martedì 15 marzo 2011

Ricostruzione ipotetica del delitto Cesaroni - parte 5

Le ricerche

Il primo segnale di una anomalia circa la situazione negli uffici degli ostelli della gioventù si registra alle 18:30 (oppure 18:20 secondo altre annotazioni), quando in base a precedenti accordi la Cesaroni non informa telefonicamente il proprio datore di lavoro circa la conclusione o l’andamento dei lavori programmati per quel giorno.

Sebbene questa informazione provenga dal solo Volponi e non abbia altri riscontri, pare del tutto ragionevole che il datore di lavoro avesse necessità di avere certezza della conclusione dei lavori, proprio per le già riferite apprensioni mattutine da lui stesso riferite al processo: “Si doveva finire questo lavoro altrimenti l'Avvocato ci avrebbe distrutti, strizzati...”.

La mancata telefonata è la prima informazione che Salvatore Volponi riferisce alla sorella di Simonetta intorno alle 21:00 di quel 7 agopsto 1990, quando iniziano le frenetiche ricerche dei famigliari.

Prima però di sviluppare ulteriori riflessioni circa i fatti occorsi durante le ricerche che Paola Cesaroni svolgeva per rintraccaire la sorella, occorre dar conto compiutamente di alcune evidenze processuali che ruotano intorno alla figura di Volponi.

La questione più dibattuta al processo, e più in generale nei 21 anni trascorsi dal delitto, è stata infatti quella di chiarire se Salvatore Volponi conoscesse o meno l’ubicazione degli uffici AIAG e, di conseguenza, fosse già stato, o meno, in via Poma.

Una questione della massima importanza perché se fosse vero che Volponi conosceva l’esatta ubicazione degli uffici, l’averlo celato fin dai primi momenti in cui Paola Cesaroni iniziò le ricerche, rivelerebbe un coinvolgimento attivo nella vicenda, i cui risvolti potrebbero essere decisivi nel dipanare il mistero di via Poma oltre ad escludere la responsabilità penale di Raniero Busco.

Occorre duunque riassumere, seppure in sintesi, quali sono gli elementi che depongono a favore di una conoscenza pregressa da parte di Volponi dell’indirizzo e dei luoghi ove la Cesaroni lavorava il pomeriggio del 7 agosto 1990.

Ecco l’elenco:

  1. la sensazione di Paola Cesaroni, più volte ribadita, che Volponi cercasse volutamente di prendere tempo, fingendo di non conoscere l’indirizzo e attuando azioni dilatorie allo scopo di rallentare le ricerche,
  2. la senzazione, sempre di Paola Cesaroni, di uno stato di agitazione eccessivo e sospetto dello stesso Volponi,
  3. le dichiarazioni rese da Giuseppa De Luca e da Mario Vanacore in cui affermano di aver udito Volponi presentarsi quella sera con l’eloquente “Signora, si ricorda di me?”,
  4. le dichiarazioni rese da Pietrino Vanacore e dalla moglie Giuseppa de Luca circa visite effettuate in più occasioni agli uffici di Via Poma,
  5. l’apparente dimestichezza con cui si muove nel cortile di via Poma e, successivamente, nell’appartamento al 3 piano,
  6. le dichiarazioni di Menicocci che rammenta, pur con qualche dubbio, incontri di presentazione della nuova impiegata avvenuti in via Poma alla presenza di Volponi.
Dunque una serie di riscontri, pure convergenti fra loro, che autorizzano ben più di un sospetto.

Non va dimenticato, tra l’altro, che pure il Pubblico Ministero, ad inizio processo, aveva delineato un coinvolgimento di Volponi, precisando anche il contesto in cui poteva essere maturato. Indicò infatti in Vanacore l’uomo che aveva informato lui ed altri circa quanto era accaduto (il rinvenimento accidentale del corpo), alludendo quindi a possibili intese fra i due, che in seguito avrebbero forzato Volponi a mentire a Paola sulla conoscenza dell’indirizzo e a rallentarne le ricerche.

