lunedì 7 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - parte 4

La fuga dell’assassino

Il fatto più singolare di questo omicidio, almeno per come è stato rappresentato al processo, è che l’assassino non si dileguò rapidamente dal luogo del delitto, ma si trattenne a lungo per compiere svariate azioni sulla scena del crimine e in altre stanze dell’appartamento.

Azioni che non miravano soltanto a rimuovere dal viso e dalle mani le tracce dell’aggressione (sangue proprio e della vittima), ma anche a cancellare indizi compromettenti, pure a mezzo di manipolazioni, rimozioni e quant’altro.

Questa primaria osservazione assume un significato enorme nella disamina del caso, poiché se effettivamente queste azioni furono compiute, come sostenuto dall’accussa, da una sola persona – l’assassino - pure bisogna accordare a questo individuo il sangue freddo di decidere, ad omicidio compiuto, di compiere azioni il cui fine precipuo è di celare la sua identità, piuttosto che assicurarsi una rapida fuga. Diversamente non si spiegherebbe la decisione di portare con se alcuni vestiti della vittima, accettando quindi il rischio di essere più facilmente notato all’uscita a causa dell’ingombrante fardello.

Questo profilo comportamentale è attribuibile a Raniero Busco?

Ma soprattutto: poteva Raniero Busco concedersi il tempo per compiere tutte quelle azioni?

E non si tratta soltanto di guardare al tempo nella prospettiva di un assassino che quei luoghi frequentava per la prima volta, ma anche al tempo come sequenza cronologica degli avvenimenti che, nel caso di Raniero Busco, deve conciliarsi con la presenza accertata di quest’ultimo al Bar dei Portici intorno alle 19:30, e ciò prescindendo dalle altre testimonianze che lo collocano a casa o sempre al Bar dei Portici in orari antecedenti.

Anche l’orario intermedio delle 18:00, coincidente con l’avvistamento della De Luca, deve essere compatibile con tutti gli altri tempi, a meno di dubitare di questa testimonianza, nel qual caso, però, altri interrogativi andrebbero posti, come si avrà modo di spiegare più avanti.

Infine, la tempistica delle pulizie e di tutte le altre azioni compiute nell’appartamento, devono accordarsi agli orari delle telefonate occorse nel pomeriggio fra la Cesaroni e la Berrettini.

Come avremo modo di vedere più avanti in un capitolo apposito, l’accusa ha messo mano con molta disinvoltura a numerosi aspetti cronologici di questo caso, dalle telefonate alla Berrettini al tempo per le pulizie, con aggiustamenti (o manipolazioni?) funzionali all’esigenza di collocare l’imputato, non solo nel “posto giusto”, ma anche al “momento giusto”.

Trascurando ora ogni valutazione di tipo cronologico, occorre tornare alla questione inerente la fattibilità complessiva delle azioni attribuite a Raniero Busco in quell’appartamento. Azioni, è bene ricordarlo, che comprendono:

  • la pulizia del proprio corpo, ivi compresa una possibile fasciatura da una ferita alla mano o al braccio
  • la pulizia, seppur parziale, del pavimento circostante il cadavere
  • altre pulizie o correzioni della scena del crimine
  • la presumibile ripulitura di oggetti o mobili toccati durante la sosta negli uffici (nessuna impronta palmare di Raniero Busco)
  • il probabile spostamento del tagliacarte usato nel delitto
  • il trafugamento dal corpo e dalla borsetta di Simonetta, di oggetti di valore, denaro e chiavi dell’appartamento
  • lo spostamento del corpetto sul corpo ormai cadavere
  • la sottrazione di alcuni indumenti della vittima
Per valutare se siffatte azioni siano ascrivibili all’imputato, occorre guardare anzitutto all’oggettiva precarietà delle condizioni poste a base del supposto incontro fra i due fidanzati.

