mercoledì 26 gennaio 2011

Igor Patruno: "24 anni a Raniero Busco"

Quando, poco dopo le 16.00, il presidente della terza corte d’Assise di Roma, Evelina Canale, ha letto la sentenza emessa nei confronti di Raniero Busco, accusato di aver ucciso il 7 agosto 1990 la sua fidanzata Simonetta Cesaroni, io ero tra i colleghi giornalisti che da quasi un anno stanno seguendo il processo.
Quello che è accaduto subito dopo la condanna a 24 anni è difficile da sintetizzare in poche battute. L’imputato è stato colto da malore e accompagnato nel bar dell’aula bunker di Rebibbia dal fratello e dalla moglie, l’unico posto dove potersi sedere senza subire l’assalto dei cronisti; gli amici della famiglia Busco presenti tra il pubblico si sono messi ad esternare un dolore sordo gridando sommessamente; i giornalisti hanno circondato letteralmente sia l’avvocato Paolo Loria, patrocinante dell’imputato, sia l’avvocato Lucio Molinaro, rappresentante della madre di Simonetta; fotografi e video operatori si sono precipitati davanti l’accesso al bar sperando di poter cogliere pezzetti di dolore per il telegiornale della sera. Scene già viste altrove. Ma ogni volta scene laceranti per chi le osserva in disparte, senza lasciarsi trascinare nel gorgo della notizia da confezionare inglobando insieme malessere e soddisfazione, disperazione e voglia di giustizia.
Tutte le sentenze devono essere rispettate. Lo richiede il principio fondamentale su cui si basa la convivenza civile. Ma la colpevolezza definitiva può essere acclarata e sostenuta soltanto dopo il terzo grado di giudizio. Si tratta di una prerogativa che tutela qualsiasi cittadino di fronte alla comunità. Detto questo però, devo confessare che la sentenza di condanna non mi ha convinto per niente. D’altra parte nemmeno la giuria popolare deve essersi convinta completamente, altrimenti non avrebbe dato le attenuanti generiche. Di fronte ad un omicidio come quello di Simonetta Cesaroni, di fronte ad un imputato finito sotto processo venti anni dopo i fatti, non avrebbero dovuto esserci mezze misure: o l’ergastolo, o l’assoluzione. Tutto il resto appare non adeguato!
L’ultima udienza del processo era iniziata poco dopo le 9.30 con le repliche del pubblico ministero, delle parti civili e della difesa. Nell'aula bunker c’erano sin dalle 8.30 decine di cronisti, di fotografi, di operatori. Ognuno per fare al meglio il suo lavoro. Ma quando stai vicinissimo all'oggetto delle riprese - come è capitato a me - ed hai modo di vedere come ogni scatto, ogni accendersi di lucetta rossa indicante videocamere in funzione provoca un sussulto, un incupimento del volto, uno smarrimento, allora è diverso. Allora capisci che vuol dire "violenza mediatica". Prima dell’inizio parlo con i colleghi, sono divisi tra quelli che "sperano" in una assoluzione, ma temono una condanna, tra quelli che sono certi della condanna e quelli che sono convinti dell'assoluzione. Gli ultimi sono pochissimi. Quando ci si avvicina ad un bivio inevitabile, ovvero al momento della sentenza, chiunque avverte l'incertezza che pesa su ciò che accadrà.
Poi è entrata la corte. Tutti in piedi e l’udienza ha avuto inizio.
Il PM ha svolto la sua replica con il sottofondo continuo delle “mitragliate” degli apparecchi fotografici.