Ora non preme disquisire sulla fondatezza dell’ipotesi del PM, peraltro in seguito abbandonata, quanto constatare l’evidente imbarazzo che suscitano le circostanze segnalate nell’elenco, tali da indurre chiunque a dubitare della buona fede di Volponi.

Ma vi sono altre persone di cui dubitare?

Si ponga estrema attenzione a questo interrogativo, perchè è fatale che se Volponi mentì riguardo alla pregressa frequentazione degli uffici AIAG di via Poma, pure mentirono coloro che in quegli uffici lavoravano, negando di aver visto Volponi da quelle parti.

Questa imprescindibile constatazione non può essere elusa, e sebbene possa concedersi per qualcuno degli impiegati la possibilità che le visite di Volponi fossero sfuggite alla loro attenzione, certo non si può affermare che tutti non si accorsero di queste visite.

Resterebbe da stabilire chi fra i frequentatori dell’ufficio decise deliberatamente di proteggere Volponi e, soprattutto, per quale grave ragione lo fece, posto che non può credersi che ciò sia avenuto per futili motivi.

Risulta quindi ineludibile la seguente equazione: se Volponi ebbe pregresse frequentazioni degli uffici di Via Poma, coloro che negarono il fatto furono, a vario titolo, coinvolti nel delitto.
Una trama dunque che si dispiegherebbe interna all’ambiente di lavoro e che in assoluto esclude Raniero Busco da qualsivoglia responsabilità.

Ma se è lecito dubitare della buona fede di Volponi e trarne, come innanzi fatto, le più logiche conseguenze, pure necessario è considerare la possibilità che Volponi non avesse mentito in modo così clamoroso e che al contrario ignorasse realmente l’ubicazione degli uffici AIAG, come del resto ha infine sostenuto l’accusa.

Questa ipotesi consentirebbe di recuperare a verità le testimonianze degli impiegati AIAG che appunto affermarono di non aver mai visto Volponi in via Poma. Del resto se gli impiegati AIAG di via Poma avessero, viceversa, visto Volponi in Via Poma, è plausibile pensare che lo avrebbero affermato risoluti, per cui sarebbe stato alquanto rischioso per Volponi affermare falsamente il contrario, prima a Paola Cesaroni e successivamente agli inquirenti che quella notte lo interrogarono.

Come si vede la discordanza delle testimonianze impedisce di avere certezze riguardo alla cruciale questione della sincerità di Volponi sullo specifico aspetto della conoscenza dei luoghi.

Nel processo di 1° grado, come già ricordato innanzi, l’accusa ha infine scelto di credere alla sincerità di Volponi.

Tale decisione, più che essere aderente ai riscontri processuali (che semmai sono di senso contrario), pare volersi accordare all’affermata colpevolezza di Raniero Busco, cosa che risulterebbe impossibile ove si affermasse che Volponi ha mentito, e con lui tutti, o quasi tutti, gli impiegati AIAG.

In questa trattazione, tuttavia, non si vuole a tutti i costi contrastare le ipotesi predilette dall’accusa, soltanto perché apparentemente nocive agli interessi dell’imputato. D’altra parte la questione riferita alla sincerità di Salvatore Volponi, non si esaurisce certamente nell’unica problematica della conoscenza o meno dell’indirizzo. Ben altre possono essere le questioni sulle quali il testimone può essere stato reticente, e pure queste possono rivelare scenari ben lontani da ogni coinvolgimento dell’attuale imputato.

Posto quindi che Volponi potrebbe aver detto la verità riguardo all’indirizzo, è opportuno verificare se vi sono elementi che possono suggerire altre, e forse più gravi, negligernze del testimone.

Per farlo occorre partire dal riscontro più attendibile riguardo alle ricerche fatte quella drammatica sera: il racconto di Paola Cesaroni.


