle tracce biologiche – sudore anziché saliva – con il proposito di rendere meno agevoli le congetture della tesi accusatoria circa la dinamica del morso a danno del seno della vittima, idoneo a produrre saliva e non sudore.
La tesi difensiva è assai debole e pure inconcludente dal momento che non è in grado di offrire argomenti persuasivi in direzione dell’ipotesi sudore (al contrario dell’accusa che può produrre, se non la certezza, numerosi elementi che indicano che si trattava di saliva).
Inoltre, come si vedrà, forzare l’ipotesi sudore contraddice una obiezione ben più forte, la terza!
Il Giudice sfrutta la debolezza della tesi difensiva per “inondare” nuovamente le motivazioni di argomenti stringenti e precisi a confutazione dell’asserita presenza di sudore al posto della saliva.

Ed eccoci alla terza obiezione, pesantissima. Chiara e lampante se non fosse per l’incauta diatriba di cui si è detto prima, e cioè l’aver sostenuto l’ipotesi del sudore.
Le sperimentazioni dei RIS provano che il lavaggio a mano elimina le tracce di sudore ma non quelle di saliva, e, come è noto, la mamma di Simonetta ha dichiarato in aula che era solita, specie d’estate e per quel tipo di indumenti, fare il bucato a mano.
In pratica le tracce del fidanzato, se di saliva, potevano persino resistere a numerosi lavaggi!

Cade, o meglio frana miseramente, la prova del DNA, in quanto la formazione di tracce biologiche di Busco in data 7 agosto 1990, rimane soltanto una congettura del tutto indimostrabile.

A meno di un gioco di prestigio che il Giudice produce in sole quattro righe (mancano gli argomenti per parlarne a lungo).

Si legge nelle motivazioni:

“Tuttavia, osserva la corte che se anche, per assurdo, si dovesse escludere l’unica ipotesi compatibile con il quadro indiziario emergente dagli atti, ovvero che si tratti di residui di saliva, va comunque ribadito che è certa, (e peraltro, come si ripete, non contestata) l’attribuibilità delle tracce biologiche al BUSCO”

Ora al giudice conviene compiacere la “teoria del sudore” e la utilizza per dimostrare come in ogni caso ci si troverebbe di fronte all’ineluttabilità della presenza del DNA di Busco.

A parte il fatto che un tale postulato priverebbe la Corte della prova del morso (“no saliva, no morso”, direbbe il caro George) non è certo consentito servirsi, secondo convenienza, di teorie diverse per confutare le deduzioni difensive.
Se la Corte afferma che si trattava di saliva, saliva rimane sempre, e si accetta serenamente che corpetto e reggiseno potevano avere, anzi quasi sicuramente avevano, tracce organiche di Raniero Busco antecedenti il fatto delittuoso.

La quarta obiezione, anch’essa molto importante, viene “scantonata” dal Giudice nello stesso modo di prima: con poche righe e con un altro gioco di prestigio.
Si tratta del fatto che il corpetto che fu trovato sbottonato e posato sul ventre della vittima, immune da macchie di sangue e da fori prodotti dall’arma da taglio, suggeriva nettamente l’eventualità che la vittima se lo fosse tolto prima dell’aggressione (per aderire spontaneamente ad una intesa amorosa, per compiacere il corteggiatore di cui aveva paura, per altri motivi).

Qui occorre ricordare per l’ennesima volta che il rinvenimento del DNA di Busco sugli indumenti diviene prova solamente se è possibile affermare la contemporaneità del formarsi delle tracce all’aggressione, o quantomeno che non è possibile provare il contrario.

Ciò che mostra la difesa è appunto la prova del contrario.


Infatti, se il corpetto non fosse indossato al momento dell’aggressione nulla potrebbe dimostrare che l’imbrattamento di saliva è avvenuto in quel luogo e in quel tempo, o piuttosto in altro luogo e in altro tempo.

Ora si presti attenzione alla replica del Giudice:
“E’ fin troppo ovvio replicare che, essendo il fatto avvenuto nel contesto preliminare di un rapporto sessuale, (come più avanti si preciserà), Simonetta ben poteva essersi tolta il corpetto dopo che BUSCO le aveva toccato con la bocca i seni, seppure coperti dal corpetto e dal sottostante reggiseno allorché entrambi erano da lei indossati. Peraltro, l’obiezione non giustificherebbe comunque la presenza del DNA sul reggiseno, certamente indossato al momento del morso”

Questa osservazione è fuorviante e non pertinente.
Nessuno nega, infatti, che possa essere accaduto ciò che descrive il Giudice, e cioè che la contaminazione sul corpetto sia avvenuta nel corso di preliminari che hanno preceduto la svestizione e poi il morso.
Il punto cruciale e che se così fosse è assolutamente indimostrabile la contestualità, non essendoci modi di sostenere che detti preliminari amorosi siano avvenuti pochi minuti prima l’aggressione o svariati giorni prima.

Pure inutile è osservare che sul reggiseno è comunque presente il DNA di Busco e che questo era sicuramente indossato al momento del presunto morso.
Infatti, benché ciò sia vero, a nulla serve rimarcarlo, in quanto è sufficiente che su un solo indumento sia agevolmente ipotizzabile la contaminazione pregressa, per dedurre come possibile anche quella sull’altro indumento.
Si aggiunga che nella relazione dei RIS, diversamente dal Giudice, i periti hanno sostenuto che il corpetto fosse indossato proprio per rendere utilizzabile la prova del DNA. Tesi semplicemente affermata e non dimostrata, come purtroppo si usa fare.

Resta, a margine di questa prima parte di analisi delle motivazioni esposte dal Giudice di 1^ grado, l’impressione di una sostanziale leggerezza nel trattare il caso.
In queste prime 40 pagine, l’estensore si affida quasi sempre alle risultanze peritali senza produrre particolari riflessioni e, soprattutto, affrancandosi totalmente da ogni contesto fattuale ricavabile dalle centinaia di elementi che le inchieste di oggi e di ieri hanno prodotto.

Procedendo nella lettura ciò apparirà ancora più grave ed intollerabile.

Bruno Arnolfo

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