mercoledì 18 maggio 2011

Analisi delle motivazioni - seconda parte

Il morso

A pag 40 il Giudice introduce il capitolo dedicato alla “lesione (morso) al capezzolo sinistro” e insiste da subito sull’estrema rilevanza probatoria di tale esame peritale, con ciò assumendo che il disinteresse mostrato dagli investigatori della 1^ inchiesta fosse segno di evidente imperizia.

In verità la questione del morso è stata nel corso degli anni, niente più di una supposizione come ebbe a dire in più occasioni lo stesso esecutore dell’autopsia – dr. Carella Prada -, sicchè appare ingeneroso censurare l’operato di polizia e magistratura.

Oltretutto le ragioni che all’epoca indussero gli inquirenti a non considerare l’ipotesi di effettuare rilievi sulla lesione al capezzolo, non era certo dovuta al fatto che si ignorasse la cosa.

Molto più semplicemente si riteneva che un tale tentativo avrebbe prodotto soltanto risultati incerti o inconcludenti, forse persino rispetto alla possibilità di stabilire che di morso si trattava.

Opinione condivisa dai magistrati che riaprirono l’inchiesta nel 1996 e, parrebbe, dagli stessi magistrati che hanno seguito l’ultima inchiesta, se è vero come è vero che agli inizi – anno 2004 – i rilievi scientifici furono circoscritti ai locali esterni (lavatoi) e ai reperti disponibili (inclusi indumenti), con accenni al possibile morso, solamente come indicazione ai RIS di una possibile causale al deposito di saliva su corpetto e reggiseno.

Soltanto dopo gli esiti infruttuosi degli esami del sangue e, relativamente alla contestualità, dello stesso DNA, la procura, ottenuta una proroga delle indagini, commissionò a fine 2008 la cosiddetta perizia dentaria.
Dunque una decisione che non matura nel quadro degli usuali accertamenti peritali, nel qual caso si sarebbe fatta subito, ma nell’evidente intento di “provare l’ultima carta”.

La descrizione della lesione che si vorrebbe attribuita ad un morso è affidata alle relazioni di Carella Prada nelle due versioni del 1990 – autopsia – e 2007 – consulenza – e del maggiore Pizzamiglio, i quali concordano nel dire che le lesioni alla cute e la deformazione al capezzolo sono dovute all’azione di due mezzi, uno superiore l’altro inferiore, che “hanno serrato come una morsa il capezzolo” . Da qui la deduzione che “i mezzi” altro non sono che le arcate dentarie.

Ottima osservazione, senonchè la medesima compatibilità è riscontrabile con un'altra componente “molto a portata di….. mano”, e cioè le dita, anch’esse in grado di esercitare una pressione sul capezzolo in qualunque direzione e intensità si voglia.

Si aggiunga poi che le unghie possono incidere sulla cute nella misura voluta dall’aggressore, molto più agevolmente di quanto possa farsi con i denti.

Un ulteriore rilievo fatto dai consulenti si ha riguardo alla “vitalità” delle escoriazioni, resa evidente dalla presenza di una crosticina siero ematica, che non avrebbe potuto prodursi se al momento della lesione Simonetta fosse già deceduta. Questa evidenza avrà in seguito la sua importanza in quanto il Giudice assumerà questo fatto come rilevante al fine di contestualizzare il morso alla azione delittuosa, e ciò attraverso la comparazione a un’altra lesione, pure munita di crosticina, di cui si ha certezza della contestualità al delitto.

Questo ultimo rilievo, grossomodo condivisibile (nel processo c’è stata invece opposizione da parte della difesa), non è comunque dirimente riguardo alla cruciale questione di quale sia la causa della lesione.

Invece il giudice assume per certo che la causa sia un morso, né pone in discussione questo elemento, ignorando quindi ogni ipotesi alternativa che pure fece lo stesso consulente Carella Prada nell’intervista al Corriere della Sera del 2004, dove ebbe a dire che poteva trattarsi di un pizzicotto.