Sappiamo che Simonetta, pure nella ipotesi in cui non avesse conoscenza di visite programmate per scopi lavorativi, non poteva comunque avere certezze sul fatto che quel giorno sarebbe rimasta sola per l’intero pomeriggio, posto che oltre ai previsti rientri settimanali di altri impiegati che potevano anche coincidere con i suoi turni, non si poteva escludere l’arrivo di qualcuno dell’ufficio per qualsivoglia motivo.

Inoltre la Cesaroni, dopo un solo mese e mezzo di lavoro svolto a cadenze ridottissime (due pomeriggi a settimana), non poteva aver acquisito così tanta confidenza con l’ambiente di lavoro da consentirgli di pianificare ricevimenti intimi.

Pare dunque poco verosimile che in tali condizioni Simonetta accordasse al fidanzato l’opportunità di un incontro amoroso, già improbabile alla luce della personalità della vittima.

Ma anche volendo concedere che la Cesaroni possa aver combinato un incontro che solo incidentalmente sfocia nell’intimità, viene da chiedersi se uno come Raniero Busco, o altro giovane amante esterno all’ambiente, invece di una fuga precipitosa, si sarebbe premurato dopo il delitto di trattenersi a pulire e pulirsi per non meno di 30 minuti.

Poteva l’amante/assassino gestire quel tempo senza l’assillo di una visita indesiderata?

I fatti, e cioè tutte le azioni compiute in quei trenta minuti, impongono che l’assassino potesse ragionevolmente confidare sul fatto che nessuno l’avrebbe disturbato. Questa sola evidenza ci offre lo spunto per ritenere assai probabile che l’assassino fosse persona con diffuse conoscenze delle abitudini dell’ufficio, tali da consentirgli non soltanto di trattenersi a pulire, ma di programmare lui stesso l’incontro pomeridiano con la Cesaroni.

Ne emerge un quadro assai più lineare e verosimile rispetto all’attuale tesi accusatoria. Tra l’altro l’ipotesi descritta non abbisogna necessariamente di un preventivo accordo con la Cesaroni, ben potendosi pensare ad uno scenario in cui la “preda” subì sostanzialmente l’iniziativa dell’aggessore, molto di più di quanto si è finora creduto in omaggio al voluto contesto da rapporto consenziente.

Ma la riflessione sulla tempistica e sulla fattibilità delle azioni compiute, ove attribuite a Raniero Busco, non si esaurisce con le considerazioni testè esposte, variamente riferite ad azioni comunque interne alla scena del crimine.

Pure bisogna considerare gli aspetti esterni alla scena del crimine, con ciò intendendo l’intero complesso di via Poma, i luoghi, insomma, in cui l’assassino è transitato per fuggire dal luogo del delitto.

Perché se all’interno dell’appartamento l’assassino poteva godere, pur nell’angosciante timore di rimanere intrappolato, della protezione visiva garantita dalle mura, così non poteva essere nel tragitto di uscita fino al momento in cui, presumibilmente, trovò rifugio nella propria auto. Ancor più se, come in effetti accadde, intendeva fuggire portando con sé alcuni indumenti della vittima.

Occorre dunque tornare al momento cruciale in cui l’assassino, compiuto l’omicidio, deve decidere il da farsi.

Sappiamo dalla deposizione peritale inerente l’autopsia che la causa di morte (collasso cardiocircolatorio insorto in via postemorragica) è conseguente alle ferite inferte sul corpo in zone vitali, sicchè è presumibile, perlomeno per alcune di queste ferite, vi sia stata una fuoriuscita copiosa di sangue anche con schizzi che fatalmente hanno imbrattato il corpo e i vestiti dell’aggressore, a meno di considerare che egli fosse nudo.

Abbiamo quindi un assassino con un bel po’ di problemi da risolvere:
  1. alcuni vestiti della vittima da far scomparire (sappiamo che erano un problema per il semplice fatto che li portò via)
  2. le proprie ferite
  3. le tracce di sangue sui propri vestiti
Una situazione davvero drammatica per chi dovette pensare che da quell’ufficio sarebbe dovuto uscire con un fagotto in mano e pure con vistose macchie sugli abiti, che non si possono far scomparire come quelle al viso o alle mani.