Le fonti disponibili risalgono alla deposizione processuale, nonché ai verbali dell’epoca, uno dei quali molto prossimo agli eventi essendo stato redatto l’8 agosto 1990.
Va da subito notato che risultano alcune differenze fra le deposizioni a verbale dell’epoca e il più recente esame testimoniale. La principale risulta essere quella riguardante la prima visita di Paola Cesaroni e dell’allora fidanzato Antonello Barone, presso l’abitazione di Volponi. All’epoca Paola Cesaroni affermò di essere salita all’appartamento di Volponi, mentre in udienza questo particolare non è stato menzionato. Vi è tuttavia motivo di credere che il ricordo dell’epoca sia del tutto attendibile, per cui può affermarsi che il 7 agosto 1990 Paola Cesaroni salì due volte all’appartamento di Volponi.

Fatta questa precisazione, occorre anzitutto soffermarsi su questa prima visita e sul racconto che ne restituisce Paola Cesaroni.

Quello che emerge con evidenza è il fatto che Volponi pare da subito essere preoccupato, tanto che già alla prima visita decide di far salire Paola Cesaroni. Che si tratti del riferimento alle minacce subite da Simonetta ( verbale Paola Cesaroni del 8.7.90), oppure ad altri fattori, è evidente che il comportamento appare molto sollecito ed apprensivo, forse rivelatore di preoccupazioni già in essere. Del resto è lo stesso Volponi ad affermare di aver quasi avuto l’intenzione di rintracciare la sua dipendente per avere rassicurazioni sul lavoro eseguito. Nulla vieta quindi di pensare che il tentativo di rintracciare Simonetta sia in effetti avvenuto e sia consistito in una chiamata diretta all’ufficio di Via Poma, a cui nessuno rispose.

Infatti non si può escludere che l’orario riferito da Volponi della telefonata attesa per le 18:30, celi in realtà un accordo in cui era previsto che fosse lo stesso Volponi a telefonare per avere notizie del lavoro.

Se così fosse si potrebbe affermare che Salvatore Volponi ebbe sentore di accadimenti imprevisti ben prima della visita di Paola Cesaroni. Accadimenti che alle 18:30 potevano essere variamente interpretati senza includere esiti tragici (Simonetta che se la svigna in anticipo), ma che alle 21:00, con la certezza del non ritorno a casa, potevano anche far temere qualcosa di meno rassicurante.

Si è a lungo discusso, anche al di fuori dell’ambito processuale, sulla possibilità che Volponi già sapesse dell’accaduto, tanto da ipotizzare che l’affermata non conoscenza dell’indirizzo, altro non fosse che un artifizio utile a prendere tempo in favore di chi aveva necessità di riordinare il luogo del delitto prima che si scoprisse il cadavere.

Ipotesi che ovviamente non poteva coinvolgere Raniero Busco, completamente sconosciuto a Volponi, fatto salvo lo scenario ipotizzato inizialmente dalla Procura, dell’intesa fra Vanacore e lo stesso Volponi, di cui si avrà modo di parlare quando si tratterà del coinvolgimento del portiere.
A fianco quindi dell’ipotesi estrema di Volponi già edotto dei fatti, può aggiungersi l’ipotesi più moderata di un Volponi che avesse motivo per temere qualcosa di grave.

Non dunque un Volponi che sa, ma un Volponi che teme.

Invero, l’ipotesi più moderata appare anche la più plausibile alla luce del fatto che l’assassino, chiunque esso sia, non aveva certo interesse a rendere partecipi altre persone di quanto accaduto, se non coloro a cui fosse impossibile celare la verità (es.: un familiare).

Accordata quindi alla tesi “Volponi temeva” il rango di “fatto verosimile” si può vedere se nei suoi comportamenti successivi sono rinvenibili elementi che depongono a favore di questa tesi.