Dunque il giudice così conclude (pag. 45):
Tanto premesso, osserva la Corte che la contemporaneità tra il morso e l’aggressione alla giovane, oltre che riferita dai consulenti del PM, le cui argomentazioni sono apparse logiche, congruenti rispetto ai principi scientifici comunemente accettati e fondate su corretti elementi di fatto, e solo apoditticamente contrastate da quelle del consulente della difesa, trova oggettivo e indubbio riscontro in quella sorta di graffio, di cui si è detto sopra, arrecato con il tagliacarte che l’assassino ha per 29 volte affondato nel corpo della ragazza e che presenta una crosticina siero ematica dalle stesse caratteristiche di quella rilevata sul capezzolo sinistro

Se noi togliamo la parola in neretto “morso” e la sostituiamo con “lesione al seno”, nulla di quanto detto sarebbe da osteggiare pregiudizialmente, fino a condividere nella sostanza le affermazioni del giudice.


Persino potrebbe ricavarsi dal riferimento alla ferita similare prodotta con il tagliacarte, una similitudine più marcata di quella voluta dal Giudice, e cioè la possibilità che l’arma da taglio usata per uccidere abbia concorso a produrre sia la ferita “a graffio”, sia quella al capezzolo.

Ecco dunque che le ipotesi diventano tre: il morso; il pizzico; il taglio con lama congiunto a pressione con dita.


Infine è opportuno far notare una cosa estremamente importante.
Se le due lesioni ritenute dal giudice coeve al delitto, avvennero con Simonetta viva (presenza della crosticina), allora occorre interrogarsi sul perché la vittima non oppose reazioni degne di nota (assenza segni difesa), posto che l’azione di un morso doloroso da un lato e la strisciata della lama sul corpo dall’altro, dovevano prendere un certo tempo, durante il quale è appunto inimmaginabile che Simonetta non avesse reagito.

Verrebbe quasi da pensare che il ceffone ebbe effetti così devastanti da inibire per sempre capacità reattive, senza però causare la morte( si pensi al caso del pugno di De Giovanni alla stazione). Ecco che in questo modo troverebbero spiegazione le due ferite con crosticina, di persona ancora in vita ma inerte.

Se questo è l’unico modo in cui possa giustificarsi la vitalità (crosticina) da un lato, e l’assenza di reazioni della vittima dall’altro, ne consegue che prima del ceffone non ci fu alcun morso.
Nessuno può ignorare cosa questo comporti.

Eliminando il morso come causa della reazione di Simonetta e della controreazione dell’assassino (ceffone) svanisce la pretesa di inquadrare il tutto nello scenario di un rapporto consenziente con il morso a fare da grossolano preliminare.

Svanisce anche la trama voluta dai consulenti, della saliva che imbratta gli indumenti in simultanea e in sovrapposizione alla ferita riscontrata sul capezzolo.

Inoltre, senza il morso prima, è difficile immaginarlo dopo, quando e ben evidente che l’assassino intese affidare all’arma bianca e non ad altri mezzi le sue insane attenzioni.

Queste considerazioni sono importanti non solo per le implicazioni probatorie (il morso che si collega alla saliva e quant’altro), ma anche per quanto ci svela della personalità dell’assassino e dell’esatta natura del suo gesto.
L’accusa, braccata dall’idea che poteva trattarsi solo del fidanzato, ha volutamente contestualizzato il fatto all’interno di un rapporto consenziente e quindi passionale, ascrivendo poi alla presunta natura aggressiva del Busco l’esito infausto che ne è seguito, con tanto di overkilling.
Ma a smentire in modo clamoroso la natura passionale del delitto vi solo le ferite prodotte, tutto fuorché ascrivibili all’overkilling.

Non vi è stata infatti la frenetica deriva di una aggressione, dove le ferite si sommano non per la necessità di uccidere ma perché la foga non può facilmente contenersi.

L’assassino ha disegnato sul corpo della vittima le sue perversioni senza alcuna foga. Non ha ecceduto nelle lesioni mortali al cuore. Ha diretto le sue attenzioni agli occhi, al seno, al ventre, ai genitali esternamente e poi internamente.
Ha consumato il suo delirio con gusto.
Si tornerà sulla natura del delitto più avanti, quando si accennerà al movente e alle osservazioni prodotte nelle motivazioni.