Viene da domandarsi quante possibilità di cavarsela poteva costui concedersi azzardando una fuga in quelle condizioni.

Una fuga, se si vuole credere che sia stato Raniero Busco l’assassino, che altra via non poteva avere se non quella percorsa per entrare, l’unica che poteva conoscere uno che non era mai stato lì.

Oltretutto, da quanto si sa dalle deposizioni rese in udienza e all’epoca dei fatti, pare che intorno alle sei l’area nei pressi della fontana fosse molto più affollata di quanto lo fosse una o due ore prima, quando presumibilmente sarebbe entrato Raniero.

Cosa pensò l’assassino, magari guardando dalla finestra, di quel movimento in cortile?

Forse che sarebbe stato più utile farsi notare con un fagotto?

Gli interrogativi non sono casuali, e non mirano soltanto a sollevare obiezioni sulla probabilità, invero assai alta, che l’assassino aveva di essere visto.

Mirano viceversa a rimarcare quanto la fuga non fosse la più immediata preoccupazione dell’assassino.

Molte sono state le azioni che hanno preceduto la fuga e ciò fa ritenere che l’assassino fosse sufficientemente calmo, padrone di sé, padrone dei luoghi, e pure consapevole che doveva tentare una qualche forma di depistaggio prima di abbandonare il luogo del delitto (le chiavi, i denari, i gioelli, il tagliacarte).

Abbastanza calmo da decidere che era meglio trafugare alcuni vestiti.

Abbastanza calmo da decidere di lasciare il corpetto adagiato sul corpo della vittima.

Se tutto ciò aveva la precedenza rispetto alla fuga, deve ritenersi probabile, molto probabile, che l’assassino avesse a disposizione alternative più agevoli e protette rispetto ad una vistosa uscita dal cortile principale.

Alternative rassicuranti.

Rassicuranti al punto che neppure si può escludere che l’assassino disponesse all’interno del palazzo di un locale dove poteva rifugiarsi per ripulirsi in tutta comodità, quale un ufficio o un appartamento fra i tanti del complesso e quindi non solo della scala B.

La planimetria dei luoghi ci potrebbe mostrare che l’area sotterranea, presumibilmente raggiungibile da scale e ascensori, collega tutti i palazzi del complesso, permettendo quindi spostamenti da una scala all’altra senza transitare in cortile e quindi con ottime probabilità di non essere visti.

Area sotterranea in cui si presume siano situati i garage (o parcheggi) che possono aver ospitato l’auto dell’assassino, usata poi per la fuga o comunque per portare via i vestiti della vittima.

Pare dunque evidente che il tempo impiegato nelle azioni di pulizia personale, di riassetto e manipolazione dei luoghi, di depistaggio (furto), di trafugamento (vestiti), siano indizi rivelatori che:
  • l’assassino poteva gestire il tempo con buona sicurezza
  • l’assassino mantenne calma e lucidità
  • l’assassino disponeva, molto pobabilmente, di vie di fuga alternative all’uscita dal portone principale.
Nessuna delle tre affermazioni è compatibile con Raniero Busco, e vi sono soltanto due obiezioni possibili che possono restituire verosimiglianza alla tesi accusatoria.

La prima riguarda la testimonianza di Giuseppa de Luca sulla persona vista in cortile intorno alle ore 18:00.

La seconda riguarda l’ipotesi che sia subentrata una seconda persona ad occuparsi di pulizie e trafugamenti dalla scena del crimine.

Queste due ipotesi meritano un esame dettagliato in quanto incidono gravemente, sia con riguardo all’asserita colpevolezza di Busco, sia rispetto al provato intervento di Petrino Vanacore.