Proseguendo quindi nel racconto di Paola Cesaroni, abbiamo notizia di una seconda visita presso l’abitazione di Volponi, intorno alle 21:30 . Paola riferisce degli infruttuosi tentativi fatti al recapito telefonico dello studio dell’avv. Caracciolo, poi di affannose ricerche di altri soggetti a cui telefonare per avere notizie.

Merita di essere segnalato questo fondamentale passaggio delle dichiarazioni rese il 16 agosto 1990:
"...poi mi diceva che stava telefonando ad un certo avvocato Caracciolo e ad una signora, non ben definita, la quale doveva telefonare a mia sorella nel pomeriggio, ma neppure questa veniva rintracciata, in quanto non ne ricordava il nome.

Emerge dunque che il lavoro che Simonetta Cesaroni doveva svolgere quel giorno, non era svincolato dalla normale routine dell’ufficio, né privo di attenzioni, tanto da esigere interventi diretti ad avere puntuale riscontro dell’attività svolta.

Uno scenario che mal si addice al preteso incontro amoroso fra fidanzati, bisognoso semmai di situazioni gestibili a tale scopo e quindi prive di qualsivolgia insidia rappresentata da verifiche lavorative.
Si ripropone quindi la questione della compatibilità del profilo caratteriale di Simonetta Cesaroni rispetto all’intenzione di utilizzare l’ufficio per incontrare il fidanzato, resa ancor più improbabile dalla circostanza segnalata.

Dalla citazione di cui sopra emerge anche che Volponi era al corrente di queste verifiche pomeridiane, il che conferma l’impressione già esposta circa possibili accordi raggiunti quella mattina.

Più arduo è stabilire in quale misura Volponi possa aver dissimulato in quel colloquio con Paola Cesaroni, le sue reali conoscenze. Indizi in tal senso non mancano e si rintracciano in diversi momenti del racconto pervenutoci dalla sorella della vittima.

Più di tutte, però, appare rivelatrice la scena finale del ritrovamento del corpo, non solo per come viene descritta da Paola Cesaroni, ma anche per come emerge dalle risultanze processuali, in particolare per le deposizioni rese al processo da tutti i protagonisti del ritrovamento.

Fu lo stesso Volponi ad entrare per primo nei locali. La prima stanza visitata era quella di fronte all’ingresso, a sua volta comunicante con quella in uso alla Cesaroni.

Un particolare importante perché soltanto in questa stanza fu accesa la luce. Non così nella stanza del dr. Carboni, dove la luce fu accesa soltanto in un secondo tempo da Antonello Barone il quale dovette persino far uso di un accendino per individuare l’interruttore.

Sappiamo quindi dai protagonisti di quel ritrovamento che la stanza era buia ed era unicamente visibile una sagoma distesa a terra.
Solo una sagoma scura, che tuttavia non impedisce a Volponi di capire cosa fosse accaduto, di uscire con le mani fra i capelli, percorrere il corridoio dove si trova Mario Vanacore che lo ode pronunciare una parola: “bastardo!”.

Due fatti colpiscono: la rapida percezione, pure al buio, di un esito fatale (Volponi non tocca il corpo, né si avvicina a sufficienza da poter scorgere le ferite); l’uso della parola “bastardo!”
Riguardo alla percezione immediata di quanto accaduto, viene da pensare che l’agitazione di Volponi non fosse il frutto di una ansietà congenita all’individuo, bensì la conseguenza di informazioni a lui note (ma mai rivelate) che evidentemente potevano evocare risvolti drammatici.

Informazione che forse coincide con la figura del “bastardo”, una espressione che Salvatore Volponi ha ammesso di aver pronunciato, negando però ogni significato allusivo “ad personam”.
Secondo Volponi, la parola fu da lui pronunciata in senso generico, a condanna di un gesto più che di una persona.