La lunga dissertazione sulla prova del morso, quasi integralmente frutto di richiami al contenuto delle perizie e delle deposizioni in aula, inizia a pag. 46 e si dispiega in una serie di rilievi che in sostanza dovrebbero provare la corrispondenza dei segni rinvenuti nell’area del capezzolo sinistro, all’impronta che i denti di Raniero Busco dovrebbero produrre nell’atto di morsicare il seno della fidanzata.

A dispetto di una produzione grafica e fotografica alquanto voluminosa quanto inconcludente, non viene mai indicata, né dai periti né dal giudice, una precisa corrispondenza fra le misure riferite alle incisioni sulla cute (peraltro per nulla chiare) e quelle dei denti laddove questi sono “a contatto”.
Si notino le seguenti conclusioni riferite ad alcuni dei rilievi eseguiti.

In un caso:
La zona della lesione CD corrisponde alla superficie vestibolare 42 (incisivo laterale inferiore destro) che si contrappone a quello disto palatina dell’11 (incisivo centrale superiore destro). La dimensione della lesione di 4.5 mm. corrisponde a circa 80% del dente e può essere compatibile con la porzione incisale del 42"
In un altro caso:
La zona della lesione FE corrisponde al 32 (incisivo laterale inferiore sinistro) e in modo particolare a quella piccola porzione distale del suddetto dente che incide con il margine incisale del 22 (incisivo laterale superiore sinistro). Il rapporto fra dimensione esigua della lesione: 2.5 mm. si relaziona con la piccola porzione di dente interessata da un contatto occlusale."
In un altro caso ancora:
"La zona della lesione GH corrisponde al 33 (canino inferiore sinistro) ed in particolar modo al suo versante distale che si contrappone al versante mesiale del 23 (canino superiore sinistro). La dimensione: 4,8 mm. è compatibile con le dimensioni della faccetta d’usura presente nel 33."

Dunque abbiamo nell’ordine un “e può essere compatibile” un “si relaziona” e un “è compatibile”, espressioni diverse, ciascuna caratterizzata dalla vaghezza e indeterminatezza, del tutto insufficienti a valutare ciò che si vorrebbe, e cioè la perfetta coincidenza delle due misure (incisione e porzione del dente incidente), senza la quale è irragionevole parlare di prova.

La cosa inaccettabile è che mentre si da conto della misura dell’incisione, quella opposta del dente non viene neppure indicata.

Non solo mancano queste misure, ma pure è assente la misurazione delle distanze fra i vari segni lasciati sulla cute della vittima, anche questi bisognosi di un raffronto millimetrico con le rispettive distanze rinvenibili nelle occlusioni dentali.

Ma il giudice non si pone problemi e neppure commenta, e a pag. 55 consegna la parola al consulente della difesa dr. Nuzzolese.

Le argomentazioni difensive, al pari di quelle dell’accusa, sfociano presto in tecnicismi poco comprensibili, per cui è arduo comprenderne tutti i passaggi, sebbene appaia chiara la critica sul versante metodologico, ancorché più specificatamente metrico.

Lo spazio consegnato alle citazioni è sicuramente abbondante, sia che riguardi i rilevi tecnici dell’accusa, sia quelli di senso opposto della difesa, semmai scoraggia l’esiguità degli interventi del giudicante, tanto che nelle 18 pagine che le motivazioni dedicano all’esame tecnico delle opposte perizie, all’incirca una pagina è trattenuta dall’estensore per le proprie osservazioni.


Il tono di questi interventi, già alquanto sparuti, sono comunque univoci nell’affermare apoditticamente la fondatezza della perizia dell’accusa e l’irrilevanza delle obiezioni difensive, il tutto senza approfondimento alcuno.


Basti ad evidenziare tale modesto approccio alla tematica, il modo con cui l’estensore chiude l’argomento “morso”.

Lo fa consegnando l’ultima parola all’accusa e riproducendone integralmente le conclusioni (pag. 63), anziché occuparsene direttamente.

Per il Giudice basta così.

E’ il momento dell’alibi di Busco e per discuterne occorre fissare l’ora della morte.


Bruno Arnolfo

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