La testimonianza di Giuseppa de Luca

A confutare l’ipotesi che l’assassino possa aver utilizzato vie di fuga meno visibili e quindi più sicure, è intervenuta la testimonianza di Giuseppa de Luca resa l’11-8-1990, 4 giorni dopo il delitto, a ridosso di una rivelazione fatta dal marito Pietrino Vanacore, in quel momento in carcere perché sospettato del delitto.

Fu infatti il Vanacore, sotto la pressione degli interrogatori a dire di aver saputo dalla moglie che Lei aveva visto una persona uscire dal palazzo in orario che poteva confacersi ad un assassino in fuga.

L’immediato riscontro degli investigatori presso la De Luca condusse a dichiarazioni di cui si ha traccia dai verbali, e che qui si riportano

“ Rammento con un ulteriore sforzo che nell'orario in cui mio marito era assente, intorno quindi alle ore 18 circa, di aver visto un uomo alto circa 1,80, con un cappello a visiera che procedeva con la testa abbassata. Quell'uomo era vestito con un pantalone grigio scuro ed una camicia verde ... Posso anche dire che dal modo di camminare sembrava avesse qualcosa in mano sul lato sinistro... Avrà avuto 40 anni, alto, camminava zoppicando leggermente, come chi ha i piedi piatti, aveva un'aria furtiva e portava con se un fagotto".

"Ricorda se qualcuna delle persone che frequenta la scala B usa portare un cappellino a visiera?" Le chiede a questo punto il magistrato Pietro Catalani.

"Sì!" Risponde la signora De Luca e fa due nomi. Uno è sicuramente il geometra Fabio Forza (poi risultato dopo una breve caccia all'uomo essere partito da tempo per le vacanze), l'altro è Salvatore Sibilia.


In successivive dichiarazioni rese ai magistrati e, infine, in quelle rese in aula, si sono aggiunti particolari relativi all’età e al colore dei capelli. Tutti elementi che non essendo stati riferiti nell’immediatezza, hanno accentuato i dubbi sull’autenticità delle dichiarazioni.

In sequenza vediamo una registrazione telefonica del 2008:
“Vogliono sapere se abbiamo visto qualcosa e chi l’ha fatto è bello libero e se la ride alle nostre spalle. Per loro noi abbiamo visto o sentito. Mi rovinerei la vita mia? Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo. Se sapevamo qualcosa l’avremmo detto. Io ho visto uscire uno, l’ho visto da dietro ed era biondo, io che ne so chi era”.

Infine un brano dell’udienza processuale del 7.6.2010

Paolo Loria: “Signora, quando lei riferì per la prima volta dell’individuo visto intorno alle 18 uscire dalla palazzina B, non aveva detto che era biondo. Perché?”
GDL: “Io l’ho sempre detto!”
Loria: “Nei verbali non risulta! Lei disse che poteva essere o Forza, o Sibilia, perché entrambi usavano portare un cappelletto”.
GDL: “Sì confermo! Non so perché nei verbali non risulti… Io ho sempre detto che era biondo!”
Loria: “Lei disse allora che portava un ‘fagotto’ ”
GDL: “Una busta nera”.
Loria: “Lei conosceva chi era solito entrare ed uscire da quell’ufficio, anche in orari diversi da quelli di lavoro?”
GDL: “Salvatore Sibilia e Corrado Carboni. Sibilia mi sembra che era fisso là”.
Presidente: “Vorrei farle ancora una domanda sull’individuo visto uscire dalla palazzina B alle 18. Che andatura aveva? Insomma secondo lei era l’andatura di un uomo giovane oppure no?"
GDL: “Era l’andatura di un uomo di una certa età, non era giovane".

Resta il fatto che nei primissimi interrogatori, tutte le persone che si trovavano in cortile, compresa la De Luca, non ebbero a segnalare alcunchè.