Ammesso che sia usuale, in frangenti simili, fare uso di siffatte espressioni generiche, si fatica a comprendere come potesse dedursi, dalla sola vista al buio di un corpo disteso, che si trattava di una azione condotta da un feroce aggressore, appunto un “bastardo”.

Finchè la stanza rimase al buio, nessuno dei soccorritori ebbe una chiara visione di ciò che era accaduto, tanto che nessuno notò ferite o sangue sul pavimento, solo un corpo inanimato che nell’oscurità nulla poteva rivelare circa una ipotetica aggressione. Forse poteva scorgersi la seminudità, ma da ciò non poteva dedursi così rapidamente una aggressione a sfondo sessuale ….a meno di sospettarla!

Ecco quindi che riappare ciò che in premessa a questa analisi si è ipotizzato riguardo a Volponi, e cioè che quella drammatica scoperta non fosse per lui del tutto inaspettata, il che conduce al cruciale interrogativo se i timori di Volponi avessero un fondamento o meno.

Cruciale e decisivo in quanto è evidente che se i sospetti erano fondati, nessun dubbio vi sarebbe riguardo l’estraneità dell’imputato al delitto.

Questo tema ritornerà prepotentemente nella disamina relativa al rinvenimento del corpo da parte di Pietrino Vanacore, con i medesimi interrogativi. Non occorre, tuttavia, anticipare altri motivi di esame, avendo ancora da discutere dei comportamenti di Salvatore Volponi, quel giorno, quella notte e nei giorni e anni a venire.

Quel che sappiamo è che Salvatore Volponi, a dispetto di certe evidenze, ha sempre negato (o taciuto) di sapere di qualcuno che avesse motivo di recarsi nell’ufficio quel pomeriggio.

E se è lecito sospettare si tratti di un comportamento reticente, pure non bisogna stupirsi che lo sia.
Sappiamo per esperienza che i testimoni tendono a nascondere maggiormente ciò che sospettano, piuttosto che ciò che sanno, e questo perché la coscienza comune impone prudenza quando si riferiscono cose probabili ma non certe, fatti presunti ma non conosciuti, specie nei casi di accadimenti particolarmente gravi. In una parola: se non si è certi di una cosa, non la si riferisce.

E cosi accade che un fatto che non viene riferito alla prima occasione utile, non si ha più la forza di riferirlo dopo, proprio perchè il mutamento di condotta rivelerebbe che inizialmente si è mentito o taciuto, a tutto danno della propria credibilità.

Per 14 anni Salvatore Volponi conferma di non aver mai saputo dove si trovasse l’ufficio e nulla aggiunge su Simonetta Cesaroni e su cosa accadde quella mattina. Finchè nel 2004 esce il suo libro “Io, via Poma e Simonetta …….” in cui fa una rivelazione sorprendente. Afferma in sostanza che fu la Cesaroni a voler rimanere da sola quel pomeriggio, evitando persino le insidie da lui stesso portate per una collaborazione pomeridiana. A corredo della insinuazione, Volponi riferisce confidenze che gli avrebbe fatto la stessa Cesaroni circa spregiudicate fughe all’insaputa del fidanzato verso nuovi orizzonti amorosi.

A fianco dell’ipotesi “nuovo amante” e senza alcuna coerenza narrattiva, Salvatore Volponi offre una seconda ipotesi incentrata sul coinvolgimento di apparati di intelligence, attingendo ad alcune fonti che ruotano intorno al controverso personaggio della Carlizzi. Ne viene fuori uno scenario da esecuzione sommaria, in nulla somigliante all’ipotesi a sfondo sentimentale.

Due piste quindi molto diverse fra loro, ma che a ben vedere hanno un importante punto in comune: sono entrambe estranee all’ambiente lavorativo.

Era forse questa l’intenzione del libro?

[Parte 1]

[Parte 2]

[Parte 3]

[Parte 4]


Bruno Arnolfo

1 commento:

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.