venerdì 28 gennaio 2011

La quadratura del cerchio. Dubbi e perplessità sulla sentenza per l'omicidio di Simonetta Cesaroni


Si è concluso il processo di primo grado sul delitto di Via Poma con una condanna a 24 anni che riguarda l'unico imputato, l'allora fidanzato della vittima Simonetta Cesaroni.
Una condanna che soddisferà qualcuno (la madre e la sorella della vittima si sono dette soddisfatte) ma che certo non risolve i tanti dubbi, né dipana le troppe ombre che avvolgono questo caso da venti anni.
'Luoghi comuni' dicono le parti civili, ma si tratta degli stessi luoghi comuni verso cui erano state indirizzate le indagini nei mesi successivi al delitto e a cui la famiglia Cesaroni e il loro avvocato parevano allora credere fermamente.

Visto che nessun risultato concreto uscì da quelle indagini, fu una fortuna insperata trovare il dna del fidanzato sugli indumenti intimi della vittima.
E forse intorno a questo risultato si è cercato di costruire un castello accusatorio decisamente un pò forzato.
Per celebrare finalmente un processo? Per mettere a tacere tante voci scomode? Per proteggere indagati rispettabili?
Forse, molto più semplicemente, si è trovato un colpevole possibile (chi meglio dell'ex fidanzato può essere accusato del delitto?), un agnello sacrificale da dare in pasto all'opinione pubblica, funzionale a mettere la parola fine ad un'inchiesta lunga e scomoda.

Sono troppi i tasselli che non si incastrano, troppi dubbi rimasti senza risposta:
- il suicidio di Petrino Vanacore (l'ex portiere della scala B di via Poma)
- la ritrosia di Salvatore Volponi, l'ex datore di lavoro della ragazza) a deporre in aula (rimandi reiterati).
- chi ha pulito sommariamente le tracce di sangue intorno alla vittima e perchè
- la mancata corrispondenza tra il contenuto gastrico (ora della morte entro le 17.00) e le telefonate intercorse tra Simonetta e una dipendente AIAG che terminano alle 17.45 (a cui si deve aggiungere il tempo necessario a commettere l'omicidio)
- le telefonate arrivate in serata a casa dell'allora presidente AIAG e prima della scoperta 'ufficiale' dell'omicidio
- le macchie di sangue di gruppo A (Busco e la vittima sono entrambi gruppo 0) repertate su porta e telefono del luogo del delitto
- il motivo per cui Raniero Busco 'avendo la piena disponibilità sessuale'(la definizione è della criminologa Roberta Bruzzone) di Simonetta avrebbe dovuto attraversare tutta Roma per avere un rapporto pomeridiano extra rischiando di essere visto dai portieri o da altri
- la mancata ricostruzione cronologica degli spostamenti dell'imputato

Tutti questi elementi (insieme a molti altri) portano lontano anni luce da Raniero Busco.

La PM Ilaria Calò, decisa e convincente, ha minimizzato queste 'mine vaganti', cercando di ricondurle ad eventi scollegati e indipendenti dall'omicidio. Le ha definite "catene causali che si snodano in parallelo".
Ma, sebbene abbia convinto la Giuria e i Giudici, non ha convinto molti di noi e molti tra gli opinionisti (criminologi, scrittori, giornalisti) che hanno seguito il processo.

Ma veniamo al "dispositivo" della sentenza. Per le motivazioni occorrerà attendere un po'.
Raniero Busco dovrà risarcire con una provvisionale immediatamente esecutiva (che non attenderà quindi gli esiti dei successivi gradi di giudizio) 100mila euro a Paola Cesaroni, 50mila alla mamma di Simonetta, quindi dovrà farsi carico delle spese legali di parte civile per un totale di 28mila euro, infine 5mila per il Comune di Roma.

Si sta costituendo su Facebook un gruppo di sostegno economico alla famiglia Busco, che cerca sostenitori fra tutti coloro che sono convinti che questa sentenza è una prova iniqua della Giustizia Italiana.

Povera Simonetta! Morta ammazzata venti anni fa, rimasta senza pace e forse senza verità.

Gabriella Schiavon

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