Non è quindi irragionevole supporre che il sopravvenuto ricordo sia stato, per così dire, “programmato” dalla coppia De Luca/Vanacore, durante i tre giorni in cui ebbero modo di parlare fra loro.

Occorre dire sul punto che all’epoca dell’inchiesta contro Vanacore e Valle prevalse l’opinione che la testimonianza fosse veritiera, in quanto resa in un momento in cui i coniugi non avrebbero potuto concordare nulla, stante la detenzione del marito.

Ciò è vero, ma questo fatto non pare precludere in assoluto che vi fosse una pregressa intesa fra Vanacore e la De Luca per riferire certi fatti soltanto nel caso in cui fossero messi alle strette dagli inquirenti.

Depongono in tal senso anche alcune osservazioni riferite in aula dal dr. Cavaliere circa l’uso da parte della De Luca di espressioni linguistiche per lei inusuali, e quindi non spontanee ma con ogni probabilità pattuite precedentemente.

D’altra parte, non si vede perchè la questione debba per forza essere posta nei termini assoluti del vero/falso, ben potendoci essere una terza possibilità in cui è il racconto ad essere concordato, non il fatto.

Seguendo questa traccia si avrebbe che il fatto, cioè l’avvistamento di un sospetto, è vero, mentre il racconto di come è avvenuto l’avvistamento, è sostanzialmente falso.

In cosa, dunque, il racconto differisce dalla realta?
Erano diversi gli orari?
Erano diversi i luoghi in cui la persona fu vista?
E’ diversa la persona che vide l’uomo?
Era persona conosciuta all’avvistatore?

Poichè questi interrogativi hanno un enorme valore dirimente, vale la pena tentare di ricavare qualche utile deduzione da alcuni elementi oggettivi che ci sono noti e certi.

Sappiamo fin dalle prime testimonianze che Pietrino Vanacore, diversamente dalla moglie e dagli altri portieri e dei rispettivi famigliari, alle 18 – 18:30 non stava in cortile, ma era impegnato in altre faccende interne al condominio di competenza.

All’epoca delle prime indagini ciò risultò immediatamente sospetto agli inquirenti, proprio per la singolare concomitanza oraria con la commissione del delitto. Al contrario, oggi si guarda a questa assenza in ragione del coinvolgimento di Vanacore a seguito dell’accertato rinvenimento del corpo.

Pare infatti possibile che Vanacore, proprio per l’assonanza degli orari, possa aver scorto qualcosa di anomalo sulle scale, oppure nei sotterranei dove fu visto dirigersi armeggiando con una scala. Potrebbe dedursi che da questo avvistamento ricavò elementi che gli suggerivano di recarsi all’ufficio degli ostelli. Oppure che ricordò questo fatto in seguito all’accidentale scoperta del cadavere (porta aperta o luce accesa).

Si ritornerà diffusamente su questo fatto allorchè sarà esaminata la questione delle telefonate a Tarano. Ora preme sottolineare come appaia del tutto verosimile che possa essere stato Vanacore, e non la moglie, a vedere qualcuno e qualcosa.

Conforta questa tesi il fatto che Vanacore era l’unica persona che si aggirava in luoghi “sensibili” e prossimi alla via di fuga. Al contrario della De Luca che, stando in cortile assieme ad altre persone, non poteva scorgere soltanto lei, una persona uscire.

Tuttavia, se si ipotizza che la De Luca si prestò a sostituirsi al marito nel ruolo di testimone, è pure necessario capire a quale esigenza rispondeva questo artifizio.

Ora se si considera che il mestiere di portierato può indurre a voler tutelare la riservatezza dei condomini, non pare azzardato ipotizzare che si volesse celare l’appartenenza dell’uomo in fuga ad un dato ambiente, cosa che sarebbe impossibile se nella realtà l’uomo fosse stato visto nei sotterranei da Vanacore.

Ecco dunque che il racconto dell’avvistamento in cortile della De Luca potrebbe rispondere sia alla necessità di proteggere il marito in quel momento in carcere, sia ad una malintesa forma di discrezione verso persone legate al condominio.