Ilaria Calò è meticolosa e puntigliosa. Mette poca enfasi nel suo modo di esporre i ragionamenti, ma non concede nulla alla difesa. “Ha detto l’avvocato Loria che il tassello della porta sarebbe stato conservato male, che sarebbe rimasto a lungo negli scantinati della Questura Centrale. Non è vero! Il tassello è rimasto conservato presso l'istituto di Medicina Legale. Analogamente la difesa ha messo in dubbio l’attendibilità delle tracce biologiche rinvenute sul corpetto e sul reggiseno. Non è vero! I reperti sono stati conservati correttamente. Prima essiccati al sole e poi riposti in una busta, quindi analizzati per la prima volta nel 2007 dal Ris di Parma. La difesa ha parlato di reperti inquinati a causa della lunga permanenza nella stessa busta. I periti del pubblico ministero hanno dimostrato che il DNA non può migrare, quindi non ci può essere stata nessuna contaminazione. Ma l’aspetto più importante che la difesa non ha sottolineato è l’assenza di tracce biologiche di terzi".
“Ha detto la difesa – ha continuato la Calò – che solo tre delle diciannove tracce rinvenute sul corpetto sono riferibili con certezza all’imputato. Ebbene i periti del pubblico ministero non hanno mai parlato di 19 tracce, ma hanno spiegato di aver effettuato 19 prelievi... le tracce non sono state contate..."

Poi il PM ritorna sulla compatibilità "morso" - "dentatura". Ovviamente senza mettere minimamente in discussione che le discontinuazioni presenti sul capezzolo sinistro di Simonetta Cesaroni siano la conseguenza di un morso. La difesa non aveva mancato di chiedersi se potessero essere state causate da un altro tipo di azione. Ad esempio un “pizzicotto”. Ilaria Calò sembra non dare alcun peso ai dubbi che pure Carella Prada, il medico legale, aveva espresso nel passato e prende in considerazione soltanto la relazione di Carella Prada e di altri periti stilata diciannove anni dopo l’omicidio. Il PM definisce le controdeduzioni della difesa “elementi fuorvianti” e punta tutta la ricostruzione sulla contestualitàdegli eventi, morso compreso, che definisce una "certezza".
Dice: "Tutte le lesioni sono state prodotte in un breve lasso di tempo”. La lesione sul seno reca una crosticina sieroematica che dimostra la contestualità del morso all’omicidio. Ovvero l'inizio della fase di cicatrizzazione sarebbe iniziato "in limite vitae". Il ragionamento del PM è stato molto lineare. “La lesione da taglio sulla clavicola presenta la medesima crosticina sieroematica e poiché non vi è alcun dubbio tra la contemporaneità del taglio sulla spalla con le ferite inferte con il “tagliacarte”, allora anche il morso, con la medesima crosticina della lesione, non può che essere contestuale".
"L'imputato ha sempre – ha continuato la Calò – ha sempre negato di aver dato un morso a Simonetta... E' pacifico che non vi sono stati altri approcci sessuali dopo il sabato 4 agosto. Il lunedì i due si sono incontrati ma non hanno avuto alcun rapporto sessuale. Quindi il morso non può essere stato dato prima di quel pomeriggio..."
Poi passa ad analizzare uno dei passaggi più delicati di tutto il processo. Ammette che il prelievo sulla porta era stato analizzato e repertato come gruppo A (Raniero Busco è di gruppo 0). Però precisa che quel prelievo era stato effettuato con una procedura che oggi viene considerata sbagliata e non sarebbe mai stata messa in pratica. Infatti, utilizzando una garza sterile era stato raccolto sia il materiale ematico sulla porta che sulla maniglia. L'errore è consistito nel mischiare il materiale. Infatti come è intuibile la maniglia è un luogo altamente inquinato in quanto può essere stata utilizzata da svariati soggetti estranei all’omicidio per accedere nella stanza. Quindi a detta del PM quel prelievo è privo di significato...
Nella parte finale la Calò ritorna sull'assioma fondamentale utilizzato dall'accusa. Ovvero: "Se l'unico DNA rinvenuto sulla scena del crimine è quello di Busco, se nessun’altra traccia biologica riferibile a terzi (ovvero ad un soggetto diverso dalla vittima e dall’imputato) è stata repertata sulla scena del crimine, allora vuol dire che quel giorno lui è stato là, quindi Raniero Busco è il colpevole”.
E la giuria popolare ha creduto che possa essere andata proprio così!

Igor Patruno
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