Stabilito che l’avvistamento potrebbe essere avvenuto altrove e per opera di Vanacore, sarebbe consequenziale dubitare della fondatezza della descrizione resa negli anni dalla moglie, del presunto fuggitivo.

Le pulizie

La possibilità che sia intervenuta una seconda persona, la quale si sobbarca l’onere di “bonificare” gli ambienti compromessi dall’azione delittuosa, potrebbe essere funzionale all’ipotesi che sia stato Raniero Busco ad uccidere la sua fidanzata. In questo modo, infatti, non sarebbe più necessario attribuire al fidanzato le improbabili (per lui) azioni depistatrici, liberandolo quindi ad una fuga precipitosa molto più consona ad un soggetto che non era mai stato da quelle parti.

E’ ovvio, però, che in questo caso bisognerebbe attribuire al cosiddetto aiutante intenzioni che sarebbero maturate a causa di un incredibile malinteso, essendo del tutto impossibile immaginare che vi fosse in loco un aiutante che conosceva Raniero e che fosse disposto ad aiutarlo.

Dunque un aiutante che corregge la scena del crimine a beneficio di una persona che non c’entra nulla col delitto e che per giunta non è al corrente di questa bizzarra iniziativa.

Pare una affermazione insensata che tuttavia non era del tutto esclusa dal Pubblico Ministero se è vero che durante l’apertura della discussione processuale ebbe ad indicare in Petrino Vanacore colui che in accordo con altre persone si prodigò in depistaggi che avrebbero falsato le indagini per vent’anni.

Una tesi parzialmente abbandonata in requisitoria, forse per la sua oggettiva fragilità, che tuttavia non si fonderebbe su una astratta ipotesi investigativa, ma su una clamorosa scoperta delle nuove indagini iniziate nel 2004, sfociate infine in inequivocabili risultanze processuali, pure condivise dalla difesa.
Risultanze e dunque prove dell’avvenuto ingresso nell’appartamento, prima della scoperta ufficiale, di Pietrino Vanacore.


Sappiamo, e non occorre approfondire, dei molteplici elementi che provano questo fatto (agendina rossa, chiavi col natrino giallo, telefonate a Tarano), che sommati alla circostanza che il portiere si suicida poco prima di deporre proprio su questi elementi, alimentano il sospetto che quell’ingresso nell’appartamento avesse motivazioni molto più circostanziate e gravi di quanto si voglia far credere.

Di questo importantissimo fatto, gravemente sottovalutato in giudizio, si tornerà a parlare nel capitolo dedicato a Pietrino Vanacore e alle telefonate a Tarano.

Preme al momento sottolineare un solo fatto.


Se anche si volesse credere alla tesi finale del Pubblico Ministero di un ingresso accidentale del portiere - la porta lasciata socchiusa - con scoperta del cadavere ma nessuna alterazione sostanziale della scena del crimine, ancora non si spiegherebbe per quale ragione egli non avvisò la polizia, ma predilisse informare i cosiddetti “superiori”.

Pur concedendo al portiere una spiccata ritrosia a confidarsi con le autorità, resta da capire per quale ragione, scartata l’idea di chiamare la polizia, egli non decise di farsi semplicemente e comodamente i fatti suoi.

Perché immischiarsi?

Afferma il Pubblico Ministero che Vanacore tentò di rintracciare l’avvocato Caracciolo e forse altri, perché animato dal fallace sospetto che vi fosse stato un incontro a sfondo sessuale, poi finito male, con protagonista una persona del posto che, per un malinteso senso del dovere, riteneva di dover proteggere informando prima il “padrone”.

E’ credibile tutto cio?

Forse si, ma alla sola condizione che quel sospetto non fosse affatto fallace, ma molto, molto, fondato.

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[Parte 2]

[Parte 3]

Bruno Arnolfo

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